Recensione Story: Giochi di Morte e Detective Stone, due piccoli classici con Rutger Hauer da riscoprire
30/07/2019 news di Francesco Chello
Ricordiamo l'attore olandese pescando due film 'minori' della sua sottovalutata cinematografia
Da qualche giorno abbiamo saputo della scomparsa del grande Rutger Hauer, avvenuta lo scorso 19 luglio. A giudicare dai gusti cinematografici che conducono la vostra navigazione su questi lidi (ed ancora di più se appartenete alla mia generazione di figlio degli anni 80), mi sento di poter parlare di Rutger Hauer come di un interprete a cui siete legati tanto quanto lo sono io. Ne sono sicuro, ci scommetto la mia casa al largo dei bastioni di Orione.
Talentuoso e dannatamente versatile, con quel viso spigoloso e gli occhi di ghiaccio, il carisma e la forte presenza scenica, la sua particolare ironia si opponeva a momenti di malinconia e inquietudine. Doti che gli hanno permesso di spaziare tra generi e ruoli, lasciando il segno soprattutto su un pubblico che ancora gli vuole bene.
Ecco, Rutger Hauer appartiene a quella schiera di attori a cui lo spettatore finisce inevitabilmente per affezionarsi, interprete capace di esaltarsi in opere di un certo livello ma anche di rendere appetibili (o addirittura salvabili, a seconda dei casi) quelle meno riuscite, a cui prendeva parte. Olandese, classe 1944, figlio di attori, Rutger tenta vari mestieri (tra cui una carriera militare), prima di decidere di seguire le orme genitoriali, per sua (e nostra) fortuna.
Ma credo che, sempre per quei gusti di cui parlavo sopra, non ci sia bisogno di spiegarvi chi fosse Rutger Hauer così come potrebbe essere superfluo snocciolarvi la filmografia essenziale, su cui probabilmente sarete più preparati di Wikipedia.
Il nostro scopo, oggi, è quello di ricordare ed omaggiare il buon Rutger Hauer attraverso la riscoperta di un paio di suoi titoli meno noti al grande pubblico. Due film che, come altri esempi in carriera di cui potremmo parlare in altre occasioni, sono comunque riusciti ad ottenere lo status di piccoli cult tra gli appassionati di genere. Mi riferisco a Giochi di Morte e Detective Stone.
Giochi di Morte viene distribuito tra la fine del 1989 e l’inizio del 1990, negli States col titolo The Blood of Heroes, in altri paesi come The Salute of the Jugger. Prima ed unica regia di un lungometraggio per David Webb Peoples, già sceneggiatore di Blade Runner di Ridley Scott e Ladyhawke (quest’ultimo non accreditato) diretto da Richard Donner, da cui, manco a dirlo, chiama subito Rutger Hauer come protagonista di fiducia in modo da mettersi in comfort zone prima ancora di cominciare.
Esponente del post apocalittico, il film di Peoples è uno dei più interessanti tra i figli minori di Mad Max (il nostro dossier). L’opera di George Miller era stata apripista di un vero e proprio filone è ed chiaro che in qualche modo finisca per essere un modello di riferimento ed ovvia fonte di ispirazione (e plagio, talvolta) per chi si addentra in quei territori. In comune con Mad Max c’è l’ambientazione polverosa, la desolazione, la violenza ed il sangue, la regressione di buona parte della popolazione superstite.
Peoples non si nasconde, non solo sceglie locations australiane che, oltre ad essere più economiche, rendono maggiormente l’idea di luoghi selvaggi, ma assolda lo stesso direttore della fotografia, David Eggby, ed offre il ruolo da antagonista (anche se meno incisivo o centrale di quanto lo fosse in Mad Max) a Hugh Keays-Byrne. David, però, ha l’intelligenza di limitarsi a cercare quelli che sono solo dei punti di contatto, senza proporsi come clone malriuscito del cult di Miller, evitando così paragoni controproducenti.
Giochi di Morte è incentrato su un violentissimo sport, una sorta di malsana evoluzione del football in cui tutto è permesso ed il più fortunato esce con le ossa rotte, mentre altri lasciano la pelle sul campo terroso. Il gioco è studiato nei particolari, dai ruoli alle regole, tra cui quella determinante di dover infilare il teschio di un cane (che sostituisce la classica palla ovale) su un palo di legno per ottenere la vittoria, il tutto mentre un tizio scandisce il tempo del match lanciando sassi su una specie di gong.
I giocatori sono i Jugger, facce da duri piene di cicatrici, dal look indovinatissimo fatto di indumenti ed oggetti di fortuna – fintamente improvvisato, ma chiaramente studiato nel dettaglio. Il ruolo centrale di questa particolare disciplina nell’economia della vicenda è duplice, da un lato veicolare la quota intrattenimento attraverso i suoi match crudi e sanguinolenti, dall’altro raccontare una storia di rivalsa e riscatto (per certi versi) sociale, rielaborando il classico spunto dell’underdog che scala le difficoltà ed ottiene la sua rivincita. I protagonisti mettono in gioco la loro stessa vita alla ricerca di gloria e rispetto.
Grosso merito per la riuscita del film, ed è quasi scontato dirlo vista la natura del mio articolo, va a Rutger Hauer che ruba la scena all’inizio e non la molla più. Il suo è un protagonista tosto, magnetico e misterioso, taciturno ma esplicito e comunicativo nel suo linguaggio non verbale.
Caposquadra che emana carisma ed esperienza, in pratica non viene mostrato il suo passato, eppure sei lì ad immaginarti un background di vittorie e morti semplicemente perché lui riesce a convincertene. Rutger Hauer viene messo in condizioni di rendere al meglio anche dai comprimari scelti per affiancarlo, dalla bella quanto testarda e combattiva Joan Chen (che lavorerà con lui anche in Sotto massima sorveglianza e 2049 – L’ultima frontiera) ad un Vincent D’Onofrio asciutto e schizzato, passando per Delroy Lindo esperto compagno di squadra.
Tra le fila dei cattivi, oltre al già citato Keays-Byrne, vengono reclutati Max Fairchild, minaccioso gigante con tanto di placca di metallo che sporge sulla fronte, e Richard Norton, sempre a suo agio se ci si deve prendere a botte.
La regia di Peoples è lineare, quasi scolastica, non eccelle ma non demerita, riuscendo a portare la nave in porto. Anche perché ad aiutarlo c’è l’esperienza del sopracitato Eggby alla fotografia, oltre all’adeguata ambientazione che alle minacciose location naturali di Coober Pedy unisce la particolare ricostruzione della fantasiosa Nine City, la tanto agognata meta dei Jugger. E ancora la messa in scena degli incontri, con contributo essenziale degli stuntmen.
Giochi di Morte è una riuscita combinazione di sangue, sudore, violenza e sporcizia. Ma anche una storia di coraggio, cameratismo, tenacia. Il sentimento dei protagonisti che spezza un’atmosfera di degrado senza speranza, fino ad uno scontro finale in cui ti ritrovi tra il pubblico a tifare per loro.
Floppa ai botteghini, bollando probabilmente in maniera indelebile la carriera da regista di Peoples, che si rifarà scrivendo sceneggiature del calibro di L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys) di Terry Gilliam e Gli Spietati (Unforgiven) di Clint Eastwood. In Italia esce in dvd nel 2010 per la Eagle, al momento è fuori catalogo e di difficile reperibilità.
Nel 1992, invece, esce Detective Stone, poco azzeccato titolo italiano di Split Seconds. Poco azzeccato perché un titolo di questo tipo corre il rischio di sviare sul genere di appartenenza della pellicola, facendo magari pensare ad un poliziesco in senso decisamente stretto. Ed è proprio la questione genere cinematografico a rivelarsi una delle armi vincenti di Detective Stone, che prende elementi da vari filoni, alcuni dei quali così canonici da essere al limite dello stereotipo, li frulla per bene tirandone fuori un riuscitissimo mix che diventa la sua particolarità.
Rutger Hauer viene affiancato da Alastair Duncan in quella che è la classica situazione da buddy movie, due sbirri agli antipodi, col poliziotto esperto e sprezzante del pericolo che suo malgrado deve fare coppia col collega secchione ed impacciato, con tutta l’ironia che può scaturire da questo dualismo. Il bello è che questa situazione viene messa al centro di un film capace di trasformarsi in corso d’opera da poliziesco (prima d’indagine poi d’azione) a thriller, passando per momenti orrorifici, monster movie e connotazioni chiaramente sci-fi.
Non a caso, il film si svolge in un futuro distopico non molto lontano (per l’epoca), una Londra del 2008 che in seguito all’inquinamento e all’effetto serra viene colpita da pesanti alluvioni che la lasciano in uno stato di perenne allagamento, uno spunto che ha tutta l’aria di essere un monito. Questo ci porta al secondo pregio, l’indovinatissima ambientazione, una Londra quasi inquietante, fatta di location in cui dominano acqua, buio perpetuo e schifosissimi ratti. Un connubio suggestivo che si presta perfettamente ad una trama in cui mistero e morte fanno capolino con una certa regolarità.
Il terzo asso nella manica è ancora una volta fin troppo ovvio. Sto parlando ovviamente di un Rutger Hauer che veste il ruolo con la facilità con cui il suo personaggio infila il cappotto. Stone è un detective cazzuto, irascibile, paranoico, traumatizzato da un passato che gli ha lasciato cicatrici sull’animo e sul corpo (oltre ad una sorta di sesto senso) e che si ripresenta mostruosamente a chiedere il conto.
Indossa occhiali da sole al buio, beve litri di caffè, vive in un letamaio abitato da colombe e quando imbraccia il suo fucile non puoi che essere felice. Atteggiamenti che chiaramente Rutger Hauer porta a casa con estrema disinvoltura, come quando medita sulla scena del delitto steso sulla sagoma di gesso della vittima, oppure quando bacia la propria donna nel corso di un’esplosione.
Per finire con quel “Satana è nella merda” con cui si appresta ad affrontare lo scontro finale. Showdown conclusivo che chiude in bellezza, col mostro che finalmente si palesa nella sua somiglianza neanche troppo velata con lo Xenomorfo di Alien (con un pizzico del marvelliano Venom).
La regia è di Tony Maylam (e di Ian Sharp per alcune sequenze), già regista dello slasher The Burning del 1981, che in carriera si dedicherà maggiormente ai documentari. Al fianco di Rutger Hauer troviamo, come love interest del protagonista, una Kim Cattrall che esibisce lo stesso taglio di capelli di Star Trek VI – Rotta verso l’ignoto (Star Trek VI: The Undiscovered Country di Nicholas Meyer), girato poco prima.
Nel cast anche Michael J. Pollard nel ruolo dello strambo acchiapparatti e Pete Postlethwaite che interpreta il collega ostile. Tra i curatori degli effetti speciali anche Stephen Norrington, poi regista di Blade; apprezzabili effetti artigianali tra cui si possono annoverare svariati dettagli truculenti ed un design del mostro efficace per quanto derivativo.
Sul finale alcune bollicine che emergono dall’acqua – 25 anni prima di quelle di Ciro Di Marzio – farebbero pensare ad un sequel che però non arriverà mai. Anche perché Detective Stone incassa solamente 5.4 milioni di dollari in patria, a fronte di un budget di 7, e sarà solo grazie all’home video ed i passaggi televisivi che riuscirà a guadagnarsi l’affetto del suo pubblico, in pratica un destino molto simile a quello capitato a Giochi di Morte.
Il dvd italiano di Detective Stone esce nel 2005 per la MHE, anche questo fuori catalogo ma più facilmente reperibile.
Giochi di Morte e Detective Stone, due valide pellicole di genere che toccano la fantascienza (ma non solo) in modo diverso ma hanno in comune il guardare al mondo del futuro con pessimismo, sono la dimostrazione che la filmografia di Rutger Hauer è ricca e variegata, che oltre ai successi universalmente noti comprende titoli magari più piccoli, ma che meritano di essere menzionati o riscoperti. Una carriera, quella di Rutger, che voi umani non potreste immaginarvi.
Di seguito i due trailer di Giochi di Morte e Detective Stone, giusto per rinfrescarvi la memoria:
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