Home » Cinema » Azione & Avventura » The Life of Chuck: la recensione del film kinghiano di Mike Flanagan

Voto: 6.5/10 Titolo originale: The Life of Chuck , uscita: 05-06-2025. Regista: Mike Flanagan.

The Life of Chuck: la recensione del film kinghiano di Mike Flanagan

17/09/2025 recensione film di Gioia Majuna

Il regista adatta Stephen King in un racconto esistenziale con Tom Hiddleston tra apocalisse, memoria e danza

Tom Hiddleston e Annalise Basso in The Life of Chuck (2024)

The Life of Chuck è un film che invita a guardare la vita di un uomo comune come fosse un cosmo in miniatura. Mike Flanagan, adattando Stephen King, abbandona le consuetudini dell’orrore esplicito per costruire un racconto esistenziale e musicale, suddiviso in tre movimenti disposti in ordine inverso. Prima arrivano i segnali della fine del mondo, poi il lampo di un incontro danzante che illumina una giornata qualunque, infine l’infanzia e l’adolescenza di Chuck, quando tutto è ancora possibilità.

La struttura non è un vezzo: è la chiave che trasforma The Life of Chuck in una riflessione sul tempo, sull’istante che si dilata o si contrae a seconda di come lo abitiamo. Flanagan monta ricorrenze, piccoli indizi, motivi musicali e poetici; guida lo spettatore tra indizi visivi e ritorni emotivi senza imporre una lettura univoca, lasciando spazio a ciò che conta davvero: il riconoscimento di sé nelle pieghe dell’ordinario.

Nel primo movimento, l’apocalisse non ha fuochi d’artificio ma un logoramento dei gesti quotidiani: la rete che cede, le luci che saltano, la terra che si incrina, i servizi che collassano. In questo scenario, due ex coniugi si parlano, cercano conforto, provano a rimettere in ordine ciò che conta mentre sui cartelloni compare il volto sorridente di un certo Chuck ringraziato per “trentanove splendidi anni”. La trovata è semplice e geniale: più il mondo sembra dissolversi, più si impone la domanda su chi sia davvero quell’uomo, e perché la sua vita risuoni ovunque.

Tom Hiddleston, pur presente soprattutto nel movimento centrale, diventa l’avatar di questo mistero: un contabile garbato e un po’ impacciato che, attraversando una strada, si ferma davanti a una batterista di passaggio e lascia che il corpo prenda il comando. La danza nasce senza preavviso, contagia una giovane spettatrice, crea una bolla di gioia condivisa. È il gesto che riassume la tesi di The Life of Chuck: l’ordinarietà può farsi rivelazione quando smettiamo di censurare l’impulso a vivere.

Il terzo movimento, dedicato all’infanzia, ricompone i frammenti disseminati: il nonno contabile, la nonna che cura il dolore con la musica e i musical, la casa con la cupola proibita come luogo mentale di paure e desideri. Flanagan intreccia matematica e immaginazione, regola e slancio, mettendo in scena l’educazione sentimentale di un bambino che impara a contare e insieme a danzare. Qui il The Life of Chuck trova il suo baricentro: l’idea che cresciamo come somme di dettagli, e che la memoria – a differenza della cronologia – obbedisce a una musica tutta sua. Quando, alla fine, i tre movimenti si richiudono l’uno sull’altro, l’apocalisse iniziale appare come la metafora più semplice: la fine del mondo coincide con la fine del mondo interiore di una persona. Non serve scegliere tra racconto cosmico e racconto intimo: sono la stessa cosa, viste da due distanze diverse.

The Life of Chuck film posterLa regia asseconda questa impostazione con una messa in scena luminosa, a tratti volutamente da cartolina, che può sembrare levigata ma serve lo scopo: tenere al riparo la tenerezza dal cinismo. La fotografia predilige la chiarezza, la musica accompagna senza invadere, il montaggio lavora per eco e variazioni. È qui che The Life of Chuck si offre al confronto con il percorso di Flanagan: chi ama le sue incursioni nel terrore scoprirà che dietro la paura, da sempre, abitava l’urgenza di parlare di lutto, tempo, relazione.

L’autore rinuncia ai brividi per abbracciare uno sguardo che qualcuno definirà zuccheroso; e tuttavia, proprio quando sembra sfiorare il biglietto d’auguri, il racconto recupera pudore, misura, una malinconia che salva dalla retorica. Se talvolta la messa in quadro indulge in immagini troppo pettinate e alcuni passaggi narrativi si adagiano su luoghi comuni dell’“assapora ogni attimo”, la sincerità disarma: non c’è furberia, c’è il desiderio di condividere un’intuizione semplice e difficile da praticare.

Il lavoro del cast sostiene questa linea. Tom Hiddleston restituisce un Chuck umile, ironico, capace di trasformare la goffaggine in grazia; Chiwetel Ejiofor e Karen Gillan danno corpo alla fragile alleanza di chi, davanti alla catastrofe, riscopre la necessità di un testimone; Mark Hamill e Mia Sara scolpiscono due nonni opposti e complementari, logica e immaginazione. Attorno a loro ruota un ensemble che in poche scene trova accenti di verità. L’insieme funziona perché ogni comparsa sembra arrivare con una storia alle spalle, come se il film ricordasse ad alta voce che siamo la somma di tutti gli incontri, anche di quelli minimi.

Dal punto di vista tematico, The Life of Chuck usa riferimenti poetici e cosmologici non per darsi importanza ma per allargare il respiro. Il verso che invita a “contenere moltitudini” non è un motto decorativo: diventa pratica di messa in scena, giustifica il racconto a mosaico, autorizza contraddizioni e cambi di passo. Anche le tracce di divulgazione scientifica servono a ridimensionare l’ego senza deprimere l’esperienza: se l’umanità occupa un battito di ciglia nel calendario dell’universo, quel battito non è trascurabile per chi lo vive. Ed è in questa riconciliazione fra infinitamente grande e infinitamente piccolo che The Life of Chuck trova un tono personale, più convincente delle etichette di genere che gli si vorrebbero appiccicare.

Resta legittimo chiedersi se l’operazione regga sempre l’equilibrio tra tenerezza e stucchevolezza. Alcune scene cercano la commozione in modo molto diretto; qualche monologo spiega più del necessario; la patina visiva rischia la cartolina. Ma, nella media del cinema contemporaneo, è raro incontrare un’opera che si espone così, che dichiara il proprio intento senza ironie protettive e lo porta a compimento con coerenza musicale.

Per questo The Life of Chuck merita una raccomandazione: non tanto come eccezione nel percorso del regista, quanto come prova di come un adattamento da Stephen King possa rinunciare al brivido per inseguire la vibrazione più sottile del nostro stare al mondo. È un invito a danzare quando la musica sembra finita, e proprio per questo suona necessario.

Di seguito trovate il trailer doppiato in italiano di The Life of Chuck, nei nostri cinema dal 18 settembre: