Voto: 6/10 Titolo originale: Rifkin’s Festival , uscita: 01-10-2020. Regista: Woody Allen.
Rifkin’s Festival: la recensione del 48esimo film di Woody Allen
06/05/2021 recensione film Rifkin’s Festival di Giovanni Mottola
Il mondo (e il cinema) di ieri secondo il regista 85enne
A Woody Allen bisognerebbe fare un monumento. Non solo per tutti i bei film che ci ha regalato negli anni e che continua a regalarci, ma soprattutto per il gusto di ascoltare quali irresistibili battute inventerebbe nel momento in cui si precipitassero a deturparlo. Che questo accadrebbe, non vi sono dubbi: stessa sorte è toccata nell’ultimo anno a Cristoforo Colombo e a Winston Churchill, solo per citare i due esempi più illustri. Non si tratta di un processo di svecchiamento o di accantonamento, ancorché brutale, dell’aere perennius di oraziana memoria in ossequio alla frettolosità dei nostri tempi. È in atto, piuttosto, un rovesciamento integrale di prospettive, con valutazione etiche dei fatti del passato sulla base di una mentalità e di una sensibilità del presente.
Di questo cambio di vedute, l’85enne Woody Allen è diventato uno dei principali bersagli. Le dichiarazioni dell’ex moglie Mia Farrow circa suoi presunti abusi nei confronti della loro figlia piccola – nonostante le indagini della magistratura sul tema non abbiano mai riscontrato nulla di rilevante – sono infatti tornate improvvisamente di moda per tanti attori: si moltiplicano quelli pentiti per aver in passato lavorato con lui, e si assottigliano sempre più quelli disposti a farlo ora.
Ma anche ammesso che ne trovi qualcuno per girare un film, non è ancora finita: nessun distributore americano accetta di farlo uscire, proprio come è accaduto per la sua recente autobiografia. Noi non intendiamo prendere posizione in favore del regista, perché non conosciamo realmente le sue vicende private. Ci scandalizza però la doppia morale di quei fondamentalisti del politicamente corretto i quali, trovandosi nella nostra medesima posizione cioè in assenza di qualsiasi prova, si mettono all’improvviso a tagliare giudizi con l’accetta, modificando le loro opinioni per un opportunismo mascherato dietro a battaglie per i diritti. E ci scandalizza ancor più, in questo come in ogni altro caso, l’incapacità di distinguere l’artista dalla sua opera: una figlia che ne eredita indubbiamente i cromosomi di stile, ma non certo le colpe.
Ciononostante, Woody Allen è riuscito a girare Rifkin’s Festival e a vederlo uscire in sala, se non in America almeno in Europa. Ma c’è di più: ha saputo rivoltare la situazione a proprio vantaggio diventando, di questo nuovo corso, oltre che il bersaglio anche il cantore. Se Stefan Zweig fece i conti con la società prima e dopo la guerra, egli ha saputo farsi ispirare dalle tendenze di oggi sfruttandole, attraverso l’allegoria del vecchio cinema contro il nuovo, per un raffronto con il mondo di ieri, che fa uscire netto vincitore.
A tal fine ha incentrato Rifkin’s Festival su una coppia, in trasferta da New York a San Sebastian per il Festival del Cinema. Lei (Gina Gershon) è un’addetta stampa non più giovane ma ancora giovanile, perfettamente inserita nei canoni della società d’oggi – apparenza, ambizione, manifesto impegno sociale – ai quali invece risulta estraneo lui, Mort Rifkin (Wallace Shawn), attempato ex professore di cinema classico ora aspirante romanziere. Mentre lei se la spassa con il regista francese con cui lavora (Louis Garrel), lui si prende una cotta platonica per una giovane dottoressa, bella e sensibile, con la quale condivide la passione per la Nouvelle Vague e il disprezzo per il cinema più pretenzioso di oggi.
Sia per la dimensione “vacanziera”, sia per la trama, Woody Allen si rifà allo schema di Midnight in Paris, aggiungendo inserti spagnoleggianti alla Vicky Cristina Barcelona. Rispetto al film parigino, la peculiarità di Rifkin’s Festival sta nel sostituire i miti letterari con quelli cinematografici: il protagonista rivede infatti, in un continuo sogno, varie situazioni della sua vita sotto forma di grandi opere in bianco e nero del passato. Le citazioni sono moltissime: da Orson Welles (Quarto Potere) a Federico Fellini (8 e 1/2), da François Truffaut (Jules e Jim) a Jean-Luc Godard (Fino all’ultimo respiro), da Luis Bunuel (L’Angelo Sterminatore) all’amato Ingmar Bergman (Persona e Il Settimo Sigillo).
L’intento è ovviamente comico, anche perché Woody Allen in Jean-Luc si diverte a rigirare le scene nello stile degli autori imitati. Ma è anche un ammirato omaggio ai suoi numi tutelari, a sottolineare soprattutto la mancanza di eredi. Pietre di paragone di tal risma rendono ancor più ridicola la figura del regista moderno, impersonato da Louis Garrel, impegnato nientemeno che a realizzare un film per “rappacificare israeliani e palestinesi”.
Un personaggio così si merita in pieno la battuta rivoltagli dal protagonista quando gli manifesta di voler dire qualcosa di importante sulla fame nel mondo: “Immagino tu sia contrario”. È bravo Wallace Shawn, che già aveva lavorato varie volte con Woody Allen, ad interpretare il personaggio del suo alter-ego. Per capire quanto esso somigli al suo creatore, è sufficiente leggere queste sue dichiarazioni tratte da una recente intervista: “La pandemia ha amplificato il consumo domestico e sarà difficile tornare indietro, quando basta spingere un pulsante. Ma vedere Il Padrino sul cellulare o in tv o al pc da solo, sul divano, significa negare l’intera estetica del cinema”.
Considerando che questa volta, a differenza dei suoi lavori recenti, Woody Allen ha conferito al personaggio suppergiù la sua età, resta solo il rammarico di non aver visto lui stesso nel ruolo del cinefilo nostalgico e ipocondriaco. Sia perché lo avrebbe tratteggiato di ulteriori sfumature, sia perché in questo modo avrebbe fatto capolino anche con il volto in quel pantheon di grandi autori citati, al quale, alla faccia di chi gli vuole male, appartiene a pieno titolo.
Di seguito trovate il trailer italiano di Rifkin’s Festival, nei nostri cinema dal 6 maggio:
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