Voto: 7/10 Titolo originale: Un film fatto per Bene , uscita: 05-09-2025. Regista: Franco Maresco.
Un film fatto per Bene: la recensione del lungometraggio di Franco Maresco (Venezia 82)
06/09/2025 recensione film Un film fatto per Bene di Giovanni Mottola
Il regista torna sulle scene tra riflessioni sul cinema, Carmelo Bene e la crisi dell’arte contemporanea

Da anni Franco Maresco ha i documenti scaduti e, per una specie di blocco mentale, non riesce a rifarli. Di conseguenza non lascia mai Palermo, ma oramai gira poco anche per la sua città, non riconoscendola più. Lo atterrisce vedere sushi bar e facciate restaurate in modo obbrobrioso coi fondi europei. Come lui stesso riconosce, è un uomo del Novecento che ha vissuto lotte, scoperte e cambiamenti: non si aspettava di assistere a un imbarbarimento tanto sconvolgente. Anche, soprattutto, riguardo al cinema.
A Emiliano Morreale, che lo ha intervistato per il Venerdì di Repubblica del 22 agosto, ha dichiarato: “Ormai la coscienza dell’inutilità di tutto è soverchiante. Oggi chiunque abbia un’onestà intellettuale e la capacità di discernere sa che le categorie con cui siamo cresciuti sono finite, anche a fronte dell’onnipotenza tecnologica. Il cinema è stata un’arte novecentesca, non ha niente a che fare col nuovo secolo, è un residuo. Luca Guadagnino, che da ragazzino frequentava la mia videoteca e a cui facevo micro-lezioni di storia del cinema (il primo film che gli feci vedere fu Boudu salvato dalle acque di Renoir), in un’intervista dice: a differenza del mio amico Maresco, credo che il cinema sia vivo. Siccome Guadagnino è intelligente, io non posso credere che sia in buona fede. Il padre dei fratelli Lumiere diceva che il cinema era “un’invenzione senza futuro”. In fondo aveva ragione: ha solo sbagliato di qualche decennio”.
Abbiamo citato integralmente queste dichiarazioni perché le consideriamo le più lucide, sincere e condivisibili che abbiamo sentito in questi anni dai vari cinematografari. In questi giorni, nel nostro piccolo, ci siamo prodigati nel dare conto della disperazione in cui versa questo contesto: finanziamenti a pioggia ma senza alcuna logica né controllo; artisti che s’intruppano a firmare manifesti per convenienza, nella speranza di entrare nel giro giusto o di consolidarne la presenza; un pubblico che sembra non sapere nemmeno cosa va a vedere né perché, disertando una sala con presente Kim Novak per affollarne una dove magari si presenta la prima puntata di una serie tv uzbeka.
Se ci abbiamo tenuto a denunciare questi fatti non è per il gusto di formulare critiche ma perché, in un coro di generale osanna, ci sembrava giusto denunciare che il re è nudo. Aggiungiamo un ultimo tassello. Arrivati ormai alla fine della Mostra, quando si attende solo la consegna dei premi, si rincorrono le voci che a vincere il Leone d’Oro sarà The voice of Hind Rajab, film franco-tunisino diretto da Kawthar Ibn Haniyya, che racconta l’uccisione di una bambina palestinese di sei anni ad opera dell’esercito israeliano, facendo sentire anche la reale telefonata in cui la piccola esprimeva un disperato grido d’aiuto. Non abbiamo visto il film, quindi ci asteniamo da qualsiasi giudizio, e tantomeno possiamo sapere se effettivamente il pronostico si tramuterà in risultato effettivo.
Però ci siamo resi conto che quasi nessuno ne ha elogiato aspetti cinematografici, ma soltanto la drammaticità con cui descrive quella vicenda che in questo momento sta commuovendo tutti noi. Il fatto che dovrebbe quindi vincere “per principio” non ci garba proprio. Sarebbe la replica di quanto accaduto all’ultimo Festival di Cannes, dove ha trionfato Un Simple Accident del regista iraniano dissidente Jafar Panahi, per molti anni in carcere e poi soggetto a divieto d’espatrio. Con quel premio si volle mandare un segnale a favore della libertà, compresa quella artistica, e contro ogni oppressione.
Questa battaglia la sentiamo da vicino, e peraltro Panahi è un grande regista. Ma è proprio in nome della libertà artistica che pensiamo che film come i due citati, più che di vincere un Concorso cinematografico per obbligo morale, dovrebbero poter essere liberi di perderlo. Farli prevalere rispetto a opere magari meno toccanti dal punto di vista emotivo, o semplicemente non schierate verso la parte “giusta”, ma fatte meglio significa mortificare l’aspetto artistico del cinema, il lavoro di registi, produttori, attori e troupe in nome di principi che peraltro spesso cambiano con eccessiva rapidità.
A questa stregua, Celine perderebbe un concorso letterario in favore di Roberto Saviano, e Caravaggio arriverebbe dietro a Banksy in uno di pittura. Piegare forzatamente il cinema, come ogni altra forma d’arte, a un veicolo per portare un messaggio, significa a nostro parere dargli il definitivo colpo di grazia. Tornando dunque a Franco Maresco, lo capiamo benissimo quando dice che nella “macchina-cinema” conta tutto tranne il cinema. Pensandola così, era impensabile che si presentasse a Venezia per accompagnare il suo nuovo lavoro Un film fatto per Bene (Bravo Bene!).
Al di là della mancanza dei documenti d’identità, egli non verrebbe mai a Venezia a sfilare sul Tappeto Rosso, voltandosi verso i fotografi per essere immortalato nel suo profilo migliore (ammesso ne abbia uno). In sua assenza, il film è stato l’unico tra quelli in Concorso a non avere la conferenza stampa di presentazione, né la sfilata della delegazione al momento della proiezione ufficiale in Sala Grande.
Qualcuno potrebbe domandarsi perché Maresco continui a fare film se ritiene che il cinema sia morto. Lo fa per disperazione, per esprimere il suo stato d’animo di uomo ossessionato e sfiduciato, con l’unico mezzo che è capace di usare. Lo schema è lo stesso adottato in Belluscone: Maresco s’imbarca nel progetto di un film – in questo caso l’incontro tra Carmelo Bene e un maestro elementare che gli racconta la vita di un santo seicentesco affascinandolo al punto da fargli pensare a un film – che poi non porta a termine. Quindi insorgono problemi con la produzione e lui sparisce (da sempre ammira chi vuole sparire e non si perde una puntata di Chi l’ha visto?).
Allora qualcuno si mette a cercarlo (in Belluscone era Tatti Sanguineti, qui è il suo collaboratore alla sceneggiatura Umberto Cantone). Maresco è infatti incompatibile con le normali logiche produttive, tanto è vero che nel termine previsto per completare le riprese (cinque settimane) aveva girato un terzo del film. Il produttore Andrea Occhipinti di Lucky Red, di conseguenza, ha deciso di porre fine al progetto, suscitando il fastidio di Maresco, che sostiene di avere a disposizione per un intero film quello che a Ficarra e Picone viene dato per il solo trailer.
Per non disperdere il lavoro già fatto, la produzione ha deciso di realizzare un’opera meta-cinematografica, sostituendo al film su Carmelo Bene un altro su Maresco che vorrebbe raccontare Carmelo Bene (il quale peraltro, a chiusura del cerchio, amava molto Cinico TV). A quanto già girato, Maresco ha quindi aggiunto scene di repertorio dei suoi lavori passati e coinvolto i suoi storici amici e collaboratori (non però Daniele Ciprì col quale avvenne una rottura definitiva anni fa) affinché parlassero di lui stesso, che intanto punteggia l’opera dentro e fuori campo con considerazioni ora amare ora spassose.
Questa la nostra prediletta, pronunciata mentre sullo schermo si vede una carrellata sulle lapidi di un cimitero: “La tecnologia è il riscatto dei senza-talento, la vedetta dei mediocri contro i veri artisti. Ecco perché chi non sa fare niente può sperare nel cinema: un film, di questi tempi, non si nega a nessuno“.
Scherzando, ma non troppo, potremmo dire che Maresco ha effettivamente ritratto alla perfezione Carmelo Bene. Doveva raccontare un uomo geniale, folle, dispotico e dissacrante, e lo ha fatto. Soltanto che si tratta di lui stesso, non di Bene. Ma in fondo non c’è tutta questa differenza. Come si vede in una scena del film, ai giornalisti ha infatti dichiarato: “Sono il Carmelo Bene del XXI Secolo”.
Di seguito trovate il trailer di Un film fatto per Bene, nei cinema dal 5 settembre:
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