Voto: 7/10 Titolo originale: 28 Years Later , uscita: 18-06-2025. Budget: $60,000,000. Regista: Danny Boyle.
28 Anni Dopo: la recensione del film rabbioso di Danny Boyle
18/06/2025 recensione film 28 anni dopo di William Maga
Il regista e Alex Garland reinventano il genere tra pandemie, isolamento e riflessioni post-apocalittiche in un'opera visivamente audace e profondamente umana

28 Anni Dopo è il ritorno di Danny Boyle e Alex Garland al mondo devastato dalla Rabbia, una mossa che non cerca di replicare la tensione di 28 Giorni Dopo, ma di reinventarla in un’epoca in cui i racconti apocalittici sono diventati routine. Questo sequel, primo di una nuova trilogia, abbandona l’urgenza e la claustrofobia dell’originale per espandersi in una narrazione stratificata, che mescola horror puro, racconto mitico, critica sociale e riflessione esistenziale, trasformando un genere ormai saturo in un potente specchio culturale contemporaneo.
Boyle e Garland non si limitano a riportare in vita un franchise cult: plasmano un’opera che è al tempo stesso figlia della sua epoca e affermazione autoriale. Le premesse sono simili ma evolute: un virus continua a devastare la Gran Bretagna, ora isolata, abbandonata dal mondo e costretta a sopravvivere con mezzi rudimentali, tra arcaismi medievali e tecnologie scomparse. L’ambientazione principale, Holy Island, funziona come microcosmo post-apocalittico dove la sopravvivenza è regolata da rituali tribali e una forma di comunitarismo regressivo. La causa del cambiamento non è solo la Rabbia, ma la lenta degenerazione della società nel tempo, un concetto che riflette tanto il trauma di Brexit quanto l’eco della pandemia globale.
Il film si apre con un’inquietante scena di bambini scozzesi e Teletubbies interrotta da una carneficina, una scelta che chiarisce subito il tono disturbante, ironico e radicale della pellicola. Spike, il protagonista dodicenne, affronta un rito di passaggio accompagnato dal padre Jamie, in un’odissea che li porta nel cuore di una Gran Bretagna deserta ma ancora letale. L’esperienza di Spike è al centro del racconto, un coming-of-age in un mondo che non conosce né l’infanzia né l’innocenza. La sua prima uccisione, il rapporto con la madre malata Isla (una intensa Jodie Comer) e l’incontro con il dottor Kelson (un Ralph Fiennes ipnotico) diventano tasselli di un percorso che non parla solo di sopravvivenza, ma di identità, morte e memoria.
Fiennes interpreta Kelson con ambiguità e profondità: un uomo dipinto d’iodio, circondato da un tempio fatto di ossa e di riflessioni sul tempo, la decadenza, il valore della vita. La sua figura richiama il Kurtz di Cuore di Tenebra ma anche il saggio disilluso, testimone di un’umanità che ha perso se stessa. Questo spostamento dal puro terrore verso l’introspezione è il colpo di genio del film: la violenza non è più solo esterna, ma riflesso di un collasso interiore. Il memento mori che pervade la seconda metà della pellicola è un invito alla riflessione più che alla fuga.
Visualmente, Boyle aggiorna la grammatica sporca di 28 Giorni Dopo con tecnologia moderna, tra cui iPhone e montaggio aggressivo, senza perdere l’impatto disturbante delle immagini. La fotografia di Anthony Dod Mantle coniuga panoramiche epiche a riprese claustrofobiche, creando un’estetica sospesa tra documentario di guerra e fiaba gotica. Il montaggio di Jon Harris rompe volutamente la coerenza visiva per sottolineare il caos mentale e morale dei protagonisti. Il risultato è un’opera che non segue la logica lineare della narrazione classica, ma si muove tra sbalzi emotivi, allucinazioni e visioni, riflettendo lo stato mentale di un mondo traumatizzato.
La Rabbia stessa evolve: dai corridori rabbiosi si passa a creature nuove, grottesche, deformate, dai “Slow-Lows” che strisciano nel fango agli “Alpha” predatori e organizzati. Ma la vera evoluzione è concettuale: Garland suggerisce che questi “mostri” non sono del tutto disumanizzati, e che l’umanità superstite, nel suo tribalismo, è forse meno razionale e compassionevole di quanto voglia credere. L’inversione di ruoli è cruciale: mentre il mondo si isola per sopravvivere, perde la propria umanità, e la violenza, anziché estinguersi, si incarna nelle regole di una nuova società fondata sulla paura e la rimozione della morte.
Il film è esplicitamente politico, ma in modo mai didascalico: la quarantena imposta alla Gran Bretagna diventa una metafora amara per l’autarchia contemporanea, in un’epoca segnata dal rifiuto dell’altro e dalla difesa paranoica dei confini. La scelta di isolare la nazione richiama Brexit, certo, ma anche una più ampia tendenza globale a separare l’“interno sano” dall’“esterno malato”. Spike, nel voler salvare sua madre, infrange questa logica binaria: attraversa la soglia tra mondo puro e contaminato per scoprire che il vero pericolo non è la malattia, ma il diniego collettivo della morte e della sofferenza.
Anche i difetti del film contribuiscono alla sua complessità. Alcuni momenti sono stilisticamente eccessivi, certi simbolismi martellanti (le immagini d’archivio belliche, la bandiera inglese in fiamme, la poesia di Kipling) sembrano ripetersi senza ulteriore approfondimento. Ma il vero cuore della pellicola non è la retorica, bensì il contrasto tra l’epica visiva e l’intimità emotiva: è il tentativo disperato di un ragazzo di capire cosa significa vivere in un mondo che ha smesso di sperare.
Insomma, 28 Anni Dopo non è un horror convenzionale né un semplice sequel: è un manifesto cinematografico sul trauma, la memoria, il sacrificio. Riesce, in un’epoca di sequel fotocopia e nostalgie stanche, a costruire un’opera originale, aspra, rischiosa, ma profondamente sentita. Con un finale che scuote e dividerà il pubblico, lascia aperta la strada per un proseguimento che promette di esplorare ulteriormente i confini tra umanità e mostruosità. E forse, tra i due, la differenza non è mai stata così sottile.
Di seguito trovate il trailer doppiato in italiano di 28 Anni Dopo, nei cinema dal 18 giugno:
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