Cineocchio Dossier – Wuxiapian: sguardo su un genere intangibile (Parte II)
01/02/2016 news di Michele Senesi
Il nostro viaggio tra spadaccini erranti ed eroi delle arti marziali prosegue con gli anni '80, dove un nome emerge prepotente su tutti: Tsui Hark
1980: la New Wave
Tutto sommato la vita media di una novità nella Hong Kong di fine ’70, inizi ’80 era paragonabile a una qualunque scoperta tecnologica nel secondo decennio del nuovo secolo. L’aver introdotto una violenza più palpabile, un maggiore uso di effetti speciali e di artifizi per mostrare i mirabolanti poteri degli spadaccini erranti, una regia che seguiva senza particolare intervento le performance marziali era nel breve termine diventato espressione di un cinema di maniera. Ad Hong Kong è così, per ogni successo arrivano decine di plagi, imitazioni, derive, oggetti simili.
Nel breve giro di un decennio erano stati prodotti centinaia di wuxiapian di alterna fattura che in breve avevano saturato il mercato. Il genere inoltre è spesso di origine letteraria e cammina sempre in bilico tra cinema verosimile e fantasy, il che aveva aperto la strada ad una nuova visione, seppur acerba, dell’effetto speciale. Ma l’avvento della televisione, all’epoca così sperimentale da sfiorare, e a volte raggiungere, l’avanguardia, dall’altra i passi in avanti raggiunti dall’effettistica statunitense e la classica tendenza al risparmio, sicuri ormai del successo facile del genere, avevano portato ad un suo lento declino. Il pubblico stava perdendo la fiducia e l’interesse verso un qualcosa che ormai aveva sempre meno da dire e che era stanca ombra ripetitiva di sé stesso.
Ma si ripete il miracolo. Forse addirittura maggiore rispetto a quello di quindici anni prima. Un pugno di registi agguerriti, politicizzati, provenienti dalla televisione girano in una manciata scarsa di anni dei film di esordio deflagranti e totalmente innovativi che vanno a produrre una sorta di new wave locale. E si tratta di una new wave bizzarra atta a rivoluzionare il linguaggio filmico, i metodi di raccontare e i contenuti in maniera assolutamente autoriale. Ma lo fanno tutti lavorando paradossalmente su un esplicito cinema di genere. Patrick Tam con The Sword, Johnnie To con The Enigmatic Case, Tsui Hark con The Butterfly Murders. Non troppo casualmente, tre wuxiapian. A questa new wave si sommano nuovi nomi (come quello di Ann Hui, tutti autori che faranno la storia del cinema di lì a poco), ma ha vita breve a causa di prodotti ad alta resa qualitativa ma troppo sperimentali per potere trovare una degna accoglienza nel pubblico locale. Donano però un segnale forte all’industria, una sorta di voce urlata che suggerisce che un cinema diverso e totalmente nuovo è possibile.
Manca solo un uomo che possa creare un precedente. E quell’uomo è Tsui Hark. Dopo tre film sperimentali rivelatisi flop e una deriva per necessità nella commedia, riesce a dirigere Zu: Warriors from the Magic Mountain, ovvero un colossal fantasy in cui, con l’aiuto di tecnici hollywoodiani, rivoluziona e modernizza macroscopicamente il cinema hongkonghese. E’ solo un passo. Il meglio deve arrivare. Nel 1984 Tsui fonda la propria casa di produzione, la Film Workshop a cui affianca un’officina per gli effetti speciali, la Cinefex.
In questo modo trova finalmente l’indipendenza creativa (parzialmente vero, in effetti, viste le versioni tagliate, monche o rimontate di tanti suoi film) e può dare il via alla scrittura di un percorso coerente e rivoluzionario. Forte quindi di un apparente gap colmato con il resto del mondo nel campo dell’effettistica, di un costo del lavoro competitivo, di una moglie rivelatasi una eccellente produttrice e di grandi tecnici che attendevano solo le giuste direttive, Tsui prende tutti i generi locali più incisivi e in sei anni, dal 1986 al 1992, li rivoluziona. Inizia dal noir producendo ad un John Woo in piena crisi lavorativa il classico A Better Tomorrow. Passa poi al fantasy producendo a Ching Siu-tung / Storia di Fantasmi Cinesi e successivamente al wuxiapian con la saga di Swordsman. Infine tiene per se il kung fu movie dirigendo l’epopea di Once Upon a Time in China. Questa rivoluzione stilistica rimette totalmente in gioco le riflessioni sulla messa in scena rendendola moderna e dinamica e ripensa in toto la coreografia marziale creando un metodo di successo che si ripercuoterà in ogni genere.
Che sia un film di arti marziali, un action, un erotico o una commedia la metodologia di messa in scena è la stessa: furibonda, rapida, inventiva, energica, anabolizzata, ma sempre puntellata da imprevisti tocchi di classe e poesia stilistica. Il più delle volte fasciata da una fotografia calda, policroma e raffinata. Si produce così un cinema di genere ma particolarmente colto che tesse con il pubblico un legame onesto e di intelligente rispetto. Nel mentre Tsui Hark utilizza i risultati di tutti questi successi per realizzare dei film minori e più personali, trasversali ai generi e a volte totalmente indefinibili, il più delle volte rivelatisi flop di pubblico anche se qualitativamente rilevanti anche all’interno della storia del cinema locale.
continua…
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