Voto: 5/10 Titolo originale: Qui rido io , uscita: 09-09-2021. Regista: Mario Martone.
Qui rido io: la recensione del film su Scarpetta di Mario Martone
21/09/2021 recensione film Qui rido io di Giovanni Mottola
Il regista si affida all'amico Toni Servillo per portare sul grande schermo la vita pubblica e privata del grande commediografo, ma la scelta si dimostra un boomerang
Napoletano, cultore delle tradizioni, appassionato di storia. Sulla carta nessuno avrebbe potuto essere più tagliato di Mario Martone per dirigere un film sulla vita del commediografo e attore Eduardo Scarpetta. Per di più dopo aver allestito una nuova versione teatrale, e poi anche cinematografica, de Il sindaco del Rione Sanità di Eduardo de Filippo (la recensione), che di Scarpetta fu, come i fratelli Titina e Peppino, figlio naturale e naturale erede in palcoscenico. Cioè a dire: stesso mondo, stessa arte, stesso spirito.
Ma proprio come nel Sindaco, anche in Qui rido io – presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia – il regista, dopo un minuzioso lavoro filologico e d’archivio, finisce col commettere un errore sulla scelta più importante: quella dell’attore protagonista. Nel caso del film del 2019 sbagliò ‘apposta’, volendo proporre il personaggio del vecchio Antonio Barracano con le giovanili fattezze di Francesco Di Leva. Il quale, pur bravo, non poté quindi infondere il ruolo di quel senso di stanchezza e di resa che solo l’età avanzata gli avrebbero conferito.
Questa volta, invece, pensiamo che Mario Martone abbia sbagliato senza volerlo. Con Toni Servillo si conoscono dagli anni Ottanta, quando condividevano sperimentazioni teatrali e inizi cinematografici (Morte di un matematico napoletano fu il primo film per entrambi). Per molti anni le loro strade sono state separate (salvo un breve incrocio nel 2010 con Noi credevamo) e ora sono ritornati a lavorare insieme. Nel frattempo Servillo era diventato Servillo: cioè il grande interprete, fino alla perfezione, dei film di Paolo Sorrentino. Opere così particolari, dall’impronta così ben identificabile, da rendere il loro abituale interprete quasi una maschera sempre uguale a sé stessa.
Il fatto che quei film abbiano ottenuto un successo internazionale ha però reso vittime di un equivoco, a nostro giudizio, la gran parte del pubblico e della critica: aver cioè erroneamente creduto che Toni Servillo sia in grado di fare qualsiasi parte e qualunque lavoro. Sembra dunque oramai quasi impossibile che un regista italiano di un certo peso decida di dirigere un film facendo a meno della sua presenza quando si prevede un ruolo per un attore di mezza età. Anche Mario Martone ci è cascato, condizionato forse dall’antica amicizia o forse dalla consapevolezza che averlo in un film comporta per esso, da parte della stampa di casa nostra, garanzia di apprezzamento anche a scatola chiusa. Nel nostro piccolo ci vediamo costretti ad essere, in questo coro di osanna, la stecca.
Almeno secondo noi, Toni Servillo è ormai così prigioniero delle maschere di Tony Pisapia o di Titta di Girolamo, o della loro sublimazione definitiva che è Jep Gambardella, da non essere più in grado di uscirne per indossarne delle altre. Non è un caso se, fatta eccezione per la prova offerta ne La ragazza del lago, le interpretazioni dell’attore senza Paolo Sorrentino al timone si sono rivelate quasi sempre deboli, con ripercussioni negative inevitabili sui relativi film.
In Qui rido io, il Nostro veste i panni di Eduardo Scarpetta, ma è evidente che non siano della sua misura, e che non esistessero in sartoria ago e filo adatti a cucirglieli addosso. Il regista voleva infatti offrire un ritratto scrupoloso del personaggio e, per far ciò, si è come sempre sottoposto ad un accurato lavoro di ricerca sulle fonti e ha provveduto a presentare un efficace corredo musicale e scenografico. E’ stato però inevitabilmente costretto a domandare al suo protagonista di alternare diversi registri, per poter rendere appieno una figura tanto sfaccettata come quella di Scarpetta: da quello comico dell’attore delle farse teatrali a quello rigoroso dell’amministratore di una compagnia, per finire con quello dolente e a tratti spietato del capofamiglia di una tribù allargata e problematica, composta di moglie, amante e nove figli tra quelli legittimi e no.
Toni Servillo è risultato davvero efficace soltanto nelle scene più tristi e in quelle in cui poteva scatenarsi nell’istrionismo. Ben riuscito è ad esempio il finale di Qui rido io, in cui Eduardo Scarpetta gigioneggia con tanto di “carrettella” per arringare il Tribunale, dove era stato trascinato per plagio da Gabriele D’Annunzio per la farsa Il figlio di Iorio.
Per quanto la vicenda risulti interessante e trattata con dovizia di particolari, non è però questo il cuore del film. Esso risiede nella ricerca sull’anima di un uomo che al teatro aveva sacrificato tutto, lasciandosi scivolare addosso qualunque problema anche importante che non riguardasse un’intonazione o una battuta.
Ecco perché l’interpretazione di Toni Servillo non funziona: non padroneggiando l’arte del comico, egli non riesce ad incarnare chi di quell’arte aveva fatto la propria unica ragione di vita. Il suo Eduardo Scarpetta risulta perciò troppo spesso una caricatura grossolana, quando sarebbero state necessarie ben altre sfumature quanto a toni (con la minuscola), sguardi, gesti, pause. Pur napoletano, del napoletano sembra invece non avere affatto lo spirito, cercando perciò di riprodurlo secondo lo stereotipo dell’urlatore, quindi della macchietta.
E’ sufficiente guardare la prima scena di Qui rido io per accorgersene, anche grazie al confronto col misurato Gianfelice Imparato (Il grande salto). Nei dieci minuti iniziali si mostra infatti un teatro dove si sta recitando il brano di Miseria e Nobiltà in cui le due famiglie riunite attendono il ritorno di Felice Sciosciammocca, nella speranza che abbia guadagnato qualcosa con il suo lavoro da scrivano e si possa finalmente mangiare. In casa c’è il compare Pasquale, un Imparato perfetto nella parte. Servillo fa il suo ingresso con camminata alla Charlot. Forse si è voluta riprodurre la tipica entrata in scena di un mattatore, consapevole dell’arrivo di un applauso a prima vista e desideroso, ammiccando al pubblico, di scaldarlo ancor più.
Ma l’asino casca subito, perché anche dopo Toni Servillo continua sul tenore della buffoneria, di certo inadatto a un poverocristo che non mangia da due giorni. Sciosciammocca ha il dovere di suscitare la risata, ma non può farlo con quei mezzucci.
Il confronto impari non è soltanto col meno conosciuto ma bravissimo Gianfelice Imparato: per quanto possa suonare come una provocazione, anche i bambini che interpretano i tre figli illegittimi (Titina, Eduardo e Peppino De Filippo) sono più in parte di Toni Servillo, grazie alla loro scugnizza spontaneità.
In particolare, i due maschi riproducono Eduardo e Peppino, pur da piccoli, proprio con le caratteristiche che abbiamo conosciuto in loro da grandi: severo e paterno il primo, pestifero e spiritoso il secondo.
Pensando ai due veri De Filippo, viene naturale provare a immaginare quanto sarebbero risultati adatti nell’interpretare il loro genitore in Qui rido io. Lo avrebbero reso in maniere molto diverse ma entrambe perfette, calcando l’accento sulle caratteristiche a ciascuno più affini e lavorando su quelle più lontane da loro con la sapienza di chi in palcoscenico è nato. Eduardo era maestro anche nel far ridere come Peppino lo era anche nel far piangere. Con buona pace di tutti i laudatores di Toni Servillo, siamo proprio su un altro pianeta.
Di seguito trovate il trailer di Qui rido io, nei cinema dal 9 settembre:
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