Voto: 4/10 Titolo originale: Death Note , uscita: 25-08-2017. Budget: $40,000,000. Regista: Adam Wingard.
Death Note: la recensione del film di Adam Wingard (per Netflix)
19/08/2017 recensione film Death Note di William Maga
La trasposizione made in Netflix con Nat Wolff e Margaret Qualley è un prodotto che scontenta gli appassionati del manga e dell'anime originali e pure tutti gli altri
A pensar male si fa peccato ma, spesso, si indovina. Questo detto di uso ormai comune si può già da diverso tempo applicare ai progetti dei grandi studi americani che si mettono in testa non soltanto di trasporre celebri serie manga e/o animate, ma di farlo addirittura in un unico film live action. Tralasciando il poverissimo Fist of the North Star / Il ritorno di Kenshiro del 1995, esempi più recenti – e più ricchi – su cui si dovrebbe riflettere sono Dragonball Evolution e Ghost in the Shell.
Come può venire in mente di prendere opere storiche e amatissime in tutto il mondo, composte da decine di episodi e/o volumi, il cui fandom è peraltro assai esteso e attento, e ‘comprimerle’ in un solo lungometraggio di 90/100 minuti? Cosa spinge un produttore a pensare che l’investimento verrà coperto e che potrebbe scapparci forse un profitto? Ebbene, le risposte a queste domande continueranno a rimanere oscure anche dopo la visione di Death Note, ultimo adattamento in ordine di tempo voluto questa volta da Netflix e diretto dall’astro nascente del cinema fanta-horror Adam Wingard (The Guest, Blair Witch).
Certo, gli interessati, ben consci del potenziale vespaio che una notizia del genere avrebbe sicuramente scatenato, hanno subito messo le mani avanti dicendo che questa versione è ‘ispirata a’ piuttosto che una fedele riproduzione, ergo non aspettarsi di vedere un Death Note così come pensato sulle pagine create da Tsugumi Ohba e Takeshi Obata. Viene da chiedersi però quale sia allora il motivo di prendere un franchise decisamente noto, che può vantare centinaia di migliaia di fedelissimi – e quindi di potenziali spettatori -, e salvarne sostanzialmente solamente il titolo, i poteri super cool del diario e un inspiegabile (per gli occidentali) Shinigami, appiattendo o tranciando tutto il resto.
Per chi non ne fosse a conoscenza, ricordiamo inoltre che in Giappone – tra il 2006 e il 2008 – sono stati prodotti per il grande schermo ben tre film con attori in carne e ossa, mentre nel 2016 è stata presentata una serie TV. Curiosamente, oltre a essere piuttosto fedeli al materiale di partenza (nei nomi e nell’aspetto dei protagonisti, nelle vicende raccontate), nessuno dei tre film in questione ha una durata inferiore ai 128 minuti. Il Death Note di Wingard dura meno di 100 minuti. Anche questo la dice lunga sull’approccio.
In ogni caso, una lunga carrellata in slow motion sulle note di Reckless degli Australian Crawl ci porta nel campus di un classico liceo americano, dove facciamo la conoscenza di Light Turner (Nat Wolff), un nerd fifone che strilla come una bambina che si fa pagare per fare i compiti degli altri che passa le giornate a guardare da lontano le cheerleader e che viene giustamente bullizzato.
Tra le ragazze spiate c’è Mia Sutton (Margaret Qualley), bella e dannata, come dimostra la sigaretta sempre in bocca. Durante un temporale improvviso, dal cielo piove il Death Note, lasciato scivolare sulla Terra da un dio della morte, uno Shinigami di nome Ryuk (doppiato in originale da Willem Dafoe), annoiato dello status quo e desideroso di vedere che utilizzo ne potrebbe fare un umano.
Il diario infatti dà la possibilità a chi lo possiede di uccidere senza possibilità di scampo chiunque, semplicemente scrivendone il nome sulle sue pagine e avendone in mente il volto. Light, che è figlio di un poliziotto (Shea Whigham), è sconcertato e furioso dal numero di criminali in libertà che la polizia non riesce a catturare o tenere imprigionati (la madre è stata uccisa e il colpevole rilasciato), e così, dopo l’iniziale diffidenza, comincia ad applicare la sua giustizia sommaria su qualsiasi malvivente gli capiti a tiro di televisore. Nessuno riesce a comprendere cosa stia accadendo e a collegare i puntini finché non entra in gioco L/Elle (LaKeith Stanfield), super investigatore dall’identità segretissima che sembra aver capito tutto.
Immaginiamo per un attimo che manga e anime non esistano (si può anche non conoscerli no?). Ora, leggendo questa trama sembrerebbe tutto a posto, perfino stimolante. Giusto, non fosse che la durata di cui sopra non garantisca affatto il respiro minimo richiesto per affrontare adeguatamente quanto messo sul piatto, anche per un film senza questo importante fardello sulle spalle con cui bene o male deve fare i conti.
La condensazione estrema – inspiegabile – porta a un affastellarsi di situazioni e alle relative risoluzioni e intuizioni ai limiti dell’impossibile. Lo scorrere del tempo è vago, tutto accade perché le lancette corrono e si deve arrivare alla chiusa, ovvero un lunghissimo inseguimento a piedi e uno spiegone. Ecco allora che Light in tempo zero rivela a Mia – con cui non aveva mai parlato prima – la funzione del diario, che suo padre – un onesto sbirro senza particolari meriti – venga coinvolto nella task force incaricata di scovare il colpevole e che L intuisca miracolosamente – essendo un detective prodigio fin dalla più tenera età – chi si celi dietro alle uccisioni. Si perde completamente il fondamentale gioco del gatto col topo psicologico tra i due protagonisti.
E l’americanizzazione dei nomi, il cambio di location (una piovosa Seattle al neon) e il fatto che L sia un personaggio di colore perchè a Hollywood funziona così non sono certo i problemi principali. Il punto è che se ti vuoi programmaticamente soltanto ‘ispirare’ all’opera originale, risulta davvero ridicolo, forzato e incomprensibile che L parli il giapponese fluentemente, che abbia dei tic e delle usanze stravaganti e che mangi compulsivamente caramelline colorate, che Light come soprannome lavorativo scelga casualmente Kira o che in una casa americana ci siano le fondamentali – per Ryuk – mele rosse a ogni angolo (vi sfido a trovarle in un altro film o telefilm). Così vuoi solo tirarti addosso i giusti insulti di chi l’opera originale la conosce ed è in grado di contestualizzare tali riferimenti. Il punto è che l’idea alla base di Death Note avrebbe meritato ben altro sviluppo.
Pensare che a un ragazzo del liceo venga concesso il potere di giustiziare a piacimento qualsiasi persona, criminale o meno, dà i brividi e dovrebbe spalancare le porte a ragionamenti un filo più profondi che ‘uccidiamo il generale cattivone della Corea del Nord che affoga i poveri prigionieri politici’. Viene forse vagliata a dovere l’opinione pubblica, spaccata tra chi ritiene che Kira si la salvezza e chi invece lo condanna? No di certo. A un certo punto Mia accenna al fatto che su alcuni forum in Internet gli utenti comincino a postare richieste specifiche indirizzate al ‘sommo sterminatore’, chiedendogli di uccidere tizio o caio perché presumibilmente rei di un qualche tipo di reato. Un’intuizione di sceneggiatura interessante, non fosse che viene liquidata in una frase e mai più affrontata.
Possiamo allora immaginarci che Adam Wingard sia stato scelto per i suoi trascorsi e quindi abbia deciso di spingere almeno forte sulla componente horror, dando sfogo alla fantasia nell’inscenare morti truculente. Anche qui bisogna accontentarsi però, perché se è vero che le prime uccisioni di Light sono piuttosto inventive e graficamente violente (pur se ampiamente debitrici di Final Destination e a E venne il Giorno), dopo il minuto 47 non vediamo più nulla. Da segnalare però il gustoso omaggio – attraverso un passaggio televisivo – a Phantasm / Fantasmi di Don Coscarelli e alle sue sfere metalliche.
Anche il decantato Ryuk, elemento soprannaturale utile per dare un tocco diabolico alla storia, va e viene a suo piacimento senza apparenti spiegazioni, anche se forse sono le stesse che lo portano a rimanere sempre avvolto nell’ombra, ovvero il costo eccessivo di una dignitosa resa in CGI. Se Light ed L finiscono per essere quasi due macchiette, complice anche l’espressività inadeguata dei due attori che li interpretano, è invece Mia a risaltare, più di una partner per il biondino nel suo tentativo di rimodellare il mondo attraverso il Death Note e sicuramente più spregiudicata e psicolabile grazie ai suoi comportamenti ambigui. Sa cosa vuole e farebbe di tutto per ottenerlo, anche infrangere le regole e rischiare la vita. Una delle poche note positive.
In definitiva, Death Note è un adattamento che scontenta tutti, soprattutto i fan dell’opera originale, uno spreco scellerato del materiale a disposizione, che delude sia per la scarsa fedeltà che per la mancanza di coraggio di cercare soluzioni originali interessanti. Auguriamoci solo che il finale aperto resti tale.
Di seguito il trailer e di Death Note, nel catalogo di Netflix dal 25 agosto:
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