Voto: 7.5/10 Titolo originale: Il boss , uscita: 01-02-1973. Regista: Fernando Di Leo.
Dossier: Il Boss (1973), Henry Silva è un killer di ghiaccio al servizio di Fernando Di Leo
22/09/2022 recensione film Il boss di Francesco Chello
Ricordiamo il grande attore statunitense recentemente scomparso attraverso uno dei titoli più riusciti del suo fruttuoso periodo italiano. Il terzo capitolo della 'Trilogia del milieu' è un solidissimo esponente del filone che fonde perfettamente film di denuncia e cinema di genere, raccontando gli intrecci tra mafia e politica in un contesto costruito su tensione e vibrante violenza.
Lo scorso 14 settembre, presso il Motion Picture & Television Country House and Hospital di Woodland Hills (Los Angeles, California), si è spento il grande Henry Silva, a pochissimo da quello che sarebbe stato il suo 96° compleanno. Volto indimenticato da chi ama un certo cinema, ma non solo.
Se è vero che il buon Henry ha saputo percorrere cinquantuno anni di showbusiness in più declinazioni (attraverso qualcosa come circa 140 credits presenti sul suo curriculum), è altrettanto vero che un suo grande merito è stato quello, nello specifico, di diventare volto iconico del cinema di genere. Ora, non so se avete notato, ma nel giro di qualche riga ho utilizzato due volte il termine ‘volto’. Non a caso.
Perché il viso era una sorta di trademark di Henry Silva. Che, non per niente, veniva bonariamente soprannominato ‘rubber face’ (‘faccia di gomma’). Contorni spigolosi, occhi da indio. I tratti di un duro, cazzuto. Taciturno, perentorio, tagliente. Caratteristiche (inclusi i 188 centimetri d’altezza) che chiaramente non erano fini a sé stesse, visto che il nostro ci abbinava attitudine, personalità, predisposizione attoriale che davano credito alla reputazione da tough guy.
Un profilo che inevitabilmente si sposa alla perfezione con quello del villain, ruolo che Silva ha ricoperto tante volte in carriera. Con successo, ma anche soddisfazione personale. Come da lui stesso dichiarato, sceglieva personaggi che non fossero sbiaditi ma che potessero essere ricordati dal pubblico all’uscita dal cinema. Amava inoltre ricordare che negli States era ricordato come un bad guy, ma in Europa era visto come un eroe.
Quell’Europa che ci vede coinvolti da vicino, visto che proprio in Italia lascerà un segno fortissimo nel cinema di genere di cui parlavamo poco fa, dallo spaghetti western al poliziottesco. Spesso nei panni del villain, certo, ma non esclusivamente. Visto che in Italia, come nel resto della carriera, Henry Silva aveva saputo interpretare con successo anche protagonisti dalla connotazione positiva, per quanto comunque tosti o ruvidi, inquieti.
Un tratteggio sullo schermo che era l’altro lato della medaglia di un uomo che nel privato veniva descritto schivo ma affabile, sempre educato e gentile con tutti sul set dove era scrupolosamente concentrato, puntuale, professionale. Calzante, in questo senso, citare l’annuncio della sua scomparsa dato dalla figlia di Dean Martin, Deana, che parlava (testualmente) di cuori spezzati dalla perdita di uno degli uomini più buoni, gentili e di maggior talento che abbia avuto il privilegio di chiamare amico.
Aggiungendo che si trattava dell’ultima star rimasta in vita dell’originale Ocean’s 11 (da noi ‘Colpo Grosso’, del 1960) – film che verrà omaggiato da un suo cameo nel remake di Steven Soderbergh del 2001 che sarà anche l’ultimo titolo in carriera per Silva.
Origini siculo spagnole, nasce a Brooklyn nel 1926. Il padre lascia presto la famiglia, Henry Silva cresce con la madre nello Spanish Harlem, lascia la scuola ad appena 13 anni per arrangiarsi coi lavori più disparati tra cui cameriere e lavapiatti. Per inseguire il sogno della recitazione, che assume i connotati di una via d’uscita oltre che di una strada professionale da percorrere, e che prende corpo con l’ingresso all’Actors Studio nel 1955 che porta ad un approdo a Broadway. Dal palco allo schermo il passo è breve, schermo anche piccolo viste le sue partecipazioni a serie TV come Alfred Hitchcock presenta e L’Ora di Hitchcock, The Outer Limits, Mission Impossible o Le Strade di San Francisco.
Al cinema le porte si erano aperte già nel 1952, con una particina non accreditata in Viva Zapata! di Elia Kazan, il primo dei nomi di peso con cui avrà modo di lavorare nel corso di anni in cui collabora con registi come John Sturges, John Frankenheimer, Roger Corman, Jim Jarmusch, Wim Wenders, per fare qualche esempio.
Dopo il già citato Ocean’s 11, condivide il set altre volte con Frank Sinatra, da The Manchurian Candidate (Va’ e Uccidi) e Sergeant 3 (Tre Contro Tutti) entrambi del 1962, a Contract on Cherry Street del 1977. Nel 1963 ottiene il primo ruolo da protagonista in Johnny Cool che si rivela un successo di pubblico e critica.
Nel florido periodo italiano naturalmente incrocia la propria strada con diversi registi nostrani, da Emilio Miraglia (due volte) a Enzo G. Castellari, stringendo i sodalizi più importanti con Umberto Lenzi e Fernando di Leo, con cui lavora rispettivamente tre (due delle quali col mitico Tomas Milian) e quattro volte.
E ancora, negli anni ’80 è l’antagonista di Burt Reynolds (Pelle di Sbirro, 1981), Chuck Norris (Il Codice del Silenzio, 1985) e Steven Seagal (Nico, 1988, la nostra recensione). Voglio citare anche ruoli per così dire inusuali per i suoi standard, come nel comico Cinderfella con Jerry Lewis del 1960 o nel fumettoso Dick Tracy del 1990 in cui era comunque riconoscibile sotto il trucco caratteristico del film di Warren Beatty (il nostro dossier).
Non si fa mancare nemmeno il doppiaggio, campo in cui offre la propria voce a Bane, il super villain (toh, chi l’avrebbe mai detto) di Batman in tre serie animate (Batman del 1992, Superman del 1996 e Batman – Cavaliere della Notte del 1997). E non ho menzionato tutto, naturalmente.
Proprio tra le collaborazioni con Fernando di Leo, ho voluto pescare il film attraverso cui rendere omaggio ad Henry Silva quest’oggi. Ho scelto Il Boss, del 1973, terzo capitolo della cosiddetta trilogia del milieu – tre titoli slegati tra loro, accomunati del genere noir/poliziottesco, realizzati dall’autore pugliese tra il 1972 ed il 1973. L’ho scelto in primis perché, molto semplicemente, si tratta di un film che merita. E poi, motivo non secondario, perché Henry Silva non solo ha il ruolo da protagonista, ma lo fa attraverso un personaggio che ingloba più sfaccettature del discorso sui ruoli di cui parlavamo in precedenza. Il suo Nick Lanzetta è un mafioso, un criminale, un assassino. Eppure non è il villain, ma anzi è il personaggio per cui ‘tifare’ nonostante appartenga ad un contesto evidentemente distante da quello a cui può appartenere lo spettatore medio.
Tratto da Il Mafioso di Peter McCurtin, romanzo che Fernando Di Leo rielabora in un soggetto e sceneggiatura, spostando l’ambientazione da New York a Palermo con conseguenti swap etnici (tipo Coakley che era di colore e diventa il calabrese Cocchi) ed optando per un finale volutamente ambiguo esplicitato dalla sovraimpressione ‘continua…’.
Il Boss è un potente montante cinematografico che Di Leo sferra nei confronti della collusione tra politica e mafia. Un film di denuncia vestito da film di genere, considerando che l’autore non perde mai di vista questa doppia valenza in cui un elemento non mangia l’altro ma piuttosto lo nutre. Vestito, dicevo, costituito da una sana e gustosa predisposizione per la violenza, che sia innanzitutto visiva, ma anche psicologica, di linguaggio.
Ragnatele di potere, malavita e corruzione (anche tra le forze dell’ordine), la denuncia è forte e palese, lo dimostra la querela per diffamazione presentata dall’allora ministro dei rapporti col parlamento Giovanni Gioia che sosteneva che in una scena venisse fatto il suo nome insieme a quelli di Tommaso Buscetta e Salvo Lima. Situazione che portò ad un momentaneo sequestro di Il Boss e la convocazione di un processo che però non ebbe mai luogo in quanto la denuncia fu poi ritirata dallo stesso Gioia – che molti anni dopo viene definito cretino da Fernando Di Leo, per aver alzato un polverone (dal sapore di ammissione di colpa) su qualcosa che probabilmente sarebbe passato quasi inosservato.
La storia verte su una faida mafiosa, un inarrestabile domino di sanguinose vendette che rischia di danneggiare gli interessi economici di chi orbita intorno alla cupola. Un sistema di relazioni, onore, parentele, di gratitudine e fedeltà ma anche di tradimenti e macchinazioni, in cui il comune denominatore è il sangue con cui vengono puniti gli sgarri e gli affronti. Gli intrecci oscuri del meridione, ambienti torbidi radicati nella Sicilia dell’epoca. Un plot sufficientemente intricato, frutto di una costruzione accurata, in cui i personaggi si muovono sul filo di una tensione emotiva fittissima, perennemente sull’orlo di una crisi di nervi.
Un contesto narrativo in cui la violenza finisce chiaramente per essere un valore aggiunto. Fernando Di Leo mette le cose in chiaro fin da un prologo esplosivo – nel senso letterale del termine. Il Nick Lanzetta di Henry Silva irrompe in un piccolo cinema in cui alcuni mafiosi assistono ad una proiezione privata di un film porno; dopo aver stordito il proiezionista ricordandogli che a Gesù non piace il porno, inizia a colpire i malcapitati sparandogli con un fucile lanciagranate. Non un mitra, troppo banale. Nemmeno un’unica bomba, crepi l’avarizia. Un colpo esplosivo per ognuno di loro.
Con la scena che si chiude su corpi fatti a pezzi tra le fiamme impietose. Il tempo dei titoli di testa di Il Boss e ci si sposta in camera mortuaria, dove avviene uno straziante riconoscimento di corpi dilaniati e sfigurati, piazzati quasi sempre a favore di camera. Corposo antipasto di un repertorio che include gente che viene sparata in faccia, strangolamenti, persone arse vive, infilzate da un coltello a scatto aperto direttamente in bocca.
Come se Fernando Di Leo volesse ricordare a chi subisce il fascino di quella vita che l’unico modo di uscirne è da stesi con i piedi in avanti. L’omicidio brutale che diventa leitmotiv di un regolamento di conti perpetuo che porterà ad un finalissimo tutti contro tutti. Che non esclude un rapimento che cambia l’equilibrio della contesa, quello della figlia di un membro del clan che manda in crisi le regole ferree di una mafia che non dovrebbe guardare in faccia a nessuno.
Una ragazza che intraprende uno strano e morboso rapporto coi rapitori, attraverso il quale Fernando Di Leo mostra un’apertura mentale per niente scontata oggi, figuriamoci allora; l’autore scrive quel personaggio dalla sessualità libera e disinibita assolvendola da un presunto peccato presente solo nella mente di chi giudica, mettendola in contrasto con la mentalità arcaica degli uomini d’onore.
La gestione registica di Fernando Di Leo è di livello, adeguata alla scrittura. Ha le idee chiare su ogni registro, enfatizza il dramma, sa oliare il meccanismo tensivo tenendo sulla corda tanto i protagonisti quanto lo spettatore, mette in risalto il dialogo senza dimenticare l’azione che include riprese concitate e utilizzo di stunt di vario tipo.
Sequenze che trovano un quid in più nell’ottimo score musicale di Luis Bacalov, che scandisce i tempi in maniera incalzante e rielabora anche alcune sezioni utilizzate in Milano Calibro 9, primo capitolo della trilogia del milieu di Di Leo. Quadro ambientale in cui trova il consueto spazio quel product placement tipico dell’epoca che contribuisce ad alimentare il senso di nostalgia durante la visione di questi film, dal J&B al Fernet Branca, passando per l’acqua Pejo.
Tornando al focus del nostro omaggio, è quasi superfluo dire che tra i punti a favore de Il Boss c’è il suo protagonista. Henry Silva si cala nel personaggio con bravura e immedesimazione. Nick Lanzetta è badass. Silenzioso, determinato, ha il coraggio di chi ha una fame ambiziosa che lo porta ad orchestrare un’ascesa al potere tanto insospettabile quanto apparentemente impraticabile. Che non esclude gesti sofferti che non mi va di spoilerare. Un ruolo che l’attore statunitense ha cercato di capire fino in fondo, tempestando di domande Fernando Di Leo per approfondire la personalità e le motivazioni che animano Lanzetta.
In un rapporto di stima e affetto col regista, che Henry Silva ammirava come uomo prima ancora che come artista, per la sua intelligenza e il suo humour. L’attore che ha il privilegio di poter essere assistito da un cast che, come spesso accadeva nei film del glorioso filone, piazza una serie di facce giusto al posto giusto. Richard Conte (anche lui in Ocean’s 11) è il boss in carica da spodestare, Gianni Garko chiede ad un amico di registrare dei dialoghi in siciliano per poter studiare accuratamente la dizione e doppiarsi da solo (lui nato in Dalmazia) per interpretare un commissario pericolosamente ambiguo che fa strani discorsi sul ristabilire gli equilibri.
Tra gli antagonisti spicca Pier Paolo Capponi, a cui viene affidato il ruolo di Cocchi il calabrese, ossessionato dalla voglia di appartenere ad una famiglia che non vuole contaminare il proprio sangue con quello di un non siciliano, viene spinto da Fernando Di Leo a recitare senza pensare al pudore in modo da dare credibilità alla spietatezza del suo personaggio. Una giovane Antonia Santilli nasconde bene la propria inesperienza nella parte della disinibita Rina.
E ancora, Marino Masè è l’apparentemente fidato Pignataro che si ritaglia uno spazio importante nello showdown conclusivo, Howard Ross è lo sgherro piacione, Gianni Musy il codardo, Claudio Nicastro il padre disperato che perde la freddezza che la mafia impone, Corrado Gaipa il lungimirante avvocato della mala. Ultimo ma non ultimo, Vittorio Caprioli ironico ma pungente nei panni del questore.
Il Boss è uno dei (tanti, fortunatamente) titoli di rilievo di un filone e di un’epoca d’oro del nostro cinema di genere. Anni di gloria che dovrebbero essere fonte di ispirazione per molti addetti ai lavori contemporanei che si ostinano ad ignorare generi che hanno fatto la nostra fortuna, a differenza di un pubblico che a distanza di cinquant’anni sa ancora apprezzare ed amare prodotti che meritano.
Così come fanno all’estero, dove titoli come Il Boss o autori come lo stesso Fenrnado Di Leo fungono da ispirazione di cineasti del calibro di Quentin Tarantino (per dirne uno). Solidissimo noir poliziottesco che fonde sagacemente il film di denuncia a quello di genere, infarcendolo di una violenza cruda necessaria a sottolineare la negatività di uno spaccato criminale in cui non esistono personaggi realmente positivi. Un film che può contare sull’incisiva presenza di un grande come Henry Silva, che ha onorato l’Italia legandole una parte importante della sua lunga carriera.
Di seguito trovate il trailer internazionale di Il Boss:
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