Il regista messicano firma un’opera gotica e tragica con Oscar Isaac e Jacob Elordi, tra hybris, dolore e compassione
Il Frankenstein di Guillermo del Toro riapre il laboratorio del mito senza smantellarlo: lo rianima. L’impianto narrativo resta quello che conosciamo, con il prologo tra i ghiacci e il racconto a specchio delle due voci, Victor e la Creatura / Mostro; la novità è nel modo in cui il regista riporta a galla la materia, trasformando l’orrore in tragedia operistica e la morale in una domanda intima e feroce: che cosa rende umano un essere, l’aspetto o le azioni?
In questo, il film è insieme summa e confessione della poetica di del Toro, ossessionata dagli esclusi, dalla tenerezza possibile nel mostruoso e dalla colpa di chi “gioca a fare Dio”.
Il confronto con la tradizione evidenzia una scelta di campo netta. Rispetto alle letture più “meccaniche” o grottesche del passato, qui la Creatura è un’anima prima ancora che un corpo: Jacob Elordi la interpreta come un bambino imprigionato in un gigante, sguardo di meraviglia e scatti d’ira, sete di linguaggio e condanna all’immortalità. È un’invenzione di pietra e nervi che impara “amico” prima di capire “sé”, e quando scopre di essere fatta di scarti, comprende la propria sventura con la lucidità di un adulto.
Dall’altra parte, Victor Frankenstein è il doppio speculare: Oscar Isaac lo tratteggia come un virtuoso della hybris, sedotto dall’idea di deporre la morte e piegare la materia, fino a confondere scienza, lutto e vanità. Se il rapporto padre-figlio è il cuore pulsante del romanzo, qui assume una concretezza emotiva che brucia: il creatore genera il proprio carnefice e si condanna a riconoscerne la somiglianza.
La messinscena tiene insieme grandiosità e tattilità. Del Toro privilegia spazi fisici costruiti con cura maniacale: il castello-laboratorio, i convettori verticali, i conduttori di fulmini, la sala d’esperimenti che pare un palcoscenico con il motto latino inciso in facciata. La fotografia satura rossi e verdi, scolpisce i volti con ombre che ricordano certo espressionismo europeo; i costumi definiscono psicologie prima ancora che epoche; la musica avvolge e sprona, porta la tragedia a un volume emotivo che non chiede permesso. Il risultato è un “gotico” sensoriale in cui ogni oggetto ha peso, ogni tessuto racconta, ogni cicatrice è una frase del discorso.
Il film dialoga con l’intera opera di del Toro: l’infanzia ferita e i fantasmi della Storia de La spina del diavolo e Il labirinto del fauno riaffiorano nella Creatura come memoria del dolore; l’amore per il “mostro” de La forma dell’acqua torna qui spogliato di romanticismo, come pietà tragica; l’architettura gotica e il desiderio di possesso di Crimson Peak diventano laboratorio della hybris di Victor; la cornice noir de La fiera delle illusioni ricompare nella critica alla manipolazione e allo spettacolo della scienza; la manualità artigianale di Pinocchio – corpo assemblato, paternità imperfetta, vita nata dall’artificio – è la prefigurazione più diretta; persino gli esordi di Cronos e Mimic, tra carne e metamorfosi, anticipano l’ossessione per la materia viva e la responsabilità di chi la modella.
Frankenstein appare dunque come sintesi e rifrazione: non un’opera isolata, ma il punto in cui i temi sparsi della sua carriera convergono in un’unica partitura.
Il dibattito sulla “fedeltà” a Mary Shelley è sterile se non si osserva dove l’autore spinge il baricentro. Del Toro preferisce la reverenza all’azzardo iconoclasta: non smonta il meccanismo, lo affina. A qualcuno parrà una scelta prudente; a molti sembrerà l’unico modo per rinnovare senza snaturare. La regia non reinventa la forma del racconto, ma ne riaccende il senso: mette in scena un mondo in cui la tecnica promette salvezza e consegna devastazione, in cui la guerra fornisce materia prima al sogno di onnipotenza, in cui l’amore per la vita genera una vita impossibile da amare. È una critica della superbia travestita da elegia romantica.
Gli attori reggono questo equilibrio. Isaac incarna un Victor seducente e ripugnante, capace di passare dall’eloquenza accademica alla furia infantile; Elordi dona alla Creatura un corpo pensante, insieme goffo e sensuale, che trasforma ogni gesto in apprendimento; la Goth porta in dote intelligenza e fragilità, spostando Elizabeth fuori dal ruolo di puro oggetto del desiderio e facendone un termometro morale dell’epoca. Attorno, figure come l’affarista che finanzia il laboratorio (Christoph Waltz) o il padre medico (Charles Dance) irrigidiscono l’asse tematico: il capitale e la scienza, alleati, costruiscono il teatro del disastro.
Resta la domanda cruciale: è un film “di spettacolo” o un film “di idee”? È entrambe le cose, e la loro frizione è voluta. Quando punta al sublime sensoriale, Frankenstein preferisce il gesto largo alla psicologia minuta; quando torna alla carne viva dei personaggi, si fa sorprendentemente sobrio. Ne nasce un andamento sinusoidale che qualcuno leggerà come disomogeneità, altri come respiro. Nel finale, la pietà non assolve, e la sentenza è dura: chi crea senza assumere la responsabilità della propria creazione non è un genio incompreso, è il vero colpevole. La Creatura, invece, è il nostro specchio: desidera una comunità che non sa contenerlo e una fine che non può raggiungere. È la forma più pura della tragedia moderna.
In termini di efficacia, Frankenstein convince quando si fida del silenzio e dei corpi, meno quando spiega quello che le immagini già dicono; emoziona perché trasforma un racconto arcinoto in un’esperienza sensoriale e morale dove la bellezza non addolcisce l’orrore, lo rende pensabile. È un grande film popolare nel senso migliore: accessibile senza semplificare, sontuoso senza compiacimento, radicale nella compassione. Non demolisce il mito, lo riconsegna al presente con una domanda che ci riguarda tutti: se la vita ci condanna a ferire chi amiamo, quale responsabilità abbiamo nel tentare di non farlo?
Di seguito trovate il teaser trailer doppiato in italiano di Frankenstein: