Voto: 4/10 Titolo originale: DEVILMAN crybaby , uscita: 05-01-2018. Stagioni: 2.
Recensione (serie completa): Devilman Crybaby di Masaaki Yuasa, su Netflix
20/01/2018 recensione serie tv DEVILMAN crybaby di Raffaele Picchio
Come trasformare l'apocalittico capolavoro di Gō Nagai in un buco nero di sciatteria e ignoranza criminale che spaventa e fa venire i brividi più per le nuove tendenze che incarna che per i suoi contenuti
O MIO SIGNORE SATANA, PUNISCILI PERCHE’ SANNO QUELLO CHE FANNO. Che Gō Nagai sia uno dei più importanti e grandi mangaka della storia non c’è neanche da stare a discuterne, ma, a pari merito dell’introduzione dei “Mecha” con Mazinga nell’immaginario universale, la sua opera più complessa, personale e profonda – pubblicata tra il 1972 e il 1973 – è senza dubbio Devilman.
Fortemente influenzato dalla lettura de La Divina Commedia illustrata da Gustav Doré (che più avanti adatterà esplicitamente sotto forma di manga) e riprendendo in mano il precedente e incompleto Mao Dante, Nagai inizia a sviluppare parallelamente a una serie animata per bambini (universalmente e principalmente impressa nella nostra infanzia) quella che è in tutto e per tutto una bomba atomica di complessità e ferocia tutt’ora insuperate.
Devilman su carta è una spietata e tremenda storia che parte con premesse quasi “supereroistiche” per sfociare in un’apocalisse di sangue e dolore che inghiotte e coinvolge l’intera umanità, ponendo al centro una forte critica alla società di allora, complessissime riflessioni sul libero arbitrio e l’amore e un senso di catastrofe e disperazione tutt’oggi insuperate.
Sarà stata probabilmente proprio a causa di una materia così infuocata e complessa che l’opera soltanto con il tempo ha iniziato ad essere compresa e apprezzata universalmente. Verso la fine degli anni ’80 finalmente vengono messi in produzione due eccezionali OAV (La Genesi e L’Arpia Silen) che, se sfortunatamente arrivano a coprire solo la prima parte dell’intera storia, dall’altra portano l’immaginario dell’opera a un livello di oscurità ancora superiore, abbandonando del tutto il tratto caotico e sopra le righe di Nagai per abbracciare uno stile asciutto e molto più realistico. Poi più niente.
E’ vero che con il tempo l’autore giapponese si è abbandonato a tantissimi spin-off – alcuni dei quali curati personalmente, altri affidati a terzi (come la miniserie del 1999 Amon – The Darkside of Devilman, dalla quale nel 2000 è stato tratto anche un terzo OAV – Apocalypse Of Devilman – discreto ma decisamente inferiore a quei due capolavori “ufficiali”), ma il Devilman del manga non è mai più stato affrontato, fino a quando nel 2004, dal Giappone naturalmente, uscì l’inconcepibile Debiruman, scempio in live action diretto da Hiroyuki Nasu (senza dubbio tra i film orientali più brutti degli ultimi vent’anni almeno), che con il suo giusto flop al botteghine pose fine a ogni tentativo di adattare ad altri media la complessità originale.
Dopo anni di silenzio, ci ha pensato però ora la divisione animata nipponica di Netflix a riportare in vita l’uomo diavolo, con l’ambizione di trasportare integralmente il fumetto originale – traghettandolo oltretutto verso gli anni contemporanei – nei 10 episodi della serie Devilman Crybaby di Masaaki Yuasa (Lu over the wall). Operazione ardua e difficilissima certo, sulla riuscita della quale era lecito avere più di un dubbio, ma nulla poteva solo lontanamente avvicinarsi all’abominio che è stato fatto.
L’oscuro capolavoro di Nagai diventa così una specie di trip in acido che sembra fatto da qualche hipster sotto MDMA che hanno cacciato a calci nel sedere dallo IED: luci e colori da rave di quart’ordine che sviliscono ogni immaginario evocativo, un design che in qualche momento vorrebbe nelle intenzioni rievocare la “grezzezza” del tratto del maestro, ma che quando gli va bene pare una puntata di Adventure Time, il tutto con una povertà di messa in scena e di regia che fa più pensare a una cosa animata e fatta a cazzo di cane per via di un budget miserrimo che a qualche precisa scelta stilistica. Anche perché, se da una parte la serie sbraita come un ragazzino capriccioso per mostrarsi violenta e spietata, dall’altra tutto questo lato viene completamente anestetizzato e reso assolutamente innocuo, rendendo il tutto ancora più grottesco e patetico.
Inoltre, è assolutamente di cattivo gusto – quando non proprio demenziale – come abbiano spinto in modo assolutamente gratuito e non necessario il pedale sul sesso estremo, qui rappresentato come se Crybaby fosse un hentai di quarta categoria, dimenticando completamente la profondissima sensualità che invece impregnava l’opera disegnata originaria. Qui è un continuo di tettone con capezzoli che vengono stuzzicati, bozzi nei pantaloni per far vedere un’erezione ed eiaculazioni-geyser fino al soffitto che spostano ogni cosa verso un immaginario alla Scary Movie imbarazzante.
Ma se a tutto questo si potrebbe pure mettere la tara con la solita oscena chiosa “de gustibus”, quello che non trova alcuna giustificazione in nessun piano e caso è l’orrendo adattamento. I tantissimi eventi si susseguono uno dietro l’altro senza continuità e respiro, con ellissi temporali incomprensibili, e tutto accade nell’assoluta incapacità di trasmettere pathos (basta vedere una qualsiasi sequenza messa in scena nei due OAV sopra citati e come è stata riportata nella serie di Netflix per rendersene conto), dolore o quant’altro.
Inoltre, i personaggi vengono totalmente snaturati e banalizzati e a farne le spese è principalmente il Ryo Asuka / Satana che, senza mai spiegare nulla, commenta partite in TV manco fosse Giampiero Galeazzi e non resta più niente del rapporto profondamente “morboso” d’amore che lo lega a Akira Fudo / Amon, tanto che anche il magnifico finale va a perdersi totalmente.
L’aggiunta poi ex novo delle lacrime come simbolo dell’anima umana rinchiusa nel guscio del demone che grida dolore è veramente pietosa, nonché rubata in modo vergognoso dall’altro capolavoro Crying Freeman di Kazuo Koike e Ryoichi Ikegamie, che qui sembra solo una patacca di pessimo gusto messa tanto a rendere chiaro ciò che è esplicito fin dal concetto stesso alla base della serie animata. E tutto questo senza nominare “soluzioni” incredibili come il mondo intero che segue il profilo Instagram di Miki o la scena dei bambini che difendono Amon dalla malvagità dell’uomo.
In definitiva, Devilman Crybaby è l’ignorante e pessimo simbolo di quello in cui si sta trasformando (o si è già trasformato …) il linguaggio moderno, un piattino precotto per essere sparato in binge watching e poi lasciato lì e che vigliaccamente si pone come “complesso” e “adulto” facendosi schermo col capolavoro. Fatevi un favore, buttate al macero questa roba e rileggetevi l’originale di Gō Nagai, perchè se questo deve essere il “medium” per far conoscere opere simili alle nuove generazioni, allora è meglio l’ignoranza.
Di seguito il trailer (sottotitolato) di Devilman Crybaby, a catalogo Netflix già da alcuni giorni:
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