Voto: 6/10 Titolo originale: El ataúd de cristal , uscita: 30-09-2016. Regista: Haritz Zubillaga.
[recensione da Sitges 49] El Ataúd De Cristal di Haritz Zubillaga
19/10/2016 recensione film El ataúd de cristal di Sabrina Crivelli
Il metafilmico thriller d'esordio del regista basco ci proietta in una claustrofobica e terrificante prigione di lusso
Minimale eppure non povero, El Ataúd de Cristal (The Glass Coffin), esordio del basco Haritz Zubillaga, riesce a creare una notevole suspense, una strutturata impalcatura drammatica, pur rimanendo per gran parte dello svolgimento all’interno dell’abitacolo di un’automobile.
Un’attrice di successo, Amanda, interpretata dall’espressiva Paola Bontempi (che ha lavorato nel 2010 con il regista nel suo corto She’s Lost Control) viene raggiunta, di sera, da una limousine. Si sta recando a ricevere un prestigioso premio alla carriera. La vettura è ovviamente dotata di ogni comfort, champagne, schermo ultrapiatto e perfino un vassoio con della cocaina. La donna lo nota e scherza al telefono con il compagno, che non è riuscito a raggiungerla, sembrerebbe per problemi con l’aereo. La strada scorre, i minuti trascorrono, e d’improvviso parte un filmato: è un’intervista alla diva che parla del ruolo che l’ha resa famosa molti anni prima, una donna autistica in un film indipendente drammatico. Amanda, che sta provando il discorso per l’importante premiazione, è disturbata dalla visione, più volte dice all’autista di spegnere lo schermo, insofferente per l’ennesima volta in cui sente parlare di quel film, di cui probabilmente infiniti giornalisti le hanno chiesto nel tempo. Ed è qui che l’atmosfera cambia. Una voce metallica, sempre più scortese, si rivolge a lei con tono inquisitorio. Inizialmente l’attrice pensa a una candid camera, o a uno scherzo del marito, ma presto scopre che non lo è per niente, che quella la realtà.
Anzitutto si tratta di un film altamente teatrale, recitativo, fatto dettato dalla limitatezza della scena, uno spazio minimo in cui la Bontempi deve sviluppare la propria performance, e del cast, composto solo da lei, dall’autista e dalla voce fuori campo. L’azione si dipana tutta qui, certo è una sfida, soprattutto per colei che deve reggere sulle sue spalle i 75 minuti dello svolgimento, in un dialogo di cui lei è quasi l’unica interprete in carne e ossa, a parte le sporadiche e fulminee apparizioni dell’assalitore mascherato. Immediatamente l’ambiente claustrofobico richiama il Cosmopolis del visionario David Cronenberg. Anche lì il vincolo spaziale, la prigione mobile, è un imperativo diegetico, ma è in quel caso un luogo volontario, dove vigono confini fluidi e il giovane milionario (interpretato da Robert Pattinson) incontra una serie di emblematici e vacui personaggi.
In El Ataúd de Cristal è invece una vera e propria cella mobile, seppur lussuosa, il carceriere è folle, perverso e immateriale, Amanda non può affrontarlo, nemmeno vederlo, solo seguire i suoi ordini, sperando in un gioco equo, quando non lo è affatto, e le cui regole cambiano in continuazione. E’ un macabro cammino di espiazione, guidato da uno psicopatico morboso che interroga la sua vittima e le svela, lentamente, un indizio dopo l’altro la verità, in un duro, agghiacciante percorso di riabilitazione condotto da un censore simile al Jigsaw di Saw – L’Enigmista di James Wan. Tuttavia c’è qualcosa di più, un segreto, una terribile colpa della vittima che ha determinato la creazione del suo carnefice, tra giustizia e vendetta, in una dinamica, in uno scambio sempre più soffocante.
Forse circoscritto in termini di location e di numero degli attori, la pellicola non lesina in quanto all’utilizzo di mezzi espressivi. La recitazione è fortemente, obbligatamente, fisica, unico modo di tenere viva la narrazione. Ogni oggetto di scena è sfruttato e diventa in qualche modo lesivo, arma, causa di sofferenza, ma non solo. Le luci, elemento connotativo essenziale, con il loro variare dal fioco al rosso all’accecante, anticipano i netti cambiamenti di ritmo, le tappe fondamentali di una terrificante discesa nei più turpi emisferi della psiche.
Infine, decisamente metafilmico, il thriller è incentrato sul lavoro attoriale, parla del crudele e ingiusto mondo del cinema, delle strade che si possono prendere e dei percorsi oscuri in cui si può precipitare. E’ un iter dicotomico, presenta i due volti antitetici di una stessa realtà, ma non solo. Perfino le vessazioni, le torture, sono imposte usando una terminologia prettamente filmica e tutto è ripreso dall’occhio vigile, freddo e impassibile della cinepresa, che combacia con quello del torturatore. In ultimo, emerge il lato più scabroso del girare, la pornografia, o cinema per adulti, fino ai suoi limiti più estremi di perversione e dalla finzione filmica si esula nel reale, in un avvicendarsi di sangue, violenze carnali e pestaggi, con particolari davvero crudi, difficilmente presentabili in sala.
Intellettuale, metacinematografico e raffinato, El Ataúd de Cristal lavora sulle psicologie, sulla gestualità, sul sangue e sulla sofferenza, dando vita a immagini forti, a un viaggio oscuro e, all’apparenza, senza possibile via di uscita.
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