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Voto: 8.5/10 Titolo originale: Full Metal Jacket , uscita: 26-06-1987. Budget: $30,000,000. Regista: Stanley Kubrick.

Recensione story | Full Metal Jacket di Stanley Kubrick

10/09/2019 recensione film di William Maga

Nel 1987, il regista raccontava in modo lucidissimo e scioccante le brutalità della guerra (non solo del Vietnam)

Vincent D'Onofrio, R. Lee Ermey, Matthew Modine e Arliss Howard in Full Metal Jacket (1987)

“Un altro film sul Vietnam??” Questo si saranno chiesti in molti nel 1987. Ma Full Metal Jacket è qualcosa di più, e di meglio. Si tratta di un film sul Vietnam e su tante altre questioni di capitale importanza. Ieri come oggi, a distanza di oltre 30 anni. Senza contare che era il nuovo attesissimo lungometraggio di Stanley Kubrick, all’epoca una sorta di esule volontario dagli Stati Uniti approdato nei pressi di Londra ma da sempre cineasta in avanscoperta con lavori cinematografici di intensa, ramificata sostanza (il suo lavoro precedente, Shining, risaliva al 1980).

In più, il Vietnam, con tutti gli annessi e connessi, era ritornato sorprendentemente di attualità all’epoca (prima con Rambo di Ted Kotcheff, poi coi coevi Platoon di Oliver Stone e I giardini di pietra di Francis Ford Coppola), che costituiva certo un elemento importante dell’opera del regista di New York. Pur se materia del contendere principale era qui la strenua riflessione sulla violenza, sui perversi contraccolpi che essa innesca sia sul piano psicologico individuale, sia su quello sodìciale-collettivo.

full metal jacket film posterUna riprova ad absurdum per fu data dal fatto che, giusto a proposito di Full Metal Jacket (una locuzione gergale con cui si definisce tra i Marines la particolare proprietà delle pallottole corazzate), la reazione generale dell’opinione pubblica in America si mostrò al tempo più che mai polemica, insofferente delle tesi, della mediazione narrativa prospettate da Stanley Kubrick. In questa sorta di reportage sulla rovinosa sindrome patita negli States – e dovunque – in seguito alla conclusa, lontana «sporca guerra» nel Sud Est asiatico.

In effetti, il solo precedente omologo a Full Metal Jacket sembrerebbe quella tragica ‘danza macabra’ orchestrata da Robert Altman sul tema ossessivamente incombente della guerra nel suo memorabile «oratorio profano» Streamers del 1983, non a caso strutturato e dipanato, prima, come una torva pantomima e, poi, come un morboso psicodramma tra vicende e personaggi sempre ai margini dell’autodistruzione insensata quanto incomprensibile.

Ulteriore elemento di raccordo appare poi il giovane Matthew Modine che può vantare una singolare costanza nell’impersonare soldati e reduci particolarmente segnati nel fisico, nella mente, da esperienze sconvolgenti, traumatiche. Come anche accade, per lo stesso Modine, nel non dimenticato Birdy – Le ali della libertà di Alan Parker (1984), altra straziante, desolata testimonianza sui guasti irreparabili dei conflitti.

Per tornare al film di Stanley Kubrick, si tratta in qualche modo di una duplice costruzione, articolato come è Full Metal Jacket in due blocchi narrativi distinti e pur sempre correlati tra di loro. Nella prima, più impressionante parte, infatti, si racconta con puntiglio quasi maniacale per i dettagli, per quel turpiloquio bestiale del tipico sergentaccio tutto urla e grinta (il memorabile R. Lee Ermey), come e perché nell’addestrare le reclute dei Marines si tenda a fare di queste soltanto – ed esclusivamente – degli individui pronti (o ‘nati’) per uccidere. Non nel senso, però, di ridurli al rango di robot, ma proprio con l’intento di con servare in loro quel tanto (o quel poco) di raziocinio, come spiega bene il solito ringhioso, spietato Sergente Maggiore Hartman, perché ogni più cruenta impresa sia mandata ad effetto con lucida consapevolezza contro un ben determinato «nemico», i rossi.

Raramente si è visto sul grande schermo in un film di fiction una rappresentazione tanto veristica, così emotivamente scioccante, della brutalità, del programmatico cinismo con cui, nella pratica di una precettistica militare esasperata, si tende a disumanizzare, a disarticolare qualsiasi personalità, ogni carattere individuale per instillare poi, insidiosamente, una sorta di perversa, sovvertitrice morale in forza della quale derogare da tutti i consacrati principi civili di tollerante convivenza diventa quasi automaticamente un in erogabile, meccanico impulso.

Si può verificare a fondo quanto or ora detto proprio nella seconda parte di Full Metal Jacket, pur se l’epilogo prevedibilmente cruentissimo dello scorcio iniziale di quest’opera, con quel giovane un po’ sovrappeso (il soldato ‘Palla di Lardo’ di Vincent D’Onofrio) indotto al gesto più disperato dalla provocatoria persecuzione del sergente aguzzino, costituisce per se stesso un sintomatico sbocco di una tragedia didascalicamente esemplare.

Stanley Kubrick and Matthew Modine in Full Metal Jacket (1987)Dicevamo dunque, della seconda parte ove proprio nel divampare spaventoso, infernale, della guerra guerreggiata nei declinanti anni Sessanta, nella spettrale città di Huè devastata e frantumata dalla poderosa offensiva dei Têt e dalla conseguente controffensiva americana, le inenarrabili vicissitudini dell’indocile, anticonformista corrispondente di guerra Joker (appunto Matthew Modine) e dei commilitoni più o meno contagiati dalla ferocia della guerra si fondono, si confondono ormai indistinguibili nel pozzo di abiezione, di totale disumanità. Significativo, acutamente angoscioso, è in questo senso l’episodio della cecchino vietnamita morente (Ngoc Le) che invoca, più stanca che disperata, che le diano il colpo di grazia per porre fine a tanto orrore, a simile infinita sofferenza.

Di Full Metal Jacket si può dar conto così, per sprazzi e lampi sporadici, poiché in effetti è davvero irraccontabile. Specie in quella sua serrata, convulsa evocazione di eventi e di immagini, di sentimenti e di drammi irrisolti che sono tanta parte della non pacificata coscienza del mondo sul tormentoso ricordo del Vietnam. Stanley Kubrick, d’altra parte, non è nuovo a questi severi, inoppugnabili memento sui dubbi splendori e le sicure miserie del ventesimo secolo.

Infatti, l’impeto drammatico, la vigorosa perorazione civile che traspaiono evidenti da questo ‘film di guerra contro ogni guerra‘ si riallaccia coerente, quasi senza soluzione di continuità, a quell’altra opera-invettiva di Kubrick su un’analoga, disperante tragedia, Orizzonti di Gloria del 1957. Per quanto concerne infine la resa formale di questo stesso Full Metal Jacket, è quasi superfluo sottolineare che la maestria acquisita in circa trent’anni di rigorosa milizia cinematografica, attraverso e oltre i consacrati «generi» della Settima Arte, consente al regista di avventurarsi anche stavolta tra arditezze e vertici espressivo-stilistici davvero memorabili.

Quasi quanto i prodigi luministici dei mirabile Barry Lyndon o le strabilianti invenzioni drammaturgiche della paurosa favola di Shining. In poche parole, Stanley Kubrick tocca con Full Metal Jacket la pienezza esaltante di un altro innegabile capolavoro. Ma, in fondo, non poteva altrimenti.

Di seguito la clip in italiano dell’ispezione del Sergente Maggiore Hartman in Full Metal Jacket: