Voto: 8/10 Titolo originale: Highlander , uscita: 07-03-1986. Budget: $19,000,000. Regista: Russell Mulcahy.
Dossier: It’s a kind of magic, i 35 anni di Highlander, un film immortale
11/12/2021 recensione film Highlander - L'ultimo immortale di Francesco Chello
Ricordiamo Freddie Mercury nel trentennale della sua scomparsa attraverso un'opera in cui la celebre colonna sonora dei Queen è uno dei pregi di un urban fantasy che unisce l’epica dei duelli di spada alla riuscita mitologia degli immortali, l’azione alla componente emotiva. Con Christopher Lambert, Sean Connery e Clancy Brown vertici di un triangolo vincente affidato alla visione energica del regista Russell Mulcahy
Il 24 novembre del 1991 moriva Freddie Mercury. 30 anni alla fine del mese scorso. Certe ricorrenze fanno riaffiorare i ricordi. Da ragazzino credo di aver perso il conto di quante volte ho fatto girare il vecchio LP dei miei genitori del primo Greatest Hits dei Queen. Oppure quanto ho consumato la musicassetta pirata targata ‘Mixed by Erry’ del Greatest Hits II, prima che la sostituissi col CD (stavolta originale) – me la ricordo ancora, una TDK da 60 minuti in cui il famigerato Erry (quelli delle mie parti sapranno di cosa parlo) non aveva inserito le ultime tre canzoni perché non entravano nel minutaggio base.
Non vado oltre, che forse sto già divagando e va a finire che mi ritrovo in piedi sulla scrivania a urlarvi EEEEEEOOOO nemmeno fossimo a Wembley nel 1986. Non avevo pianificato una commemorazione vera e propria, ma poi ho finito per spararmi due documentari e qualche live d’annata ed il mood era praticamente fatto.
Farrokh Bulsara nasce a Zanzibar nel 1946 da genitori parsi. Nel 1964 si trasferisce in Inghilterra con tutta la famiglia, momento di svolta visto che in terra inglese trova la valvola di sfogo ideale per la sua anima artistica e musicale. Dopo vari gruppi di passaggio, nel 1970 fonda i Queen con Brian May e Roger Taylor (mentre John Deacon completerà il quartetto l’anno dopo) e sceglie il suo nome d’arte, quel Freddie Mercury con cui resta negli annali della storia della musica.
Voce pazzesca, autore e compositore, artista a tutto tondo, frontman incredibile, animale da palco sul quale sprizza energia esercitando come pochi un ascendente ed una presa solidissima sul pubblico. Live nei quali non perde una nota manco fossero le versioni registrate comodamente in studio. Personalità forte ed esuberante, ma anche fragile in un privato di cui parla pochissimo ai media ed in cui, per molti versi, si rivelava differente da quello che mostrava in pubblico.
Riservatissimo, sui sentimenti e le relazioni, ma anche sulla malattia (annunciata ufficialmente soltanto un giorno prima della morte) affrontata con dignità e forza d’animo fino alla fine, senza perdere voglia di creare, di incrementare il suo lascito artistico.
E non entro nel dettaglio di una carriera musicale per la quale un dossier non basterebbe. Ad un certo punto mi sono detto che sarebbe stato carino celebrarlo in qualche modo anche qui. Attraverso un omaggio che avesse, ovviamente, una chiave cinematografica. E no, non mi sto riferendo a quel Bohemian Rhapsody che ancora non ho avuto coraggio e voglia di vedere, non tanto per quel sapore un po’ cosplay da puntatona di ‘Tale e Quale Show’ che traspare dagli spezzoni che ho visionato, quanto per la poca accuratezza che mi pare di capire abbia contraddistinto la ricostruzione (strategicamente limata) di certe situazioni e certi eventi.
La mia scelta, quindi, non poteva che cadere inevitabilmente su Highlander – L’ultimo immortale del 1986. Perché ho un debole per quel film. Perché quest’anno ricorre il 35ennale della sua uscita. E perché, di base, si tratta di un cult immortale.
Highlander nasce da un’idea di Gregory Widen che ne imbastisce un soggetto dopo una vacanza in Scozia, d’altronde il termine ‘highlander’ indica proprio le persone originarie delle Highlands scozzesi – e non vuol dire ‘immortale’, come qualcuno erroneamente ancora crede. Il passo successivo per Widen è quello di firmare anche la sceneggiatura insieme a Peter Bellwood e Larry Ferguson.
Lo script iniziale si intitolava ‘Shadow Clan’ e aveva un taglio più dark rispetto alla versione poi finita sullo schermo. Siamo in un decennio particolarmente florido per il cinema fantastico, ora non voglio fare il vecchio brontolone (però, che fascino i cantieri!) ma parliamo di quel tipo di cinema tipico del periodo e difficilmente ripetibile, storie originali che se uscissero oggi probabilmente non andrebbe a vedere nessuno. Si parte da uno spunto semplice come quello degli individui immortali, per poi costruirci intorno una vera e propria (e affascinante) mitologia. Il poter morire solo per decapitazione. La reminiscenza, l’adunanza, la ricompensa. La percezione dell’aura dei propri simili, il non poter combattere su terra consacrata.
Un motto come ‘There can be only one/Ne resterà soltanto uno’, destinato a diventare citazione storica e famosa. Un fantasy contemporaneo che porta il duello di spada ai giorni nostri, giocando sul contrasto tra uomini che si sfidano secondo stilemi di tempi lontanissimi all’interno di un contesto moderno, urbano e progredito.
Ma quello degli immortali è anche un tratteggio che permette al meccanismo narrativo di ricorrere al piano temporale alternato, in cui continui flashback portano l’azione nel passato – il più delle volte nella Scozia del 1500, ma anche una volta (più comica) nel 1783 a Windsor ed una durante la Seconda Guerra Mondiale.
Un modo per mettere in contrasto i bellissimi paesaggi naturali scozzesi e la giungla urbana di New York. Se il fulcro resta imperniato su eroismo, pathos, lotta (tra due uomini che rappresentano il classico bene vs male), c’è da dire che la storia di Highlander concede spazio anche a riflessioni sull’immortalità, che viene dipinta come un privilegio ma anche, se non soprattutto, come una condanna, quella di non poter coltivare gli affetti in quanto destinati a vedere per sempre gli altri morire. Oltre all’impossibilità di concepire figli, altro fardello emotivo per chi nutre il desiderio di diventare genitore e formare una famiglia. Il sogno di quasi ogni uomo di vivere per sempre visto in una connotazione di malinconia e sofferenza d’animo.
Malinconia che trova collocazione ideale negli occhi di un Christopher Lambert assolutamente perfetto per la parte da protagonista di Highlander, col versante tecnico che piazza una luce speciale piazzata di fianco all’obbiettivo della camera per far brillare quegli occhi in maniera particolare. Connor MacLeod del clan MacLeod è uno dei ruoli più iconici della carriera dell’attore francese (dal passaporto statunitense), che ottiene l’ingaggio dopo che la produzione aveva sondato Mickey Rourke (che rifiuta), Ed Harris, Michael Douglas, Sam Shepard, David Keith, Kevin Costner, Scott Glenn, Sting (che avrebbe dovuto firmare anche la colonna sonora), Peter Weller, Mel Gibson, Marc Singer, William Hurt, oltre a Kurt Russell che dopo aver accettato si ritirò su insistenza della compagna Goldie Hawn e lo stesso anno prese parte ad un altro cultone come Grosso Guaio a Chinatown.
Christopher Lambert ci mette impegno e abnegazione, deve imparare a parlare perfettamente l’inglese (in Greystoke – La leggenda di Tarzan, il signore delle scimmie del 1984 aveva pochissime battute) e a farlo con meno accento possibile ricorrendo ad un dialogue coach, si sottopone ad un lungo training col maestro di spade e schermidore olimpico britannico Bob Anderson per maneggiare con cura la spada, miope come una talpa nei duelli deve stare attentissimo a non ammazzare sul serio l’avversario.
Nella versione contemporanea, Connor ha uno sguardo triste ed enigmatico, il personaggio è taciturno, diffidente. Ha anche grande cuore, come dimostra la storia di Rachel, la sua assistente. I flashback ci illuminano sul suo background, sulla sua formazione. Sulle sue relazioni, sui suoi lutti. La scoperta dell’immortalità, trattata alla stregua della magia nera dal suo popolo che lo costringe all’esilio dopo un violento linciaggio. Scoperta che avviene nel primo incontro col Kurgan, che lo trafigge per assicurarsene. Un eroe d’azione romantico, che vive con sofferenza il dover sopravvivere ai propri affetti, vivendo però la propria immortalità come un privilegio da onorare combattendo il male con passione.
Il profilo di Christopher Lambert si sposa benissimo con le caratteristiche del personaggio, aria enigmatica, fisico snello, non muscoloso, anche per sottolineare la differenza di stazza col villain di cui parleremo a breve; non un guerriero gladiatoreo, ma combattente astuto e abilissimo, che fonda la propria forza nel cuore, nell’anima e nell’acciaio. Connor MacLeod del clan MacLeod è il vertice alto di un triangolo di personaggi chiave (e rispettivi interpreti) nella riuscita del film. Che può vantare la presenza di un pezzo da novanta come Sir Sean Connery, dopo che la produzione aveva valutato nomi come Lee Van Cleef, Clint Eastwood, Malcolm McDowell, Gene Hackman, Michael Caine e Peter O’Toole.
Il grande attore scozzese gira le proprie scene in soli 7 giorni (per un ingaggio di un milione di dollari), il suo è un minutaggio contenuto che però non viene percepito come tale per il modo in cui lascia il segno, a cominciare dalla voce con cui Sean Connery introduce la didascalia iniziale – che ha un effetto eco, visto che l’attore l’aveva registrata nel bagno di una villa spagnola dove stava migliorando l’accento con un voice coach. Accento che comunque cerca una sorta di plausibilità nella mitologia scozzese, secondo cui i Gael sono discendenti di una principessa egiziana di nome Scota.
Personaggio estroso, carismatico, ironico, esperto (ha 2437 anni), di origine egiziana, Juan Sánchez Villa-Lobos Ramírez è il mentore di Connor, colui che lo guida alla scoperta della propria immortalità e di ciò che comporta, che ne migliora le capacità di spadaccino, che gli apre gli occhi sul dolore di relazioni che non possono finire bene proprio per quella incapacità di morire (quanto meno di morte naturale). Lasciandogli in eredità anche la meravigliosa katana giapponese con testa di dragone sul manico, realizzata nel 593 a.c. dal grande fabbro Masamune, padre di sua moglie Sakiko.
Un rapporto a cui contribuisce la reale sintonia tra Lambert e Connery che non fa pesare il rango al collega più giovane, i due si chiamano tra loro con i nomi dei personaggi anche fuori dal set, col francese che convincerà l’illustre collega a tornare nel sequel – prima volta per Sean Connery in carriera, se si escludono i vari James Bond. Un film di questo tipo, costruito in parte su quello che sarà il duello dei duelli, ha l’obbligo di indovinare un grande villain.
Ed è quello che succede col Kurgan di Clancy Brown, che non esagero nel definire come uno dei cattivi più riusciti di sempre. Massiccio, imponente, volto pallido e capelli lunghi neri (poi rasato a zero verso la fine, in un look quasi frankensteiniano, con lo stesso attore che l’anno prima aveva interpretato proprio la creatura in The Bride/La Sposa Promessa), voce doppia e roca. Da ragazzino ricordo che ne ero intimorito e affascinato allo stesso tempo.
Suggerito al regista Russell Mulcahy da Sting con cui aveva lavorato nel sopracitato La Sposa Promessa, Clancy Brown si immerge nel ruolo (per il quale erano stati presi in considerazione Rutger Hauer, Roy Scheider, Nick Nolte ed Arnold Schwarzenegger) al punto che la crew ne è intimorita; non solo sfrutta la propria fisicità, ma è bravissimo nell’interpretazione di un personaggio sadico, violento, psicopatico, squallido, viscido, finanche blasfemo in una sequenza in chiesa che si farà ricordare e per la quale Brown si sentirà in dovere di chiedere scusa ai presenti una volta terminata la ripresa.
Roxanne Hart è Brenda, la donna che permetterà a Connor di riscoprire l’amore, per la quale si era pensato anche a Brooke Adams, Linda Fiorentino, Kate Capshow, Lorraine Bracco, Linda Hamilton, Demi Moore, Karen Allen, Sigourney Weaver, Sean Young, Rosanna Arquette, Jennifer Beals, Elisabeth Brooks, Catherine Mary Stewart e Tanya Roberts (che rifiuta per girare 007 – Bersaglio Mobile).
Parte della riuscita di Highlander passa senza dubbio per la regia di Russell Mulcahy, che si ritaglia anche un cameo nei panni del primo tizio sul marciapiede che viene colpito dal Kurgan alla guida. Il regista australiano ci arriva dopo diversi anni di esperienza nel campo dei videoclip musicali, che lo avevano portato all’esordio al cinema in patria con il gustoso Razorback, beast movie dal protagonista inusuale (a tutt’oggi esiste veramente poco in tema di cinghiali assassini) che sfrutta l’ambientazione ed un clima sporco e malato.
Russell Mulcahy è molto motivato, ha un approccio iperattivo, sempre in cerca di una nuova visuale, di qualcosa di nuovo da inventare. Lo fa capire subito, con le riprese volanti della skycam all’incontro di wrestling della AWA (che vede coinvolti i Fabulous Freebirds di Michael Hayes, Terry Gordy e Buddy Roberts che combattono contro Greg Gagne, The Tonga Kid e Jim Brunzell), tecnica al tempo innovativa e soprattutto costosa, che simulava le riprese di un elicottero (Mulcahy aggiunse anche l’effetto sonoro per rafforzare l’illusione) e prevedeva l’utilizzo di un sistema computerizzato che sosteneva la telecamera su quattro fili, inventato da Garrett Brown (già creatore del sistema di stabilizzazione della steadicam).
Utilizza tecniche tipiche dei video musicali, come il montaggio veloce e musica ritmata. I duelli di Highlander sono tutti concitati al punto giusto, coreografati in maniera adeguata (e non senza pericoli), girati con qualsiasi condizione atmosferica (incluso pioggia e neve), ripresi in modo da esaltarne le gesta, con le spade collegate ad una batteria per auto – una spada positiva ed una negativa in modo da ottenere un arco di scintille nel momento dello scontro.
A cominciare dallo scontro nel parcheggio, con i due contendenti (Christopher Lambert e Peter Diamond, che del film è stunt coordinator) che vendono cara la pelle e la prima reminiscenza che si mostra immediatamente come uno dei momenti più impattanti visivamente, devastando parabrezza, finestrini e fari un intero parco macchine – la prima volta che lo vidi, in VHS con mio zio, riavvolgemmo più volte la sequenza per capacitarci della mole di danni.
Il drammatico confronto tra il Kurgan e Ramirez, con l’abitazione di pietra che crolla sotto i colpi di spada del cattivo in una cupa serata piovosa – e Clancy Brown che quasi decapita Sean Connery che per togliere il collega dall’imbarazzo di una mortificazione, chiese scherzando di utilizzare più spesso la controfigura.
I flashback in Scozia di Highlander, con scene di massa che prevedono centinaia di comparse (pagate 25 sterline al giorno più 10 extra se portavano anche un cavallo) che a causa del freddo pungente abusavano di alcolici arrivando al pomeriggio ubriache, prendendo la parte con così tanto entusiasmo che ogni giorno servivano medici e infermieri pronti a curare le tante ferite di una battaglia in cui se le davano (sul serio) di santa ragione.
Per arrivare ad un finale epico sul tetto allagato, illuminato dall’enorme insegna della Silvercup (azienda panificatrice che aveva chiuso i battenti qualche anno prima a cui apparteneva l’edificio), concluso in un tripudio di luci, elettricità, vetri esplosi, immagini di demoni e spiriti degli immortali caduti nel corso dei secoli. Senza contare alcune sequenze eliminate che, purtroppo, in seguito sono andate perse per sempre in un incendio, come quella che introduceva Yung Dol Kim (un immortale asiatico) in un duello mortale col Kurgan.
Per la parte conclusiva mi sono tenuto la portata per la quale avevamo imbastito il banchetto. Mi riferisco naturalmente ai Queen, che firmano la colonna sonora di Highlander insieme a Michael Kamen. E pensare che la band inglese non fu la prima scelta, la proposta arrivò dopo aver vagliato altre soluzioni come David Bowie, Duran Duran, Marillion e Sting (che, come detto, avrebbe poi dovuto interpretare Connor MacLeod del clan MacLeod). Attraverso i suoi molteplici contatti nel mondo della musica, Russell Mulcahy propone la cosa a Freddie Mercury, che accetta di buon grado.
Per il gruppo britannico è la seconda esperienza di questo tipo, dopo Flash Gordon, cinecomic del 1980 (la recensione). L’idea iniziale era quella di realizzare un solo brano significativo, ma il soggetto e la visione del film piacquero a tal punto ai membri della band da farli sentire particolarmente ispirati dal tipo di storia che aveva avuto il pregio di alimentare la loro creatività. Highlander si apre sulle note dell’energica Princes of the Universe, che diventerà anche la sigla della serie tv spin off in onda dal 1992 al 1998.
Gimme the Prize è conosciuta anche come ‘Kurgan’s Theme’, visto che il brano mostra la prospettiva del villain ossessionato dalla ricompensa e dal potere, e contiene battute del film come ‘It’s better to burn out than to fade away’ (che il Kurgan pronuncia in chiesa, improvvisata da Clancy Brown che, a sua volta, la preleva da Hey, Hey, My, My di Neil Young, e che sarà citata anche da Kurt Cobain nella sua lettera d’addio) o la già menzionata ‘There can be only one’.
One Year of Love fa da sottofondo alla scena del bar mentre il marine invasato va in giro in auto ascoltando Hammer to Fall, l’unico brano dei Queen non inedito – viene preso dal precedente The Works. Sempre in auto, ma stavolta guidata da un Kurgan fuori controllo, ascoltiamo una cover di New York, New York cantata da Freddie Mercury in versione solista (non è presente in nessun album della band), dopo che Don’t Lose Your Head (altra frase presa dal film) aveva accompagnato il rapimento di Brenda.
Il pezzo più evocativo è probabilmente Who Wants to Live Forever, scritto da Brian May, che accompagna i ricordi agrodolci di Connor con sua moglie Heather (Beatie Edney, che supera la concorrenza di Virginia Madsen provinata per il ruolo) fino alla morte di lei di vecchiaia, per poi ritornare brevemente ai giorni nostri in occasione del bacio col nuovo love interest di MacLeod, e che qui viene cantata interamente da Mercury a differenza della versione originale.
I titoli di coda di Highlander scorrono sulla melodia di A Kind of Magic, anche questa canzone viene proposta in una versione differente da quella ufficiale (album version che francamente preferisco), scritta da Roger Taylor ispirato proprio dalla frase (ancora una volta) che donerà il titolo alla canzone, pronunciata da Connor alla piccola Rachel durante la Seconda Guerra Mondiale. I cinque inediti sono inclusi nell’album dei Queen intitolato proprio A Kind of Magic uscito nel 1986, i video di Princes of the Universe (in cui compare anche Christopher Lambert che duella con Freddie Mercury) e A Kind of Magic saranno diretti dallo stesso Russell Mulcahy, che prima di allora non aveva ancora girato nessun videoclip della band inglese.
Realizzato con un budget da 19 milioni di dollari fornito dalla Thorn EMI, girato tra aprile ed agosto del 1985, Highlander esce nelle sale in giro per il mondo nel corso del 1986 incassando pochino ai botteghini (circa 13 milioni). In breve tempo, però, diventa un cult con decine di appassionati al seguito. E’ proprio il pubblico a portare inevitabilmente all’espansione di quello che diventa un franchise: quattro sequel in live action (che puntualmente non tengono conto del capitolo immediatamente precedente), due serie tv (che espandono la mitologia degli immortali) ed una serie animata (con protagonista Quentin MacLeod), un film d’animazione giapponese (è la volta di Colin MacLeod) ed almeno un paio di videogames.
Una saga che mi risulta complicato descrivere in poche righe e di cui potrebbe scrivere uno speciale a parte (e se vi va di leggerlo, non siate timidi e fatecelo sapere), un universo narrativo che avanza un po’ improvvisando e senza grossa programmazione. A cominciare dal secondo capitolo (The Quickening del 1991), che diventa un caso cinematografico per il modo in cui sputtana praticamente tutto ciò che era stato il suo predecessore con un film talmente sgangherato (che infila alieni ed un fantomatico pianeta di nome Zeist) da essere rinnegato e cancellato dal sequel successivo (The Sorcerer del 1994).
Tra i vari seguiti, il mio preferito (e forse l’unico che meriterebbe di esistere) è Endgame del 2000, un film pieno d’amore per i fan del primo capitolo e della serie tv omonima, che cerca un punto d’incontro tra i due (prelevando elementi da entrambi), facendo collimare le storie di Connor e Duncan MacLeod del clan MacLeod in momenti di forte emotività che non è il caso di spoilerarvi. Nel 2007 esce The Source, l’unico lungometraggio in cui non compare Christopher Lambert (che appariva anche nel primo episodio della serie tv), ad oggi risulta l’ultimo film in attesa di un reboot di cui ormai si parla da anni.
Qualcuno oggi dice che Highlander non è invecchiato granché bene. Io rispetto le opinioni, anche se taglierei la testa dei miscredenti in segno di disaccordo. E’ che non trovo la cosa molto plausibile, visto che il film sembra godere del destino di Connor MacLeod del clan MacLeod. Quell’immortalità che avvolge il suo meritato status di cult. Per tutta una serie di fattori che si incastrano a meraviglia, non ultima una colonna sonora come quella dei Queen, che contribuisce a difendere il film dallo scorrere del tempo. D’altronde gli stessi artisti riescono a sopravvivere grazie alle loro opere e 30 anni non bastano per spegnere una fiamma come quella di Freddie Mercury.
Di seguito trovate la scena del combattimento nel parcheggio sotterraneo da Highlander – L’ultimo Immortale:
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