Horror & Thriller

Apostolo: la recensione del film horror di Gareth Evans (su Netflix)

Il regista gallese dei The Raid si dà all'horror folk supportato da Netflix, girando un film in costume ricco di suggestioni che guarda a The Wicker Man, ma troppo approssimativo nella costruzione della sua ambiziosa mitologia

Grazie a The Raid – Redenzione (Serbuan maut, 2011), Gareth Evans è divenuto pressoché immediatamente un idolo per gli appassionati di arti marziali e del cinema action di tutto il mondo. I suoi estimatori sono addirittura cresciuti con il sequel del 2014 che vedeva sempre con protagonista la star indonesiana Iko Uwais, alimentando la speranza di un possibile terzo capitolo, la cui realizzazione è però stata recentemente – e definitivamente – smentita dal regista gallese stesso. Alcuni hanno invece storto il naso quando hanno appreso che il suo prossimo lavoro, Apostolo (Apostle), sarebbe stato uno spiazzante horror in costume, ambientato agli inizi del ‘900 su un’isola a largo del Galles abitata da una piccola comunità dedita a uno misterioso culto.

Certo, il filmmaker aveva già in parte esplorato nel 2014 il genere in un segmento dell’antologico V/H/S/2 intitolato “Safe Haven”, eppure non si era mai cimentato nella regia di un lungometraggio del terrore. Questo almeno fino ad ora, quando grazie al supporto di Netflix (che certo non si tira indietro quando si tratta di finanziare la cinematografia indipendente) è riuscito a mettere insieme le risorse per questo singolare e – almeno per ciò che concerne la sua carriera sino ad oggi – anomalo folk horror.

Sceneggiato, oltre che girato, da Gareth Evans, Apostolo ha indubbiamente qualche pregio, ma anche diversi problemi. Anzitutto, forse un po’ troppo manifesto è l’influsso diretto del modello alla base, soprattutto nella prima parte, che risulta quindi quella meno originale, ma al contempo la più coerente.

Nei primi 30-40 minuti di film sembra infatti quasi di assistere a un libero remake di The Wicker Man (1973) di Robin Hardy, collocato però in una società ancora più bigotta. Come nel classico del 1973, un uomo, Thomas Richardson (Dan Stevens), dopo l’arrivo di un’allarmante lettera della sorella, si reca in incognito sulla remota isola di Erisden, in cui vive una piccola comunità rurale guidata dal sedicente ‘profeta’ Malcolm (Michael Sheen).

L’unica differenza con il film di Hardy sta nel fatto che qui si tratti di rapimento con richiesta di riscatto e che a cercare la scomparsa sia il fratello della stessa. Comunque sia, Thomas, che ha infelici trascorsi come missionario e ha perduto la propria fede, riesce a tenere segreta la sua identità e intanto cerca di capire dove sia tenuta la prigioniera, ma nel farlo s’imbatte in un segreto decisamente sconvolgente, che ha le sue radici in una arcaica entità che si cela in quei lidi dagli albori dei tempi.

Una setta, un profeta carismatico, una caccia all’uomo e sinistri riti in onore di una qualche terrena divinità, molteplici sono le suggestioni di cui è disseminato Apostolo, affascinando – più che spaventando in senso stretto – a un primo e un po’ più distratto sguardo lo spettatore. Tuttavia, non solo molte di queste sono attinte da altro, ma – problema non indifferente – sono affastellate senza una vera e propria coerenza, unità di fondo e, se si pone una minima attenzione, parecchi sono i dettagli calati ex abrupto nella narrazione.

Tale carenza rende numerosi passaggi poco chiari o sconnessi e non fa certo capire a dovere le psicologie e le motivazioni dei personaggi principale; anzi, sembra quasi che agiscano così, in preda a strani raptus, in modo da ottenere un certo effetto sorpresa, una svolta che stupisca lo spettatore. D’altra parte, la trama è parecchio intricata e incrocia diversi filoni diegetici, che però non sono assolutamente svolti a dovere, ma solo appena accennati e poi lasciati lì, sospesi in attesa di un degno compimento che non arriverà mai.

Ne risulta perciò un storia a più tratti decisamente sibillina, nebulosa, aspetto certo ricercato dallo sceneggiatore e regista gallese, ma che impatta non poco sull’insieme. Manifesta (lo ha dichiarato il Gareth Evans stesso durante un incontro con la stampa al Festival di Sitges) è la volontà di guardare ad alcuni cult particolarmente visionari, oltre al già citato The Wicker Man, come I Diavoli (The Devils, 1971) di Ken Russell e i più recenti Kill List (2011) e I disertori – A Field in England (2013) di Ben Wheatley.

Tuttavia, il filmmaker, nel tentativo di replicarne la paradossalità, l’estetica e lo sviluppo surreali perde di vista la percezione di insieme, dando la sensazione di un lavoro sconnesso e approssimativo, di non saper gestire un puzzle mitologico così articolato. Troppi sono quindi gli interrogativi lasciati senza risposta: perché due giovani devono tenere il loro amore segreto? Perché il padre di lei dovrebbe adirarsi tanto? Chi è il bizzarro individuo (che sembra uscito da Silent Hill) con una maschera di vimini che si ‘teletrasporta’ da una parte all’altra dell’isola? Chi sono le persone che abitano il villaggio e perchè han scelto quello stile di vita?

Le imprecisioni non implicano tuttavia che a livello visivo Apostolo non si estremamente affascinante. Le lande spazzate costantemente dal vento, un vento tangibile e gelido, il paesaggio incontaminato, presentato dall’alto all’approdo a Erisden dei nuovi accoliti tra cui si cela Thomas, sono catturati in maniera impeccabile dalla fotografia dello storico collaboratore Matt Flannery (The Raid 1 & 2 e Merantau).

Inoltre, l’insieme di case minimali di legno, il dedalo di sottopassaggi sotterranei, il succedersi di pratiche enigmatiche come quella di lasciare vasetti pieni di sangue fuori dalle stanze la notte, molti sono i particolari intriganti di cui è disseminato il film. Gareth Evans costruisce in un crescendo l’angoscia, un indizio e una verità rivelata alla volta.

Rumori sinistri, sibili, creature che strisciano nella penombra, la prima parte è indubbiamente molto promettente, si potrebbe dire conturbante, nonostante la sua derivatività. Allo stesso modo, soprattutto per gli amanti delle immagini forti, alcune scene di tortura scatenate nel terzo atto rimangono impresse nella mente per brutalità, in particolar modo una in cui viene letteralmente aperta la testa di uno sventurato per ‘purificarlo’ (il regista ha studiato a fondo i metodi di supplizio medioevali per trovare degna ‘ispirazione’).

Anche l’atmosfera claustrofobica è innegabilmente ben costruita, fatti di sguardi sospettosi, di incursioni notturne per spiare gli antagonisti, di fughe in luridi rivoli pieni di liquami e carcasse. Infine, tutto il cast, in primis il paranoide Dan Stevens e Michael Sheen, regalano un’ottima prova attoriale, seppure la caratterizzazione del personaggio incarnato dal secondo abbia fin troppe ambiguità e incoerenze in sé.

In definitiva, Apostolo si rivela un horror ambizioso e non privo di interesse e di fascino, che dimostra come Gareth Evans non vada semplicemente etichettato come un regista di cinema d’azione, ma andando oltre la superficie, all’impalcatura visiva e agli escamotage narrativi che ammaliano e stupiscono d’impatto, si rivela un’opera incompleta, come se in fase di finitura qualcosa fosse stato smarrito nel processo. Per chi volesse, il regista ha comunque spiegato il significato e il finale del film.

Di seguito trovate il trailer internazionale (con sottotitoli italiani) di Apostolo, presentato in anteprima europea al festival di Sitges e nel catalogo di Netflix dal 12 ottobre:

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Published by
Sabrina Crivelli