Home » Cinema » Azione & Avventura » Il diario da Venezia 79 (2022), episodio 3: esercizi di Styles

Il diario da Venezia 79 (2022), episodio 3: esercizi di Styles

07/09/2022 news di Giovanni Mottola

Tocchi di cronaca e un profluvio di mini recensioni: parliamo di Monica di Pallaoro, L'immensità di Crialese, When the waves are gone di Lav Diaz e di Argentina, 1985 di Santiago Mitre

harry styles venezia 2022

Aver citato l’altro giorno La Tempesta di Giorgione dev’essere stato profetico. Ventiquattro ore dopo, infatti, alle Gallerie dell’Accademia si sono presentate due attiviste impegnate nella lotta contro il cambiamento climatico e, come gesto di protesta, hanno posato la mano sul capolavoro, protetto sì da un vetro speciale, che però a quanto pare non lo preserva del tutto dal rischio di danni.

Il Direttore del Museo ha manifestato l’intenzione di denunciare le due, pur dichiarando di comprendere la bontà della loro causa. Secondo chi scrive, quest’ultima considerazione avrebbe potuto risparmiarsela. Non c’è bisogno di cercare sempre una giustificazione per tutto: il gesto è non solo criminale, ma altresì indice di immensa ignoranza.

Tipica di una “società social”, dove prevale la moda del momento sullo studio e la propaganda fintamente nobile sulla cultura. Non è un caso che – notizia di questi stessi giorni – a Venezia non esista più alcuna libreria che abbia disponibilità di testi scolastici. Possono essere comprati esclusivamente su internet oppure, udite udite!, al supermercato, ottenendo per giunta uno sconto del 15% su altri prodotti, utilizzabile nei mesi successivi.

argentina 1985 venezia 2022Logico quindi che qualunque settore legato alla cultura risenta di tale impostazione. Nel cinema questa deriva si manifesta con il divismo e con l’impegno, due fenomeni di certo sempre esistiti ma mai come oggi slegati dalla qualità e dal merito. La folla si è ritrovata ad acclamare sul Tappeto Rosso personaggi che non sono neppure veri attori, però furoreggiano su Instagram e non mancano mai di dimostrare la loro vicinanza a temi come i diritti LGBTQ.

Oltre a Thymotee Chalamet, di cui abbiamo detto negli scorsi giorni, le due star che più hanno riscosso il maggior successo sono stati due cantanti in veste recitante: Harry Styles (“Don’t Worry Darling” di Olivia Wilde) e la nostra Elodie (“Ti mangio il cuore” di Pippo Mezzapesa).

Solo pochi metri più avanti, rispettosamente in fila alla gelateria “popolare”, c’era il Premio Oscar nonché Leone d’Oro alla Carriera Tilda Swinton, che s’intratteneva amichevolmente con la vicina di coda chiedendole consiglio sul gusto da prendere (per la cronaca: ha scelto il fior di riso). Si è rispolverata spesso in questi mesi la parola “atlantismo“.

Dispiace scoprire in questa Mostra del Cinema che la manifestazione “atlantica” dello spettacolo sia questa prevalenza della forma e della moda sulla sostanza. Per lo meno il Paese faro, l’America, si salva grazie alla presenza dei grossi nomi che fanno stracciare le vesti al pubblico. Ma il cinema italiano, non avendo gli Chalamet e gli Styles, sta letteralmente ammuffendo, non riuscendo più ad uscire dal vincolo della lezioncina sulla causa del momento. In questo periodo tocca alla sessualità e all’identità di genere ed ecco che, su cinque film italiani in Concorso, questo argomento costituisce l’asse portante di ben tre di essi.

Possibile che non esista un altro tema in grado di suscitare divertimento o commozione o indignazione o riflessione o qualunque altro sentimento?

Si è partiti con Monica di Andrea Pallaoro, una delusione totale. Dev’essere per questo che i bookmaker lo hanno eletto favorito per il Leone d’Oro. E’ la storia di un uomo, diventato donna, che torna in famiglia in occasione della malattia della madre, la quale lo aveva a suo tempo rinnegato e ora non la riconosce, se non alla fine dell’opera.

Lo spettatore non ha modo di capire il fatto su cui il film si fonda se non in quanto lo abbia già letto nella trama pubblicata sul sito della Biennale o nelle interviste al regista: non vi è mai infatti un’allusione esplicita all’argomento. Questa, di per sé, potrebbe anche essere una felice scelta di antiretorica. Peccato che di retorica si sia abbondato per decidere di selezionarlo per il Festival, non essendovi alcun motivo valido all’infuori del tema dell’identità di genere e della natura di transessuale della protagonista Trace Lysette.

KAPAG WALA NANG MGA ALON (QUANDO NON CI SONO PIÙ ONDE) venezia 2022Sullo schermo si vedono infatti inquadrature senza senso, consistenti in prolungate riprese della protagonista nell’atto di guidare la macchina oppure di telefonare a non si sa chi per parlare di fatti di nessun interesse, o intenta a guardare l’orizzonte con sguardo immerso in chissà quali pensieri. Il film dura, ed è un’aggravante, quasi due ore. Ma soltanto per i non molti che arrivano a guardarlo tutto, dal momento che alla proiezione a cui ho assistito addirittura un centinaio di giornalisti è scappato via anzitempo. A leggere le recensioni dell’indomani, per fare a gara a scriverne l’elogio per primi.

Poi è stata la volta de L’Immensità di Emanuele Crialese: per quanto sia un’opera più strutturata sul racconto di un’infanzia, quella del regista stesso, viene venduta principalmente come il sogno di una ragazzina di diventare maschio, episodio effettivamente autobiografico. Da ultimo è arrivato Gianni Amelio a raccontare la drammatica vicenda del poeta e intellettuale Aldo Braibanti, condannato vergognosamente per plagio (uno dei pochissimi casi in Italia di applicazione di questo reato, abrogato ormai da molti anni) con il vero scopo di “punirlo” per la sua omosessualità.

Per fortuna ogni tanto qualcuno esce dagli schemi. Luca Barbareschi, al quale si può dire di tutto ma bisogna riconoscere cultura e anticonformistica intelligenza, è giunto al Lido per presentare i suoi prossimi due impegni internazionali. Il primo è la produzione del nuovo film di Roman Polanski, dove rivestirà anche un piccolo ruolo, ripetendo così perfettamente lo schema adottato ne L’Ufficiale e la spia e già risultato vincente proprio qui alla Mostra del 2019 (Gran Premio della Giuria).

Il secondo, forse ancor più interessante, è un film del quale Barbareschi curerà invece la regia. Scritto da David Mamet e anch’esso interpretato da un cast internazionale, è una denuncia di come il politicamente corretto e la cultura woke stiano distruggendo il nostro patrimonio culturale. Vedremo se una futura Mostra troverà il coraggio non solo di annunciare la realizzazione di questi film, ma anche di proiettarli.

Comunque, non appena ci si dirotta su cinematografie diverse si recupera invece il gusto per la Settima arte di grande livello.

I due film migliori di questo Festival provengono uno dall’Argentina e uno dalle Filippine. Il primo, Argentina, 1985 di Santiago Mitre racconta la storia del procuratore che, insieme alla sua squadra di giovani assistenti, riuscì nell’impresa di incriminare e far condannare i reati commessi dal regime di Jorge Videla, facendo finire all’ergastolo l’ex Presidente e i suoi principali collaboratori militari.

La forza di quest’opera è nell’interpretazione asciutta di Ricardo Darìn, ormai una conferma, ma soprattutto nella capacità di stemperare la tensione della delicata impresa con alcune scene di grande comicità, soprattutto nella descrizione dei quadretti familiari del procuratore, che hanno strappato le uniche risate udite sino ad oggi in una sala del Lido.

l'immensità venezia 2022Il secondo è l’ultimo capolavoro del maestro Lav Diaz, Kapag Wala Nang Mga Alon / When the waves are gone, solito acerrimo nemico della sintesi, ma questa volta capace di limitarsi, si fa per dire, alle tre ore. In uno splendido bianco e nero, molto suggestivo, racconta una lenta reciproca caccia all’uomo tra un ex comandante della Polizia del regime filippino e il suo più brillante allievo della Scuola Ufficiali. Quest’ultimo, dopo aver raccolto prove dei tanti crimini compiuti da suo maestro nei confronti di chi veniva considerato colpevole dal regime, lo denuncia e lo fa finire in cella.

Poi brucia la sua casa come atto simbolico, ma senza rendersi conto che all’interno vi erano i suoi familiari Scontata una parte di pena, l’ex comandante viene graziato per la residua e gli viene concessa un’ultima missione: vendicarsi. I due uomini sono però in disfacimento. Il vecchio ha perso lucidità e si dedica a sacrifici religiosi; il giovane è scarnificato da una psoriasi dovuta ai sensi di colpa per i misfatti compiuti anche da lui.

Entrambi vedono l’altro come la loro Stella Polare, ultimo significato di un’esistenza ormai distrutta. Il modello per questo film non è da cercarsi nel passato del cinema ma in quello della letteratura, da Omero ai tragici greci. Forse è per questo che può apparirci molto più moderno di quelli ambientati nel nostro presente.

Infiammato da queste cinematografie così diverse dal solito e così alte, avevo meditato di recarmi alla proiezione del film italo-messicano (più messicano che italo) Zapatos Rojos (Red Shoes). Poi ho letto la trama: il contadino Artemio vive in un luogo sperduto. Quando riceve una notizia sconvolgente decide di partire per la città, ma si trova ad affrontare un mondo brutale a lui completamente sconosciuto. A questo punto ho rinunciato alla proiezione, perché tanto Il ragazzo di campagna l’ho già visto un sacco di volte.

Il Diario num. Zero, per chi se lo fosse perso (molto male!)

Il Diario num. Uno, per chi se lo fosse perso (molto male, bis!)

Il Diario num. Due, per chi se lo fosse perso (molto male, tris!)

Di seguito il trailer di L’immensità: