Voto: 6/10 Titolo originale: The Amusement Park , uscita: 23-03-1975. Regista: George A. Romero.
The Amusement Park: la recensione del ‘film progresso’ di George A. Romero
12/10/2021 recensione film The Amusement Park di Sabrina Crivelli
A lungo ritenuto perduto, getta una luce inedita sulla prima parte della carriera del regista, un caustico documentario che guarda a Ai Confini della Realtà per parlare della tragica situazione che vivono gli anziani negli USA
Ormai un paio di anni addietro, nel 2019, Suzanne Deschent-Romero (moglie del regista e fondatrice della George A. Romero Foundation) parlò di un film pressoché inedito, girato da George A. Romero nel 1973. Si trattava di The Amusement Park, pellicola della durata di appena 60 minuti che, dopo il recente restauro, è stata presentata al Festival di Sitges, dove abbiamo potuto vederla proiettata sul grande schermo.
Facciamo però un passo indietro. L’opera, invero assai lontana dai canonici zombie movie cui il regista ci ha abituati, non è nemmeno un horror o un film di finzione, ma una sorta di ‘pubblicità progresso’ in cui Romero riflette sulla discriminazione basata sull’età anagrafica. Siamo infatti davanti ad un lavoro su commissione, realizzato per la Società Luterana e incentrato sui delicati temi dell’abuso senile, dell’abbandono degli anziani e delle problematiche legate all’invecchiamento.
Nonostante la sua natura documentaria e lo scopo educativo, però, lo stile unico di George Romero emerge anche in questo caso, conferendo alla narrazione un’aura surreale, violenta e disturbante; probabilmente, proprio per queste sua peculiarità nell’affrontare l’argomento venne accantonato dal committente, che si aspettava un prodotto ben diverso e più ‘convenzionale’. Perciò, pur essendo stato girato per la televisione, The Amusement Park non fu mai effettivamente distribuito o messo in onda, finendo presto nel dimenticatoio.
Vero è che già poco dopo l’ultimazione, nel giugno 1975, fu presentato all’American Film Festival di New York e che nel 2001 riemerse dagli archivi per essere proiettato al Torino Film Festival. Tuttavia è solo nel 2017, poco prima della scomparsa, che George Romero e la sua consorte tornano in possesso di una copia della pellicola, grazie all’allora curatrice del TIFF Giulia D’Agnolo Vallan. È poi venuto il momento del restauro in 4K di IndieCollect nel 2019, a cui son seguito ottobre del 2019 la presentazione a Pittsburgh e nell’estate di quest’anno la messa in onda su Shudder.
Tornando a concentrarci su The Amusement Park, almeno su carta, doveva essere un documentario ‘socialmente utile’. Tuttavia, ciò non vuol dire affatto che non sia romeriano, al contrario. Il contenuto viene declinato attraverso l’estetica distintiva del regista e ne risulta un mediometraggio estremamente bizzarro, e decisamente affascinante. L’incipit è già di per sé evocativo.
Riprendendo l’iconica struttura degli episodi della serie Ai Confini della Realtà, il protagonista Lincoln Maazel opera alla maniera di Rod Serling per tenere un breve monologo d’apertura (e di chiusura), in cui anticipa il messaggio, la morale, di The Amusement Park. L’uomo, già in età avanzata, sottolinea con solennità l’inadeguata gestione dell’invecchiamento della popolazione e la lacunosa assistenza degli anziani negli Stati Uniti, soprattutto degli indigenti e dei meno fortunati. Chiusa la cornice, inizia allora lo svolgimento vero e proprio, e si spalanca – letteralmente – un’altra dimensione.
Stanza asettica, minimale, un uomo canuto (sempre Maazel), dalle vesti logore una volta bianche e dall’aspetto macilento respira a fatica. È accasciato sulla sedia e ha il volto ricoperto di ferite. Un secondo personaggio entra nella stanza. Ha la medesima età, è vestito nello stesso modo e la somiglianza è notevole. Sono pressoché identici, anche se il nuovo arrivato ha un aspetto decisamente migliore – il suo abito è candido (ma parimenti ‘drenato’ di colori, un probabile riferimento alla mancanza di vitalità e allegrezza della vecchiaia), i capelli e i baffi curati. L’uno, pimpante, chiede all’altro, ansimante, se voglia uscire, vedere cosa li aspetta là fuori, ma il poverino, boccheggiando, replica che non c’è nulla per loro. Viene così ignorato e lasciato solo.
Fuori dalla metafisica stanza bianca, ad attendere il protagonista, Martin, c’è un surreale parco di divertimenti, l’Amusement Park del titolo. Qui, lui e altri anziani, dopo aver scambiato i propri ‘tesori’ per pochi spiccioli e aver comprato i biglietti d’entrata per le varie attrazioni, si addentrano in una selva di giostre e di punti di ristoro, che – tuttavia – celano un lato oscuro.
Il Luna Park si rivela presto ‘un incubo ad occhi aperti‘ (come dichiarato dallo stesso sceneggiatore Wally Cook). In un viaggio oniroide all’insegna del paradossale, i poveri vecchietti vengono quindi sballotatti da una giostra all’altra, subendo una serie di maltrattamenti: gli viene revocata la patente, vengono tamponati sull’autoscontro e incolpati seppur innocenti, vengono vessati e ignorati da ristoratori che si occupano solo dei clienti più ricchi, oppure convogliati in una casa degli orrori che palesemente rappresenta, nemmeno troppo metaforicamente, una residenza per la terza età.
Il protagonista osserva, si indigna, è impotente, benché si prodighi per aiutare i suoi coetanei. In un crescendo di soprusi si arriva persino un pestaggio ad opera di un gruppo di motociclisti. E non c’è alcun sostegno, da parte di giovani e di adulti, delle istituzioni, della sanità pubblica, perfino della Chiesa. Tutti sono sordi alle richieste di aiuto dei loro anziani, fino alla paradossale chiusura del cerchio, del loop, col ritorno di un Martin sporco, ferito e disorientato alla stanza iniziale.
Il racconto, l’orrore reale dei fragili abbandonati a sé stessi, ignorati dagli altri avventori nonostante cerchino aiuto, sfruttati da opportunisti senza scrupoli, rientra in qualche modo in quella tendenza al commento sociale che ha sempre ispirato l’horror romeriano, seppure con altre declinazioni, almeno apparentemente.
Tuttavia, oltre al metodo, affiorano in The Amusement Park anche alcuni stilemi ed elementi dell’iconografia del regista che andranno a contraddistinguerne la produzione successiva. Compaiono ad esempio i bikers, metafora della sopraffazione sui deboli e sugli indifesi in un’America prevaricatrice e iniqua, che rivedremo in Zombi nel 1978 e in La terra dei morti viventi del 2005. Le folle di visitatori festanti che si trascinano disorientate e senza una direzione apparente per le stradine del parco ricordano invece le masse di morti viventi.
In generale, poi, se il tema e il fine di The Amusement Park sono documentaristici, le riprese sono stranianti, metafisiche, ci immergono in un’allegoria della vecchiaia che ha il sapore dell’incubo, o di un distopico Paese delle Meraviglie. È un mondo assurdo e surreale, certo, ma al tempo stesso concretissimo: gli anziani, come Lincoln Maazel sottolinea in apertura, non sono attori professionisti, ma tutti scelti dalla strada, spesso ospiti dimenticati di strutture pubbliche per cui le riprese sono state il primo momento di gioia e divertimento dopo tanto tempo.
Insomma, The Amusement Park non è un horror convenzionale, ma una singolare parentesi nella filmografia di George A. Romero, eppure vale la pena di vederlo proprio per il contenuto, per lo stile e perché, in fondo, ci dà un assaggio inedito della prima parte di carriera del regista – che qui però non ha messo mano alla sceneggiatura – dopo il suo memorabile esordio con La notte dei morti viventi nel 1968.
Di seguito trovate il trailer internazionale di The Amusement Park:
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