Voto: 6.5/10 Titolo originale: Wayward , uscita: 25-09-2025. Stagioni: 1.
Wayward: la recensione degli 8 episodi della miniserie con Toni Collette (su Netflix)
25/09/2025 recensione serie tv Wayward di Gioia Majuna
Un prodotto che esplora adolescenza, controllo e comunità avvolgendole in un thriller psicologico disturbante

Wayward è una miniserie in 8 episodi che usa il thriller per interrogare l’età più fragile e manipolabile: l’adolescenza. Ambientata nella cittadina di Tall Pines e nel suo riformatorio/accademia, governato dalla carismatica e intimidatoria Evelyn Wade, costruisce un dispositivo narrativo a doppia entrata.
Da un lato c’è l’indagine di Alex Dempsey, poliziotto in cerca di riscatto personale e familiare; dall’altro, lo sguardo interno delle ragazze trascinate nell’istituto, Abbie e Leila, che vivono sulla pelle la pedagogia della sottomissione: uniformi che cancellano l’identità, regole che vietano il contatto, delazioni premiate, colloqui “terapeutici” come sedute pubbliche di vergogna. È in questa dialettica tra chi osserva e chi subisce che la serie trova il suo nucleo più inquietante.
Il pregio più evidente è la stratificazione allegorica. Wayward parla di crescita e di transizione (biografica, affettiva, di genere) senza proclami, facendo del corpo e delle regole il campo di battaglia tra desiderio e controllo. Tall Pines diventa un microcosmo politico: una comunità apparentemente accogliente che neutralizza il dissenso attraverso la promessa di “curare” l’adolescenza. L’istituto, con i suoi nomi-animale assegnati allo staff e la ritualità punitiva, è una setta laica dove l’autoritarismo indossa il cardigan e sorride in camera. La progressiva rivelazione dei metodi di Evelyn svela il cuore tematico: il potere è tanto più efficace quanto più si presenta come cura.
Toni Collette è magnetica nel disegnare una leader materna che sa essere insieme balsamo e lama. Ogni sorriso è una trappola, ogni parola un contratto morale. Non è un “mostro” monolitico: incarna il fascino della guida carismatica che offre appartenenza a chi è solo, e proprio per questo risulta pericolosa. Accanto, il controcanto di Mae Martin conferisce ad Alex una misura rara: non il salvatore infallibile, ma un adulto attraversato da dubbi, che cerca nel prendersi cura dei ragazzi la prova generale della paternità imminente. Il rapporto con Laura, ex allieva dell’accademia e ora futura madre, aggiunge un livello di ambiguità domestica: Tall Pines ha plasmato non solo una generazione di studenti, ma anche gli adulti che governano il presente.
Sul fronte teen, la serie evita figurine stereotipate. Abbie e Leila sono amiche prima che “casi clinici”: sbagliano, resistono, si tradiscono e si salvano a vicenda, restituendo quell’energia contraddittoria dell’età in cui ogni gesto è assoluto. Attorno a loro, comprimari scolpiti con dettagli vivi – il bugiardo tenero, la spia compiaciuta, il ragazzo instabile – rendono Tall Pines un laboratorio sociale inquietante e plausibile.
Dove Wayward convince meno è nell’oscillazione di tono. L’impianto di mistero procede con passo regolare, ma a volte sacrifica l’affondo emotivo per mantenere la macchina dell’enigma in moto; altrove, preferisce l’allegoria alla vertigine, scegliendo una via mediana che smussa sia la critica frontale al “business” del recupero adolescenziale, sia la potenza del racconto orrorifico puro. Non mancano scelte registiche felici – un episodio che isola i ragazzi e li lascia al proprio “stato di natura” ha la densità di un esperimento sociale – ma il brivido è spesso più intellettuale che viscerale. Questo può essere una forza (la serie invita a leggere, non solo a reagire) ma anche un limite per chi cerca scarti sorprendenti e colpi allo stomaco.
Resta però la coerenza con cui il racconto smonta il mito della comunità “virtuosa”. Tall Pines non è la solita provincia moralista: è un luogo moderno, inclusivo nelle forme e feroce nella sostanza. Non giudica l’orientamento o l’identità, ma incatena il comportamento; concede linguaggi progressisti e pretende obbedienza assoluta. Qui la serie è tagliente: mostra come il controllo possa travestirsi da ascolto, e come la sete di appartenenza apra la porta alla perdita di sé.
Sul piano della recitazione, oltre alla Collette e alla Martin, spiccano le interpreti giovani, capaci di reggere primi piani e silenzi senza appoggiarsi a spiegazioni didascaliche. La messa in scena predilige spazi porosi (case senza porte, corridoi che si rincorrono, aule che sono arene) a suggerire che la vera prigione è l’assenza di confini tra intimo e pubblico, tra cura e dominio.
In definitiva, Wayward è una miniserie più da decifrare che da divorare. Funziona benissimo come parabola sul potere che si spaccia per protezione, sulla fatica di diventare adulti senza farsi addomesticare, sulla responsabilità degli adulti nel non confondere disciplina e annientamento. Non punta alla scossa continua, preferisce la corrosione lenta. Chi cerca quindi un thriller ad alto voltaggio potrebbe percepire una certa prudenza; chi desidera una storia che lavori sotto pelle troverà pane per i propri denti.
Di seguito trovate il full trailer internazionale di Wayward, disponibile in streaming su Netflix dal 25 settembre:
© Riproduzione riservata