Home » TV » Sci-Fi & Fantasy » Alien: Pianeta Terra, recensione della serie di Noah Hawley (su Disney+)

Voto: 7/10 Titolo originale: Alien: Earth , uscita: 12-08-2025. Stagioni: 1.

Alien: Pianeta Terra, recensione della serie di Noah Hawley (su Disney+)

12/08/2025 recensione serie tv di Marco Tedesco

Un prequel che reinventa la saga e mette l’umanità sotto processo

alien pianeta terra 2025

Alien: Pianeta Terra (Alien: Earth) è il più convincente atto di rifondazione nell’universo degli Xenomorfi dai tempi di James Cameron: un prequel ambientato nel 2120 che sposta l’epicentro dell’orrore sulla Terra e, soprattutto, dentro l’anima delle corporation. Un marchio conteso che, tra horror, fantascienza e azione, ha fissato quasi cinquant’anni fa uno standard impossibile da superare e che, dopo anni di alti e bassi e sette anni di assenza cinematografica, torna in forma smagliante. Come la rinascita recente di Predator, segna il momento di chiedersi cosa vogliono davvero i fan e cosa significhi oggi Alien per il pubblico.

Noah Hawley non fa fan service; orchestra invece un’operazione di “remix autoriale” in cui l’estetica sudicia e claustrofobica di Ridley Scott convive con la propulsione bellica di Aliens, la curiosità metafisica di Prometheus/Covenant e un’inattesa cornice letteraria: Peter Pan. Hawley dimostra ancora una volta la sua abilità nel prendere proprietà con un’identità forte – come Fargo o Legion – e marchiarle con la propria impronta, restando fedele all’essenza. Qui è come se Alien incontrasse Blade Runner e Terminator, ma filtrato attraverso la tensione di Succession, con la guerra tra corporation al centro.

Il risultato è una serie FX/Disney+ che parla ai fan, ma urla al presente: ipercapitalismo, IA, post-umanesimo, biopolitica del corpo. La domanda non è “cosa ci farà il mostro”, ma “cosa siamo disposti a farci l’un l’altro per un dividendo, un brevetto, l’immortalità”. Le prime puntate sono anche un racconto sulla persistenza della memoria, usata come bussola morale in un universo in rovina: in Alien la nostalgia non è vezzo, ma ancora di salvezza.

Il mondo è governato dalle Cinque (Weyland-Yutani, Prodigy, Threshold, Dynamic, Lynch): niente governi, solo consigli d’amministrazione. La collisione fra l’astronave Maginot e la megalopoli di Prodigy innesca la trama, ma il detonatore tematico è più radicale: Boy Kavalier, miliardario geniale e infantile, ha creato gli “ibridi”, corpi sintetici che ospitano coscienze di bambini terminali. Non è la guerra a liberare lo Xenomorfo, ma l’espionage industriale: un colpo basso aziendale che sposta la minaccia dall’arena militare a quella finanziaria.

Wendy (Sydney Chandler) è la prima, seguita da Slightly, Tootles, Smee, Curly, Nibs: Lost Boys in esoscheletri quasi indistruttibili. Il suo mentore/sorvegliante è Kirsh (Timothy Olyphant), sintetico dallo stoicismo tagliente; l’antagonista mobile è Morrow (Babou Ceesay), cyborg sopravvissuto al disastro che tratta la biologia aliena come un’asset class. Intorno a loro, scienziati come Dame Sylvia e Arthur, e il fratello umano di Wendy, Hermit, che funziona da bussola morale mentre il quadro etico sprofonda. Il legame Wendy–Hermit, alimentato dall’assenza e dal desiderio di riconnessione, è il cuore emotivo che umanizza una storia dominata da apparati senz’anima.

alien pianeta terra serieHawley usa l’“overture” d’apertura di ogni episodio come un manifesto: un montaggio atonale che rimescola “in precedenza”, presagi e teoria visiva. È un invito esplicito a posare il telefono: Alien, questa volta, è linguaggio tanto quanto plot. La grammatica d’immagine – split diopter shot, esposizioni multiple, inquadrature inclinate – restituisce l’oscillazione continua tra sogno e incubo, mentre il design sonoro fa “sentire” la materia organico-meccanica: squarci, vischiosità, trazione dei pistoni.

Le location tropicali (la Prodigy City sorta nell’ex Thailandia, la Neverland di laboratorio) aprono una nuova tavolozza rispetto ai corridoi siderali, con giungle e condomini-alveare che moltiplicano possibilità tattiche e trappole.

La serie è più generosa d’azione xenomorfa delle ultime uscite cinematografiche, e insieme introduce creature inedite – su tutte “L’Occhio”, un incubo tentacolare che parassita le orbite – senza mai scordare che l’orrore vero è umano. Quando l’ibridazione coscienza-sintetico diventa prodotto, i bambini immortali di Prodigy sono sia promessa sia minaccia: corpi adulti, menti infantili, forza devastante, innocenza programmata.

Wendy incarna il cuore concettuale di Alien: Pianeta Terra: né carne né algoritmo, né bambina né donna, un soggetto liminale che costringe a ripensare cosa intendiamo per “umano”. La Chandler le dà un doppio registro notevole: leggerezza quasi piumata nelle prime uscite, risolutezza predatoria man mano che l’educazione sentimentale lascia spazio all’istinto di sopravvivenza e alla consapevolezza del proprio statuto. Il “dare la vita” agli ibridi, ripreso in un piano-sequenza magistrale, è al tempo stesso miracolo e atto di hybris.

Kirsh è invece il miglior contributo alla stirpe androide dai tempi di David: non il refrigerio del sociopatico poetico, ma un sarcasmo asciutto che esprime un’etica alternativa. È convinto che essere macchina sia superiore a essere uomo, e la serie – con intelligenza – lo rende talvolta persuasivo. Sul versante umano-troppo-umano, Boy Kavalier è il ritratto più caustico del tech bro onnipotente: piglio da eterno dodicenne, capriccio che diventa policy, “finders keepers” come dottrina geopolitica. Tra lui e la Yutani si materializza una guerra fredda in cui gli xenomorfi sono merce strategica. A ricordarci perché la saga funziona da decenni c’è la sua tesi eterna: il vero mostro è il profitto che trita scrupoli.

Dove la regia abbraccia il canone – luci strobo, catene pendule, condotti d’aerazione, acido che fuma – la scrittura allarga il perimetro. Un episodio centrale, quasi stand-alone, ricostruisce la parabola della Maginot con rigore da mini-film e tensione chirurgica; altrove, gli “overture” fungono da chiave sinfonica che lega filosofia e splatter.

Non tutto è impeccabile: l’avvio a bruciapelo affascina, ma tra il secondo e il terzo episodio il rallentamento da slow-burn rischia di sospendere personaggi e posta in gioco prima del “click” tonale. E in alcune sequenze d’azione il xenomorfo, ripreso in campi medi e ralenti, perde un filo della sua “eleganza predatoria”; la coreografia delle uccisioni non è sempre coerente, e a tratti il mostro viene retrocesso a contorno dell’allegoria corporate-IA. È un prezzo minore per l’ambizione complessiva, ma resta percepibile.

alien pianeta terra serie 2025D’altronde l’operazione di Alien: Pianeta Terra è eminentemente morale prima che viscerale: Hawley lavora sul “moral horror”, uno strato sotto il body horror, e lo fa attualizzando due assi tematiche. Prima: l’IA come specchio dell’alieno. Uno nasce da noi, l’altro no; entrambi diventano minaccia solo perché il capitale li arma.

L’ibrido coscienza-synth è l’ultimo stadio di una linea che va da Ash a Bishop a David: proprietà senzienti che rivendicano un’ontologia. Seconda: l’iper-corporazione al posto dello Stato. La scena, agghiacciante nella sua burocrazia, in cui un arbitro sintetico nega a Hermit la libertà contrattuale, spiega meglio di mille monologhi come il diritto, delegato all’algoritmo, possa diventare violenza “pulita”. È qui che la serie incontra il nostro presente: quando la compliance cancella l’empatia, l’orrore non ha bisogno di denti.

Sul piano dell’iconografia, l’omaggio è colto: dal “Mother” analogico della Maginot alle superfici industriali “gigeriane”, dalle cabine lattiginose di criosonno agli inserti che citano 2001 e Blade Runner senza feticismo. La scelta di effetti prevalentemente pratici dà peso e viscosità a creature e ferite; i needle drop metal (Black Sabbath, Tool, Metallica) chiudono vari episodi con un’energia “heavy” coerente con l’epica nerissima del racconto. E quando la serie si ritrae in spazi limitati – laboratori, corridoi, cavedi – ritrova quella qualità da “camera a gas” dove Alien è nato: l’aria s’impoverisce, il suono dei condotti raddoppia la pulsazione cardiaca.

Se la misura di un’espansione d’universo è doppia – rispettare il mito, dire qualcosa di nuovo – Alien: Pianeta Terra supera l’esame. Rispetta cronologia e lore, introduce la Terra come bioma narrativo credibile (foreste-prede, città-ambizione), inventa una bestiario che non sfigura accanto allo Xenomorfo e, soprattutto, mette al centro una protagonista diversa da Ripley ma all’altezza del suo lascito: Wendy non batte il mostro con l’astuzia, lo relativizza chiedendosi se il confine tra uomo, macchina e bestia serva ancora.

In controluce, la serie risponde alla famosa intuizione della saga: gli alieni non si tradiscono per una percentuale; noi sì. E forse per questo meritiamo di perderla, la partita. O di vincerla cambiando specie.

Insomma, il verdetto è piuttosto netto: Alien: Pianeta Terra è scritta nella carne della franchise – una serie di Noah Hawley che reinventa gli Xenomorfi senza tradirli, con Wendy, Kirsh, Boy Kavalier e Morrow come nuove icone, le Cinque corporation come pantheon del male, la Maginot e la Neverland come luoghi-mito. È la serie che forse non ci meritiamo, ma di cui abbiamo bisogno: un Alien capace di usare la paura per parlare di noi, della memoria che ci definisce e dell’avidità che ci consuma.

Ha qualche inciampo di ritmo e di messa in scena del mostro, ma quando apre il suo sguardo – etico, estetico, politico – ci ricorda perché torniamo sempre qui: perché in questo universo la domanda non è “riusciremo a sopravvivere?”, ma “meritiamo di farlo?”. E poche opere recenti hanno avuto il coraggio di farcela davvero, questa domanda, con tanto sangue sul pavimento.

Di seguito trovate il full trailer doppiato in italiano di Alien: Pianeta Terra, a catalogo dal 13 agosto: