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Voto: 7/10 Titolo originale: Öldürdüğün Şeyler , uscita: 25-04-2025. Regista: Alireza Khatami.

The Things You Kill: la recensione del thriller psicologico di Alireza Khatami

20/10/2025 recensione film di William Maga

Il regista affronta colpa, identità e patriarcato in un'opera densa e inquietante

the things you kill film 2025

The Things You Kill è un’opera ipnotica e spiazzante che interroga il maschile, il potere e l’identità attraverso la forma cangiante del thriller psicologico. Al centro c’è Ali (Ekin Koç), docente di letterature comparate rientrato in Turchia dopo anni all’estero: un uomo elegante ma fragile, con un lavoro precario, un padre autoritario e una madre malata. La sua virilità inceppata – bassa fertilità, ambizioni frustrate, vergogna – si spalanca in un baratro quando la madre muore in circostanze sospette. L’ombra di un passato di violenze domestiche grava sul padre Hamit (Ercan Kesal), mentre la moglie Hazar (Hazar Ergüçlü), veterinaria appassionata e più giovane di lui, incarna una quotidianità che Ali non riesce a sostenere.

L’ingresso di Reza (Erkan Kolçak Köstendil), un vagabondo che si offre come giardiniere nella casa di campagna, spezza l’inerzia. Da qui il film si biforca: ciò che parte come dramma familiare asciutto deraglia lentamente in una spirale paranoica fatta di specchi, doppi e realtà che slittano. È come se il racconto si guardasse allo specchio e vedesse un altro se stesso: corpi che cambiano posto, responsabilità che si confondono, un presente che assorbe il passato e lo riscrive.

La messinscena insiste sui tempi morti, sugli spazi liminali, su inquadrature fisse che lasciano il fuori campo a lavorare come una minaccia: tubature che gocciolano, cisterne che nascondono armi, specchi che diventano varchi. La fotografia alterna profondità sfocate e nettezza chirurgica, come se l’immagine conquistasse a fatica la propria chiarezza via via che Ali ammette a se stesso ciò che è stato e ciò che potrebbe diventare.

La chiave teorica è nella lezione che Ali impartisce agli studenti: tradurre, nella radice etimologica araba, significa “uccidere”, sopprimere una forma perché un’altra esista. Il film trasla questa idea nella psiche: ogni contesto sociale “traduce” l’io e ne elimina un altro; ogni maschera indossata ne seppellisce una precedente. Il professore cosmopolita, il figlio umiliato, il marito indeciso, l’uomo che desidera un figlio e teme di replicare il padre: tutte queste versioni di Ali competono, si sopraffanno, si sostituiscono. Quando la pulsione di dominio entra in scena – la sete di verità che scivola in vendetta, la negoziazione con le istituzioni, la gestione del desiderio – la “traduzione” diventa soppressione concreta: il racconto si fa più cupo, più fisico, più violento.

Sul piano tematico, l’opera affonda nel patriarcato come sistema che avvelena uomini e donne. L’ordine familiare mette ai margini le figure femminili (madre, sorelle, moglie) e addestra i maschi all’insensibilità, fino a far coincidere la responsabilità con il controllo. L’ossessione per la discendenza è letta come secondo tentativo di vita: una promessa di riscatto che rischia di perpetuare le stesse ferite. Il film mostra come la pressione sociale trasformi la fragilità in aggressività, l’umiliazione in ansia di possesso, la cura in obbligo. Non offre catarsi: suggerisce che il ciclo si spezza solo riconoscendo il proprio ruolo nel meccanismo, non sostituendo un carnefice con un altro.

Registicamente, la scelta di distendere i tempi e di costruire la tensione attraverso suono, attese e microsegnali produce un magnetismo particolare: il paesaggio anatolico, con i suoi vuoti e le sue asperità, riflette l’interiorità dei personaggi; la regia incornicia spesso corpi e volti in porte e finestre, come quadri dentro il quadro, insinuando che ciò che vediamo sia una rappresentazione tra le tante possibili. La svolta a metà – che rimescola le identità e muta il registro – è audace: alcuni spettatori la vivranno come vertigine necessaria, altri come frattura che raffredda il coinvolgimento emotivo. È il rischio di un dispositivo che privilegia l’idea sulla consolazione.

Il cast regge questa geometria con rigore: Ekin Koç comprime e dilata l’ansia di Ali senza mai cercare l’empatia facile; Hazar Ergüçlü disegna una presenza concreta, affettiva ma non accomodante; Ercan Kesal dà al padre una durezza mai caricaturale; Köstendil veste Reza di ambiguità fisica, a metà tra angelo del fango e proiezione dell’io profondo. Quando il film accelera verso il finale, l’eco più forte non è quella del “colpo di scena”, ma di una condanna esistenziale: spegnere la luce non cancella ciò che è accaduto; al massimo, lo nasconde per un po’.

Come esperienza, The Things You Kill è un saggio sul linguaggio del potere: tradurre, riscrivere, sostituire, dominare. Come racconto, è una parabola sulla fatica di abitare un’identità senza trasformarla in arma. Non consola, non redime, non chiude i conti. Ma lascia un segno: ci costringe a chiederci quante versioni di noi stessi abbiamo “ucciso” per diventare ciò che siamo, e quante altre siamo pronti a sacrificare pur di non guardare davvero dentro lo specchio. Perfetto per chi cerca un cinema d’atmosfera, mentale e spigoloso; meno per chi desidera ritmo costante e risposte univoche. In ogni caso, difficile uscirne indifferenti.

Il trailer di The Things You Kill:

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