Voto: 6/10 Titolo originale: Black Panther: Wakanda Forever , uscita: 09-11-2022. Budget: $250,000,000. Regista: Ryan Coogler.
Black Panther: Wakanda Forever, la recensione del film di Ryan Coogler che piange Chadwick Boseman
09/11/2022 recensione film Black Panther - Wakanda Forever di Gioia Majuna
Il regista gira un'opera elegiaca, che introduce l'intrigante Namòr e riflette sull'improvvisa scomparsa della sua star, ma deve comunque sottostare alle regole ferree dei cinecomic del MCU
Come si fa a superare una perdita devastante? Un amico intimo, un familiare, un coniuge – o, nel caso di Black Panther: Wakanda Forever, la duplice perdita di Chadwick Boseman (morto inaspettatamente nel 2020 a 43 anni per un cancro al colon) e del personaggio di T’Challa, re del Wakanda e Pantera Nera ‘in carica’?
Tuttavia, piuttosto che optare per un pericoloso e inopportuno recasting di T’Challa per il sequel (un progetto che ha suscitato a sua volta molta attenzione), lo sceneggiatore e regista Ryan Coogler ha scelto la strada più difficile ma anche più interessante: esplorare un paese, un popolo, una famiglia privati del nucleo attorno al quale orbitavano. Scoprire cosa fa il mondo della Pantera Nera senza la sua figura centrale e osservare il poderoso ensemble di donne che gravitavano intorno a lui che ora si affannano per raccogliere i pezzi delle loro vite e a capire cosa fare dopo la sua dipartita.
E quando Black Panther: Wakanda Forever si concentra su questi elementi, si rivela un esperimento molto sentito, un intrigante cambio di ritmo per un Marvel Cinematic Universe troppo spesso privo di introspezione. Peccato, allora, che nel processo di esplorazione dell’impatto della morte di Re T’Challa sulle persone a lui più vicine, si riveli toccante in due modi simili e opposti: spesso riflessivo nella sua esplorazione del lutto, fatica a capire cosa significhi veramente la perdita del protagonista per il futuro di questa saga.
Ambientato un anno dopo l’improvvisa scomparsa di T’Challa (che avrebbe potuto essere salvato dall’erba a forma di cuore che gli aveva conferito i poteri della Pantera Nera – se non fosse che il Killmonger di Michael B. Jordan ha bruciato tutto il raccolto nel precedente capitolo …), Black Panther: Wakanda Forever esplora le varie forze che accorrono per riempire i vuoti emotivi e politici che ne derivano.
La madre di T’Challa, la regina Ramonda (Angela Bassett, che riesce a dare molto sullo schermo col poco che la sceneggiatura le dà), sale ancora una volta al trono, ristabilendo la posizione politica di opposizione del Wakanda nei confronti del resto del mondo: niente condivisione del vibranio, non importa quanto lo bramino le Nazioni Unite.
La giovane Shuri (Letitia Wright) è alle prese con il senso di colpa per non aver salvato il fratello, perdendosi in numerose invenzioni nel suo laboratorio. Nakia (Lupita Nyong’o) ha lasciato il Wakanda; la Dora Milaje Okoye (Danai Gurira) tenta di gestire la situazione militare in assenza di T’Challa e del marito traditore W’Kabi (visto che Daniel Kaluuya non è tornato per questo film).
Ma una nuova minaccia incombe, e non dall’esterno, ma dalle profomndità dell’Oceano: con il suo ‘coming out’ il Wakanda si è infatti guadagnato l’attenzione del misterioso regno sottomarino di Talokan, una civiltà di aperta ispirazione Maya guidata da un dio con le ali alle caviglie e le orecchie a punta di nome Namòr (Tenoch Huerta Mejía, che sui titoli di coda viene curiosamente presentato con un “e introduce …”, nonostante una carriera già robusta alle spalle con titoli come Narcos: Messico e La Notte del Giudizio per Sempre).
Nella sua mente, il Wakanda è al suo fianco – contro le forze colonizzatrici del primo mondo, cioè – oppure suo avversario giurato. E l’improvvisa corsa dei wakandiani a difendere una giovanissima scienziata prodigio americana (la Riri Williams di Dominique Thorne) dai suoi tentativi di rapirla ed eliminarla li mette inevitabilmente nel mirino del suo incredibile potere.
Nei momenti migliori di Black Panther: Wakanda Forever, Ryan Coogler e il co-sceneggiatore Joe Robert Cole usano questo conflitto per esplorare i ristretti margini della vittoria che T’Challa aveva invocato alla fine del primo film: sì, è possibile che il mondo diventi un posto migliore, ma prima deve fare i conti con i propri mali atavici. Ma quelli che verranno dopo di lui avranno l’obbligo di seguire questo sogno idealistico, o potranno forgiare il proprio personale percorso?
Orientare queste domande intorno a un duello tra nazioni, che si sono entrambe ritagliate un proprio potente destino in assenza (o ribellandosi) alla colonizzazione e all’egemonia dei bianchi (si, le frecciatine politico-sociali in riferimento a xenofobia e neo-colonialismo non mancano), è un’idea abbastanza intrigante, ancorata alla posta in gioco personale dei suoi personaggi naturalmente.
In assenza di Chadwick Boseman, Black Panther: Wakanda Forever diventa più che altro un’opera(zione) corale, incentrata su un collettivo di donne forti e tenaci che si trovano a fare improvvisamente i conti con la loro tristezza e che impiegano questa energia in modo produttivo.
Il primo atto – che subito stabilisce un’atmosfera elegiaca – si concentra sulle ondate di dolore che pervadono le vite di Ramonda, Shuri e Okoye, dando a tutte loro note contemplative uniche da suonare. Tutte, a modo loro, sono sul filo del rasoio del collasso, mettendo insieme i pezzi della loro nazione e della loro psiche per continuare ad andare avanti. Si tratta quindi di un lavoro delicato e carico di sfumature, soprattutto nel contesto di un franchise di supereroi su cui Ryan Coogler & Co. avevano già duramente lavorato per ‘elevarlo’ dal resto dei titoli del MCU nel 2018 (tanto che piovvero – meritate o meno, ma tant’è – nomination pesanti e insolite agli Oscar).
Eppure, con il passare dei 160 minuti di durata di Black Panther: Wakanda Forever, diventa chiaro che la mancanza di focus (chiamatela pure indecisione tra il seguire il cuore o il marketing …) è più un ostacolo che un elemento che Ryan Coogler può sfruttare per creare un vero dramma. In parte questo è naturalmente dovuto alle esplosioni d’azione richieste dal genere, che arrivano però con poco più di un’alzata di spalle da parte nostra; non ritroviamo un briciolo del brivido dell’inseguimento in auto a Busan del primo film, e il climax sembra quasi scontato nella sua frettolosa ‘plasticità’.
Per lunghi tratti, si ha l’impressione che Black Panther: Wakanda Forever avrebbe potuto avere più successo se si fosse liberato da quella prigione che è ‘lo schema del tipico cinecomic‘: sarebbe bastato osare di più e renderlo un dramma politico con personaggi forti e pensanti ambientato all’interno del MCU e abbandonare le scazzottate innocue in CGI (anche la colonna sonora di Ludwig Göransson appare più ‘sonnolenta’, introducendo alcuni nuovi elementi centroamericani per la gente di Talokan, ma per il resto riproducendo una versione smorzata dei precedenti sforzi).
Sono questi legami vestigiali con il più ampio MCU che fanno inciampare la sceneggiatura di Black Panther: Wakanda Forever. La Riri Williams di Dominique Thorne sembra inclusa a forza solamente per garantire un prologo alla sua imminente serie per Disney+, e i camei ‘gloriosi’ del William Ross di Martin Freeman (il federale preferito del MCU) e di altri personaggi che potreste conoscere solo avendo guardato altri show di Disney+ sembrano estratti di peso da un altro film.
Black Panther: Wakanda Forever non rende nemmeno troppa giustizia alle nuove leve Michaela Coel e Lake Bell, che entrano in scena un attimo prima di scomparire, quasi fossero comparse qualsiasi in un cast già troppo numeroso.
Se si fossero eliminati a monte tutti questi elementi ‘di contorno’, avremmo allora potuto avere più spazio per approfondire il complicato e incompreso Namòr di Tenoch Huerta Mejía (sorvoliamo sulle inedite origini del personaggio creato da Bill Everett …), un leader carismatico i cui valori non sono poi così distanti da quelli del Wakanda. L’attore messicano conferisce al ruolo una complessità incandescente, bruciando d’ira con il cuore di un fanatico e il peso della responsabilità verso il suo popolo.
È un personaggio avvincente, quando riusciamo a vederlo almeno: ma tra tutti i pezzi di carne che Black Panther: Wakanda Forever sta mettendo sul fuoco e la fotografia torbida e poco illuminata di Autumn Durald (un retaggio di Loki, ahinoi), è quasi impossibile tratteggiare adeguatamente la vera portata di Namòr e ancor più della sua gente al di là di alcune pennellate azzurrognole. E i soldati apparentemente invincibili di Talokan sono sì un nemico formidabile, eppure la cattiveria sorprendentemente empatica del loro leader non raggiunge il livello dell’altrettanto affascinante Killmonger di Michael B. Jordan.
Alla fine, quando il fascino solenne di Angela Bassett cede la scena alla inesperta Shuri di Letitia Wright (che comunque subisce una ‘maturazione’ necessaria), perdiamo ciò che aveva reso Black Panther, e questo suo angolo di mondo Marvel, così avvincente l’ultima volta: una specificità e un chiaro senso di ciò che voleva rappresentare. Curiosamente, per certi versi, questo sembra integrarsi organicamente alle preoccupazioni stesse del sequel.
Proprio come i wakandiani, Ryan Coogler, il cast, la troupe e il MCU in generale si sono trovati alle prese con un futuro senza il magnetico Chadwick Boseman. E noi, il pubblico, siamo invitati all’equivalente di una veglia funebre cinematografica per quest’uomo, una star di cui sentiamo (e sentiremo) profondamente la mancanza. La percepiamo certamente qui nel mondo reale, mentre l’universo che gli orbitava intorno – pur nella dolorosa consapevolezza che sarà sempre ineguagliato – si tiene ancora aggrappato al suo ricordo con tutte le forze. Vedremo se prima o poi riuscirà ad allentare la presa.
Si, c’è una scena nei mid-credits.
Di seguito – sulle note di Never Forget di Sampa the Great – trovate il full trailer italiano di Black Panther: Wakanda Forever, nei nostri cinema dal 9 novembre:
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