Voto: 8/10 Titolo originale: Sorcerer , uscita: 24-06-1977. Budget: $22,000,000. Regista: William Friedkin.
Dossier: Sorcerer – Il Salario della Paura, a lezione di tensione da William Friedkin
28/08/2023 recensione film Il salario della paura di Francesco Chello
Ricordiamo il grande cineasta americano recentemente scomparso attraverso una sua opera meno inflazionata ma estremamente valida. Un film sul destino e l’impossibilità di sfuggirgli. Un adventure thriller tesissimo, frutto di una perfetta gestione del tempo, dei personaggi e della loro missione impossibile, della valorizzazione di una location naturale tanto ostile quanto affascinante.
Cinematograficamente parlando, la notizia del mese non può che essere la scomparsa di William Friedkin avvenuta lo scorso 7 agosto. Uno di quei nomi per i quali non credo serva particolare presentazione, così come dubito di poter aggiungere chissà cosa a quello che può dirci un curriculum come il suo.
Esponente della cosiddetta New Hollywood, cineasta straordinariamente dotato, audace, innovatore, maestro nella gestione di tensione ed inquietudine, del punto d’incontro tra tecnica notevole e narrativa avvolgente, del racconto per immagini. William Friedkin nasce a Chicago nel 1935, figlio di ebrei immigrati dall’Ucraina. Cresciuto in condizioni modeste, si arrangia con qualche lavoretto già in giovane età.
Si iscrive alla Senn High School, dove inizia a giocare a basket con buoni risultati al punto da valutare il professionismo. Diplomatosi a 16 anni, trova subito lavoro presso la sezione corrispondenza della WGN-TV in cui scala presto posizioni ritrovandosi, a soli 18 anni, a dirigere i primi documentari e show dal vivo. Nel 1962, il suo The People vs. Paul Crump vince un premio al San Francisco Film Festival, di lì a poco ottiene un contratto col produttore David L. Wolper.
Nel 1965 dirige Off Season, episodio della serie The Alfred Hitchcock The Hour, in cui lo stesso Hitchcock lo redarguisce perché non indossa la cravatta sul set. Lo stesso anno si trasferisce a Hollywood, dove nel 1967 si guadagna l’occasione di esordire sul lungometraggio con la regia di Good Times, commedia musicale con Sonny e Cher, genere che riprende nel 1968 con The Night They Raided Minsky’s (Quella Notte inventarono lo Spogliarello), mentre nel 1970 è la volta del drammatico The Boys in the Band (Festa per il Compleanno del Caro Amico Harold).
La svolta nel 1971, quando realizza quella bomba di The French Connection (Il Braccio Violento della Legge), magnifico poliziesco neo-noir che si rivela successo di pubblico e critica e fa incetta di premi in giro per il mondo – tra cui ben cinque Oscar: montaggio, sceneggiatura non originale, attore protagonista (Gene Hackman) e, manco a dirlo, gli ambitissimi film e regia (la recensione). Niente male anche il successivo, ‘na cosetta come The Exorcist (L’Esorcista), semplicemente uno degli horror più belli e importanti di tutti i tempi.
Ritorna al poliziesco con i bellissimi Cruising (1980) e To Live and Die in L.A. (Vivere e Morire a Los Angeles, 1985), all’horror con The Guardian (L’Albero del Male, 1990) e Bug (2006). Sul curriculum anche l’heist di The Brink’s Job (Pollice da Scasso, 1978), la comedy di Deal of the Century (L’Affare del Secolo, 1983), lo sport di Blue Chips (Basta Vincere, 1994), il thriller in innumerevoli salse di Rampage (Assassino senza Colpa?, 1987), Jade (1995), Rules of Engagement (Regole d’Onore, 2000), The Hunted (2003) ed infine Killer Joe (2011), che sembrava essere il commiato pre-pensionamento fino all’imminente The Caine Mutiny Court-Martial, legal drama a sfondo militaresco che sarà presentato malinconicamente postumo a settembre in anteprima nel corso della Mostra del Cinema di Venezia.
Nel mentre non ha disdegnato altri media, come i video musicali Self Control di Laura Branigan o Somewhere di Barbra Streisand, senza dimenticare le esperienze sul piccolo schermo su serie come The Twilight Zone e Tales from the Crypt (un episodio a testa) o C.S.I. (due episodi) oltre a film tv come 12 Angry Men (La Parola ai Giurati, 1997) e i due C.A.T. Squad (1986 e 1988).
Come da nostra abitudine, l’intenzione è quella di ricordare ed omaggiare William Friedkin attraverso una delle sue opere. Per l’occasione ho invocato Pazuzu chiedendogli aiuto per la scelta che è caduta su Sorcerer del 1977. Film probabilmente meno inflazionato (e sottovalutato) quando si parla di un curriculum come il suo, di certo non sconosciuto per gli appassionati con gusti di un certo livello come i lettori del Cineocchio.
Sorcerer, letteralmente ‘Stregone’, sostantivo che non è il preludio di un fantasy quanto, semplicemente, il suggestivo nome di uno dei due camion utilizzati nella missione impossibile al centro del film – quello dei due che non riesce a farcela, creando una specie di spiegazione logica. In Italia esce come Il Salario della Paura, titolo chiaramente distante dall’originale ma, per una volta, non campato in aria; riprende (e traduce), infatti, quello di Le Salaire de la Peur, il romanzo di Georges Arnaud del 1950 da cui viene tratta la sceneggiatura di Walon Green e che aveva già dato vita ad una trasposizione filmica omonima diretta da Henri-Georges Clouzot nel 1953 (coproduzione franco-italiana che nel belpaese era stata distribuita come Vite Vendute), del resto anche nel Regno Unito venne distribuito come The Wages of Fear proprio per evitare fraintendimenti di genere.
Clouzot che viene omaggiato da William Friedkin con una dedica sui titoli di coda dopo averlo voluto incontrare per avere il suo benestare sul progetto (e offrirgli una percentuale sui ricavi che Clouzot non farà in tempo a vedere vista la sua scomparsa a gennaio del 1977), sebbene il film non voglia essere un remake in senso stretto quanto una nuova trasposizione del romanzo (e di riflesso una sorta di rifacimento anche della prima versione cinematografica).
L’intenzione di condividere la struttura originaria per poi trovare una propria direzione, per una versione più grintosa e dotata di un senso documentaristico, utilizzando personaggi scritti in maniera completamente diversa. La trama mescola abilmente dramma e avventura, con un’anima da thriller mozzafiato, ma quello che colpisce in particolar modo William Friedkin è la possibilità di costruire una storia incentrata sul destino, sulla sua forza, sulla voglia di provare a reagire a quello che può essere stato scritto per noi, ma anche sull’impossibilità di sfuggirgli.
Da qui anche la scelta di Sorcerer come titolo, un riferimento al malvagio mago del destino, che venne in mente al regista anche grazie all’omonimo album di Miles Davis. Un racconto di reazione, ma anche di disperazione, di speranze nel momento in cui è praticamente impossibile averne – con un finale amaro, eloquente in questo senso.
Lo screenwriter Walon Green aveva conosciuto Friedkin negli anni 60, quest’ultimo era rimasto colpito dal suo lavoro su The Wild Bunch (Il Mucchio Selvaggio, 1969) e desiderava lavorarci, i due impiegarono quattro mesi per impostare trama e sceneggiatura a proposito della quale Green confermerà che il loro scopo principale era quello di realizzare un film cinico, in cui il destino gira l’angolo prima ancora che siano le persone a farlo da sole.
Per certi versi, il discorso del destino sembra riprendere il filo de L’Esorcista, con la differenza sostanziale che stavolta non c’è alcuna connotazione soprannaturale, la vicenda è estremamente terrena ed è imperniata su quattro personaggi in qualche modo negativi, dal passato delinquenziale.
La conferma dell’interesse di William Friedkin nei confronti di profili legati a persone comuni (se non proprio poco di buono) anziché figure eroiche che non hanno mai attratto la sua attenzione, individui ordinari magari capaci di compiere eccezionalmente un’azione sopra la media (sottolineandone, in quel caso, le motivazioni) ma nessun supereroismo – non a caso, negli ultimi anni, il filmmaker americano non ha perso occasione per esprimere il suo disappunto nei confronti della direzione fumettistica (da lui definita pornografica) intrapresa dal cinema contemporaneo.
Un film che riduce i dialoghi all’essenziale, che vive della potenza delle sue immagini, in cui ogni inquadratura sembra dirti qualcosa. Lo spettatore deve fidarsi e affidarsi al narratore, non necessariamente ai personaggi, sfida che Friedkin vince naturalmente a mani basse. La narrazione di Sorcerer – Il Salario della Paura è di livello altissimo, tutti gli elementi sono inseriti ed utilizzati in maniera eccellente.
Il film è innanzitutto una lezione sulla gestione dei tempi, il regista non ha fretta di arrivare prematuramente al dunque e spende tutto il tempo necessario alla fase preparatoria, che sia per la caratterizzazione dei personaggi, la descrizione del luogo, la messa a fuoco della situazione e dello scopo comune.
A cominciare dal prologo diviso in quattro parti, una per ogni personaggio, collegate a luoghi e crimini (finiti nel sangue) differenti: a Vera Cruz vediamo il sicario Nilo portare a termine un contratto, ci si sposta a Gerusalemme dove il terrorista Kassem compie un attentato esplosivo (così – realmente – forte da rompere la finestra della casa del sindaco), è la volta di Parigi in cui si muove il truffatore d’alta finanza Victor Manzon la cui ultima frode porta al suicidio del cognato e partner in affari, si chiude ad Elizabeth nel New Jersey dove, prendendo spunto da eventi realmente accaduti (a cui aveva preso parte anche Gerard Murphy, a cui Friedkin concede una particina proprio nello stesso colpo) una banda di rapinatori deruba (dopo uno scontro a fuoco) una chiesa connessa alla mafia per poi schiantarsi in un incidente d’auto al quale sopravvive solo l’autista Jackie Scanlon – incidente che richiede circa dieci auto distrutte, dodici riprese e dieci giorni di lavoro, giusto per rendere l’idea del livello di perfezionismo.
Quattro circostanze che trovano nella fuga l’unico epilogo possibile che unisce i quattro fili in un’unica tela, quella di Porvenir, sperduto paesino dell’America Centrale dove il quartetto si guadagna da vivere lavorando per una compagnia petrolifera. E qui entra in ballo un’altra giocata da fuoriclasse di William Friedkin che mette in pratica un impiego magistrale della location naturale della Repubblica Dominicana – suggerita da Charlie Budhorn, produttore che faceva business in quel territorio e che ebbe delle frizioni col regista che decise di ‘punirlo’ piazzando la sua foto nel malvagio consiglio d’amministrazione della finta compagnia petrolifera che si vede nel film.
Prima il paesino e il suo luridume, la sua fatiscenza, paghe da fame e condizioni igienico sanitarie da far rabbrividire (aprendo uno sguardo critico sullo sfruttamento del lavoro nei paesi sottosviluppati), il classico posto dimenticato da Dio che ti mette a disagio soltanto a pensarci. Una prigione senza mura in cui percepire il senso di povertà e persecuzione. Poi la giungla con tutte le sue insidie ed un plus di nitroglicerina pronto a deflagrare.
Un film di sudore, sangue, sudiciume. Di violenza psicofisica. Di grandiose esplosioni così vere da rendere fiero Oppenheimer. Di enorme sacrificio, con cast e crew che meritano un encomio extra anche solo per le condizioni di lavoro proibitive, basti pensare che almeno una cinquantina di persone coinvolte nella produzione hanno dovuto lasciare il set per lesioni o cancrena, molti altri ricoverati per malaria, dissenteria o intossicazione alimentare, oltre allo stesso Friedkin che arrivò a perdere una ventina di chili ed a contrarre la malaria.
Una situazione di enorme stress che finisce per provocare tensioni continue sul set, come quella tra Friedkin ed il direttore della fotografia Dick Bush per le sequenze nella giungla ritenute troppo scure e sottoesposte, sostituito in corso d’opera da John M. Stephens. La Universal propose una partnership alla Paramount per ammortizzare le spese che stavano andando oltre le previsioni, il regista ebbe frequenti scontri col produttore David Salven per le costose riprese in location, arrivando a licenziarlo e farsi accreditare anche in quel ruolo.
Licenziamenti e liti che videro avvicendarsi cinque direttori di produzione ed un team di camionisti sostituito dopo uno scontro col loro rappresentante. Durante le riprese a Tuxpetec (Messico), alcuni membri della troupe vennero accusati dalle forze dell’ordine locali di possesso di stupefacenti, costringendo la produzione a sostituirli. Insomma, un’odissea impegnativa, dalla durata di dieci mesi nei quali si stima siano stati utilizzati oltre 1200 camera set-ups.
Sorcerer – Il Salario della Paura è frutto di un importante quadro qualitativo in cui si incastra un meccanismo tensivo assolutamente perfetto, tensione che accompagna la visione dal primo all’ultimo fotogramma e che trova il suo apice in quel viaggio impossibile che a sua volta trova il suo momento clou nella fantastica sequenza (doppia) del passaggio sul ponte di legno, una delle cose più belle che Friedkin abbia girato in carriera, che metterla in locandina e sulle foto promozionali era praticamente il minimo.
Oltre che essere una delle riprese più ardue mai effettuate dal regista. Realizzata sul serio, per intero, senza effetti ottici o protezioni posteriori. Una cosa oggi impensabile, che verrebbe comodamente realizzata in una CGI senz’anima. Il ponte viene progettato dallo scenografo John Box, che lo dota di un nucleo in acciaio e di un impianto idraulico per poi ricoprirlo con legno più o meno marcio e corde, ricostruito completamente al costo inziale di un milione di dollari che viene più che raddoppiato nel momento in cui le riprese devono spostarsi dalla Repubblica Dominicana a Tuxpetec a causa del prosciugamento imprevisto del fiume che nel secondo tentativo viene scongiurato dall’ausilio di tubazioni e apparecchiature di pompaggio per arginarlo e gonfiarne la corrente.
Nel corso delle riprese in questione, i camion si capovolgono sette o otto volte finendo in acqua con persone al suo interno. Camion che sono quasi dei personaggi aggiunti, veicoli da traporto militare GMC M211 utilizzati durante la guerra in Corea, adeguatamente decorati e rifiniti, corredati da un sonoro che include il ruggito di una tigre mixato al rombo del motore del camion Sorcerer, e quello di un puma per il gemello Lazaro.
Tra gli effetti audio di sottofondo anche alcuni presi dalla serie The Outer Limits (1963), all’interno di comparto sonoro che otterrà una nomination agli Oscar. Attori e troupe affrontano difficoltà non lontane da quelle affrontate dai personaggi nella scena. Gli attori, ad esempio, guidano sul serio, la paura e la cautela che si vedono sono reali, mentre nelle sequenze a campo lungo a guidare sono gli stuntmen. Per simulare la tempesta vengono utilizzati degli elicotteri, espediente che è valso a Friedkin il soprannome ‘Hurricane Billy’ – anche, se non soprattutto, in riferimento al suo carattere fumantino.
E vuoi che un prodotto del genere non abbia anche la musica giusta? Quella dei Tangerine Dream che il regista (che in una fase embrionale aveva discusso di una collaborazione con Peter Gabriel) sceglie dopo averli visti in un concerto tenuto in una chiesa abbandonata nella Foresta Nera a cui fa una proposta praticamente al buio con la band tedesca che scrive la soundtrack basandosi esclusivamente sullo script e senza aver visto alcuna scena filmata. La traccia principale, Betrayal, viene suonata in sottofondo alle due apparizioni di Vinnie (Randy Jurgensen) come a volerne preannunciare il tradimento, il brano sarà riutilizzato nel 1979 per il trailer del cult Warriors (I Guerrieri della Notte) di Walter Hill.
La bravura di un cineasta si vede anche nella scelta e nella direzione di un cast. Quello che accade immancabilmente in Sorcerer – Il Salario della Paura per un team attoriale che si distingue per impeto, intensità e dedizione alla causa che include la realizzazione di buona parte dei propri stunt.
E questo avviene nonostante il film sia stato originariamente scritto per tre attori (su quattro) differenti da quelli poi effettivamente ingaggiati. In pratica, l’unico nome scelto in pre-produzione e poi confermato è quello del marocchino (naturalizzato francese) Amidou, che aveva colpito Friedkin nel 1969 con la sua interpretazione in La Vie, L’Amour, La Mort (La Vita, L’Amore, La Morte) e che nel 2005 definirà l’esperienza come il ricordo più duraturo della sua carriera, anche per il rifiuto di avere una controfigura che si ripercuoterà sul piano fisico.
Il ruolo del protagonista Jackie Scanlon era stato concepito per Steve McQueen, che aveva dato il suo benestare, entusiasta sia per lo script che per la possibilità di lavorare con William Friedkin, salvo poi chiedere alcune condizioni – un ruolo attoriale per la compagna Ali MacGraw o, in alternativa, da executive producer, la possibilità di girare negli Stati Uniti e non all’estero – impossibili da soddisfare che portarono ad un amichevole nulla di fatto.
Dopo aver sondato Clint Eastwood, Jack Nicholson, Paul Newman e Robert Mitchum (scoraggiati dal viaggio e dalle tempistiche), Gene Hackman (non convinto da un copione ritenuto troppo violento), Kris Kristofferson (che temeva di non avere capacità attoriali per un film di quella portata), Warren Oates (bocciato dalla produzione in quanto ritenuto nome non sufficientemente trainante dal punto di vista commerciale), Nick Nolte (la sua era in realtà un’autocandidatura che non venne presa in grossa considerazione in quanto non ancora conosciutissimo), a quel punto la scelta di Roy Scheider fu quasi naturale, aveva già lavorato col regista in The French Connection (saltando poi L’Esorcista in quanto non ritenuto adatto da William Blatty per il ruolo di Padre Karras) e veniva dal successo clamoroso di Jaws (Lo Squalo del 1976), condizioni che rendevano il suo nome abbastanza forte pur non avendo i galloni da star come magari poteva avere the king of cool Steve McQueen.
Fiducia che Scheider ripaga ampiamente, con consueta intensità a cazzutaggine, credibile e coraggioso, disperatamente umano. Il profilo di Scanlon era quello di un uomo qualunque, modellato sul personaggio di Fred C. Hobbs interpretato da Humphrey Bogart in The Treasure of the Sierra Madre (Il Tesoro della Sierra Madre, 1947).
Tuttavia, il rapporto con William Friedkin si incrinò a causa di un atteggiamento differente da parte dell’attore che portò non pochi attriti tra i due, e dire che il regista aveva anche acconsentito ad offrire un impiego da montatrice alla moglie Cynthia Scheider in modo che i due non dovessero separarsi per il tempo delle riprese.
Gli altri personaggi avrebbero dovuto essere dell’italiano (di adozione francese) Lino Ventura, che avrebbe acconsentito di fare da spalla a McQueen ma non accettò di apparire in secondo piano rispetto a Roy Scheider, e del nostro Marcello Mastroianni per una trattativa che avrebbe anche potuto andare a buon fine se non fosse stato per il lungo periodo di riprese all’estero che avrebbe tenuto l’attore italiano troppo tempo lontano dalla figlia Chiara, al centro di problemi di affidamento con Catherine Deneuve da cui si era separato nel 1975.
Sostituiti degnamente dal francese Bruno Cremer (nei panni di Victor Manzon), che godeva di buona fama in patria, e dallo spagnolo Paco Rabal (il sicario Nilo), che aveva colpito Bill Friedkin in Belle de Jour (Bella di Giorno del 1967) ed era già stato sondato per The French Connection per il ruolo poi andato a Fernando Rey.
Ma non sempre tutto quello che è bene, finisce bene. Questo per dire che non sempre un film meritevole come Sorcerer – Il Salario della Paura raccoglie quanto gli spetta, il cinema non è una scienza esatta e può succedere che una qualità notevole non venga ripagata da critica e/o incassi.
In sostanza ciò che succede col titolo in oggetto, che floppa tanto clamorosamente quanto ingiustamente al botteghino, sia per le attese di un pubblico che forse si aspettava un nuovo Esorcista che per la concomitanza dell’uscita di Star Wars / Guerre Stellari, che si rivela presto un fenomeno di massa e che contribuisce a ringiovanire l’età media degli spettatori abituali. I numeri sono impietosi, 9 milioni di dollari di incassi globali a fronte di un budget da 21 che sfora i 15 previsti inizialmente.
La delusione portò William Friedkin a prendersi una pausa trasferendosi in Francia con Jeanne Moreau (la prima di quattro mogli) e dissociarsi temporaneamente dall’industria cinematografica. Lui che ha sempre considerato questo film tra i suoi preferiti se non addirittura il suo preferito in assoluto, uno dei pochi che riusciva a riguardare in quanto il risultato finale rispecchiava esattamente le sue intenzioni iniziali.
Per fortuna il tempo sa essere galantuomo (col contributo dell’uscita in home video arrivata con clamoroso ritardo nel 1990), riconoscendo a Sorcerer – Il Salario della Paura una sacrosanta rivalutazione postuma da parte di appassionati, che lo annoverano tra le opere migliori del regista – tra loro anche Quentin Tarantino e Stephen King che lo includono tra i loro preferiti di sempre.
Visto che mi piace fare le cose come si deve, ne ho approfittato per recuperare il blu-ray UK dato che il film in Italia non è mai uscito in home video digitale – e mi ricollego al ‘meno inflazionato’ a cui accennavo in apertura – un acquisto che evidentemente consiglio, audio unicamente originale e va benissimo così tanto vi avrei comunque suggerito di vederlo in lingua madre, sia per una migliore e più coerente fruibilità che per la presenza di svariati dialoghi in lingue differenti (motivo che causò le lamentele degli esercenti costringendo il distributore ad inserire un avviso sulle locandine) che nella versione nostrana hanno pensato bene di doppiare interamente in un unico idioma.
Buono il comparto audio/video, gustoso ritrovarsi un bonus come la conversazione (risalente al 2015) di un’ora e un quarto tra Friedkin e Nicolas Winding Refn e non tanto per il danese insospettabilmente molesto e autoreferenziale (si autodefinisce più e più volte la versione giovane del regista di Chicago, varie volte interrompe concetti interessanti parlando sull’interlocutore, per chiudere con una domanda ripetuta allo sfinimento in quanto insoddisfatto dalla risposta) quanto proprio per la piacevolezza dell’ascoltare il caro vecchio Bill ripercorre le fasi produttive del film o parlare del cinema in generale con lucida competenza ed una sicurezza nei propri mezzi che non trascende mai il rispetto e la sincera ammirazione per altri colleghi.
Che altro aggiungere, se non ribadire l’importanza di un titolo come Sorcerer – Il Salario della Paura all’interno della filmografia di un regista del calibro di William Friedkin. Una lezione di cinema, di narrativa per immagini, di costruzione della tensione. Tassello di un’eredità che solo i grandi sanno lasciare.
Di seguito trovate il trailer internazionale di Il Salario della Paura:
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