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Voto: 7/10 Titolo originale: Maniac , uscita: 10-05-1980. Budget: $350,000. Regista: William Lustig.

Dossier: Maniac di William Lustig, violenza urbana e mascolinità in crisi nella NY anni 80

30/12/2025 recensione film di Marco Tedesco

Un film horror e irrisolto che usa la violenza per raccontare il vuoto emotivo e la paura americana senza offrire consolazioni

Joe Spinell in Maniac (1980)

Ci sono film che colpiscono immediatamente e altri che chiedono tempo, distanza, persino resistenza. Maniac di William Lustig, uscito nel 1980, appartiene chiaramente alla seconda categoria. Alla prima visione può sembrare solo un concentrato di brutalità e disagio, un’opera che punta tutto sull’eccesso. È solo con il passare degli anni, e con nuove visioni, che il film rivela la propria natura più profonda: non un semplice racconto di un serial killer, ma una radiografia feroce di una città e di una mascolinità in crisi, fuse in un’unica, soffocante esperienza.

Il film si apre con una dichiarazione d’intenti precisa. Una coppia dorme su una spiaggia, la macchina da presa avanza rasoterra, assumendo il punto di vista del predatore. L’eco di Lo squalo è evidente, ma qui il mostro non emerge dall’acqua: è già tra noi. Subito dopo conosciamo Frank Zito, un uomo che vive in un seminterrato degradato di New York. Frank adesca donne, le uccide e ne asporta lo scalpo, che inchioda su teste di manichino nel suo appartamento. È un rituale ossessivo, ripetuto, che sostituisce qualsiasi forma di relazione reale. Quando incontra Anna, una fotografa che sembra accettarlo nonostante la sua goffaggine e il suo aspetto inquietante, il film introduce una possibilità di deviazione: l’idea che Frank possa interrompere il ciclo di violenza. Ma questa apertura non fa che rendere la sua caduta ancora più inevitabile.

Il cuore di Maniac sta nella scelta radicale di seguire il punto di vista del carnefice. Lustig non offre allo spettatore la protezione della distanza morale o dell’indagine razionale. Siamo incollati a Frank, costretti a condividere i suoi percorsi notturni, le sue attese, i suoi scatti improvvisi. Questa prossimità genera un disagio che va oltre la violenza esplicita: non siamo chiamati a comprendere o giustificare, ma a osservare senza appigli. Il film non cerca spiegazioni cliniche rassicuranti. Il riferimento a un’infanzia segnata da una madre abusante resta volutamente incompleto, più un’ombra che una chiave interpretativa. Frank non è il prodotto di un trauma “risolto” narrativamente, ma una ferita aperta che continua a infettare ciò che tocca.

Joe Spinell è determinante nel rendere credibile questa operazione. Il suo corpo, il volto segnato, la postura incerta costruiscono un assassino privo di fascino, lontano da qualsiasi mitizzazione. Frank non domina lo spazio: lo subisce. È proprio questa sua mediocrità a rendere il film più inquietante. Non si ha la sensazione di trovarsi davanti a un’eccezione, ma a una possibilità latente, a qualcuno che potrebbe incrociarti per strada e sparire subito dopo nella folla. Maniac lavora su questa ambiguità costante: la normalità apparente che convive con l’orrore più estremo.

maniac 1980 lustigNew York non è mai un semplice sfondo. È un organismo che permette, assorbe e nasconde la violenza. Metropolitane labirintiche, strade deserte, alberghi anonimi e appartamenti fatiscenti costruiscono un ambiente in cui l’omicidio diventa plausibile perché invisibile. Lustig filma la città come un luogo di passaggio continuo, dove nessuno resta abbastanza a lungo da accorgersi di ciò che accade. In questo senso, Maniac trasforma la paura urbana in qualcosa di concreto: non il timore di un’invasione esterna, ma quello di perdersi in mezzo agli altri. La vastità della città diventa una garanzia di impunità.

Il rapporto di Frank con le donne è il punto più problematico e al tempo stesso più rivelatore del film. Le sue vittime sono scelte non solo per attrazione, ma per ciò che rappresentano: autonomia, desiderabilità, movimento. Scuoiarle e fissarle su un manichino significa bloccarle, renderle immobili, silenziose, incapaci di rifiutare. Il manichino è la forma estrema di una relazione senza rischio emotivo. In questo gesto si condensa una paura profonda: quella di confrontarsi con l’altro come soggetto. Maniac non elabora questo tema in modo teorico, ma lo mette in scena attraverso immagini ripetute che accumulano senso. La violenza di Frank non è solo distruttiva, è anche una parodia dell’intimità.

L’incontro con Anna evidenzia questa frattura. Frank sembra desiderare un contatto autentico, ma non possiede il linguaggio emotivo per sostenerlo. Ogni tentativo di avvicinamento è contaminato dalla sua ossessione. Quando i due mondi entrano in collisione, il film abbandona progressivamente il realismo per scivolare nell’allucinazione. I manichini che prendono vita nel finale non sono un semplice colpo di scena, ma la materializzazione del suo senso di colpa e della sua incapacità di distinguere tra fantasia e realtà. La morte di Frank non ha il tono di una punizione morale: è la conclusione logica di un sistema chiuso, che non prevede vie d’uscita.

Inserito nel contesto del cinema di William Lustig, Maniac appare come il primo tassello di una riflessione più ampia sulla violenza urbana e sul potere. Se qui l’orrore nasce ai margini, nei seminterrati e nei vicoli, nei successivi Maniac Cop la minaccia si sposta al centro, assumendo le sembianze dell’autorità. Il passaggio è significativo: dalla violenza invisibile dell’emarginato a quella legittimata dal ruolo. In entrambi i casi, però, il problema resta lo stesso: una mascolinità che percepisce se stessa come espropriata e reagisce con la sopraffazione.

Rivedere oggi Maniac significa confrontarsi con un film che non cerca di essere attuale, ma che continua a parlare perché non addolcisce nulla. Non offre conforto, non redime, non semplifica. È un’opera scomoda, che chiede allo spettatore di restare dentro il disagio e di riconoscere quanto sottile possa essere il confine tra anonimato e violenza. Non è un film da amare, ma da attraversare. Ed è proprio per questo che, a distanza di decenni, Maniac resta una delle rappresentazioni più crude e persistenti della paura metropolitana e del vuoto che può annidarsi dietro un volto qualunque.

Di seguito il trailer di Maniac: