Home » Cinema » Horror & Thriller » Recensione story: Blair Witch di Adam Wingard (2016)

Voto: 5/10 Titolo originale: Blair Witch , uscita: 15-09-2016. Budget: $5,000,000. Regista: Adam Wingard.

Recensione story: Blair Witch di Adam Wingard (2016)

18/09/2025 recensione film di Marco Tedesco

Dopo oltre 15 anni, il regista tornava nei lugubri boschi di Burkittsville con più tecnologia e molto meno mistero

blair witch 2016 film wingard

L’onda d’urto di The Blair Witch Project (1999) fu possibile in un contesto irripetibile: internet ancora acerbo, attori sconosciuti, dispositivi poveri ma credibili, una strategia di diffusione che confondeva finzione e realtà e un linguaggio a “filmati ritrovati” che sembrava davvero materia recuperata dai boschi.

Quell’esperimento, costruito su fame, stanchezza e disorientamento reali, trasformava la povertà di mezzi in autenticità percettiva: il fuori campo sonoro, la granulosità dell’immagine, il non visto come fulcro del terrore. Diciassette anni dopo, Blair Witch (2016) tenta di riaprire lo stesso varco, ma in un ecosistema saturo di imitazioni e con un pubblico assuefatto. Il confronto, inevitabile, mette a nudo due idee di paura: minimalismo contro ridondanza, sospensione contro assalto, incertezza contro spiegazione.

Nel 1999 l’angoscia nasceva dalla sottrazione: tre ragazzi qualunque, boschi senza punti di riferimento, notti che sembrano non finire, un montaggio che lascia l’immaginazione lavorare. Ogni scricchiolio suggeriva una minaccia senza volto; ogni inquadratura tremante diventava un varco per l’ignoto. Nel 2016, al contrario, l’apparato tecnico si moltiplica: microcamere auricolari, dispositivi ad alta definizione, aeromodello con telecamera, montaggio che salta da un punto di vista all’altro come in un videogioco. L’idea, in teoria fertile, è fotografare il nostro presente iper-registrato, dove tutto è ripreso da tutti; in pratica, però, la proliferazione degli sguardi produce l’effetto opposto: invece di aumentare la verità dell’esperienza, la atomizza, la rende “spettacolo” continuo. Quando tutto è visibile, nulla risulta davvero inquietante.

blair-witch-wingardLa differenza decisiva riguarda il suono e il ritmo. Nel film del 1999 il paesaggio acustico era una carezza rovesciata: fruscii, passi lontani, colpi nel buio che suggerivano una presenza impronunciabile. Nel 2016 l’apparato sonoro diventa martellante, con spaventi improvvisi, rumori roboanti, tende che volano e alberi che sembrano abbattersi a comando. È una grammatica dell’urlo che cerca di colmare col volume ciò che non sa ottenere con l’attesa.

Se nel primo film lo spettatore “riempiva” i vuoti con la propria paura, qui la paura viene somministrata a cucchiaiate, alzando il tono fino all’assuefazione. Questo spostamento non è solo stilistico: racconta due epoche. Alla fine degli anni Novanta bastava l’ipotesi del reale per dare vertigine; nel 2016, saturi di immagini, si pretende la stimolazione continua, e la sospensione lascia il posto alla scossa.

Anche la costruzione narrativa illumina lo scarto. Blair Witch aggiorna la missione: James torna nei boschi per la sorella Heather, accompagnato da amici e da chi, nella rete oscura, alimenta la leggenda. Sulla carta, l’intreccio introduce temi promettenti: l’ossessione familiare, la manipolazione digitale, la memoria come trappola. Affiora persino un’idea potente, la deformazione del tempo nel bosco: ore per alcuni, giorni per altri, l’aurora che non arriva mai. Ma queste piste rimangono alluse: la manipolazione temporale serve al brivido dell’istante e non diventa davvero pensiero del film; l’orrore corporeo, quando affiora, resta episodio; l’ambiguità su chi mette in scena i segnali della Strega non si sostanzia in ambivalenza morale. È cinema che accenna e fugge, come se avesse paura della propria migliore intuizione.

La stessa mitologia della Strega di Blair, nel 1999 tenuta ai margini e dunque più temibile, qui tende a farsi didascalia. I simboli appesi agli alberi e i tumuli di pietre tornano come icone riconoscibili, ma ormai sono marchi di serie, non presenze indicibili. Persino la celebre “posa nell’angolo” riceve una spiegazione che addomestica l’enigma. Laddove l’originale costruiva un vuoto narrativo che continuava a lavorare dopo i titoli di coda, il seguito preferisce chiudere cerchi, mettere etichette, offrire risposte: una scelta coerente con un’epoca che pretende interpretazioni pronte all’uso e che, proprio per questo, perde il brivido dell’indecidibile.

Non mancano momenti riusciti: la notte che non cede alla luce del mattino, il cunicolo di fango che stringe lo sguardo fino all’apnea, l’uso dei molteplici punti di vista quando l’azione esplode, qualche lampo di ironia sociale (il vessillo confederato in salotto) che suggerisce fratture culturali. Ma sono frammenti che non cambiano la traiettoria: il film diretto da Adam Wingard ricalca il percorso del 1999, accelerandolo e ispessendolo, senza ridefinirlo. Anche i personaggi, più numerosi e perennemente ripresi, sono funzionali al meccanismo: corrono, urlano, si perdono, si separano. Manca quella progressiva erosione psicologica che, nell’originale, faceva sentire addosso la fatica, la fame, l’irritazione che scivolava in paranoia.

Sul piano storico, il confronto è impietoso. The Blair Witch Project fu un “cambiamento di gioco” non per un colpo di scena interno, ma per un’operazione esterna al film: l’intelligenza con cui mise in crisi i confini fra racconto e realtà, fra promozione e narrazione, fra sala e rete. Blair Witch provava una sorpresa simile nella fase di lancio, nascondendo il titolo vero fino all’ultimo, ma una volta in sala abbandonava la via dell’invenzione e si rifugia nella ripetizione amplificata. È il destino di molte serie dell’orrore: quando l’idea diventa formula, l’angoscia si fa rituale e il rito, per sua natura, tranquillizza.

blair-witch-2016Perché il seguito non funziona davvero allora? Perché scambia la paura con il puro sussulto, l’atmosfera con l’effetto, l’ignoto con la spiegazione. Invece di interrogare il nostro modo di vedere – e di registrare – il mondo, si limita a moltiplicare gli occhi. Invece di trasformare la tecnologia in drammaturgia, la usa come scenografia. Invece di tornare al bosco come spazio mentale, lo tratta come parco giochi dell’orrore. Così il cuore della leggenda, che vive di allusioni e silenzi, si perde in un brusio ininterrotto.

Eppure, proprio nel fallimento, questo film del 2016 dice qualcosa del nostro presente. Siamo una comunità che filma tutto, che pretende prove, che affida alla registrazione la verità delle esperienze. La Strega di Blair, qui, non spegne le telecamere: le lascia accese, perché il supplizio continui a essere condiviso. È una intuizione quasi filosofica, che meriterebbe uno sguardo più rigoroso: se tutto è testimonianza, dove si nasconde l’orrore? Forse, ancora e sempre, nel fuori campo. L’originale lo sapeva. Il seguito lo dimentica.

In termini di ricerca e visibilità, questo confronto fra The Blair Witch Project (1999) e Blair Witch (2016) intercetta temi chiave per chi cerca una recensione approfondita: analisi della messa in scena a filmati ritrovati, differenze tra minimalismo e spettacolarità, evoluzione della mitologia della Strega di Blair, ruolo dei dispositivi di ripresa, rapporto fra paura e spiegazione, funzione del suono, efficacia del finale. È il nucleo di una riflessione critica che non si limita a dire “più forte” o “più debole”, ma prova a capire perché un’esperienza irripetibile non si lascia duplicare, e come la ripetizione, quando non è reinvenzione, finisce per svuotare ciò che pretende di celebrare.

Di seguito trovate il trailer italiano di Blair Witch:

good boy film horror 2025
Honey Don't! (2025) margaret qualley
Horror & Thriller

Honey Don’t!: la recensione del film noir di Ethan Coen

di Marco Tedesco

Margaret Qualley e Chris Evans sono al centro di un'opera a tinte queer esteticamente raffinata ma confusa

film founders day 2024 horror
Horror & Thriller

Founders Day: la recensione delo slasher di Erik Bloomquist

di Gioia Majuna

Un prodotto che promette sangue e satira ma non affonda: confezione curata, politica inoffensiva e pochi brividi memorabili

film una di famiglia sydney e amanda