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Voto: 5.5/10 Titolo originale: Death Race , uscita: 22-08-2008. Budget: $45,000,000. Regista: Paul W. S. Anderson.

Recensione story: Death Race di Paul W. S. Anderson (2008)

02/10/2025 recensione film di William Maga

Jason Statham era al centro di un remake distopico cupo e fracassone che diverte con la sua brutalità meccanica ma manca di originalità e satira rispetto al cult del 1975

statham death race film 2008

Death ace del 2008 è uno di quei titoli che dividono per definizione. Paul W. S. Anderson costruisce un giocattolo meccanico rumoroso, viscerale, spesso rozzo, che rinuncia alla satira corrosiva di “Anno 2000 – La corsa della morte” in favore di una corsa d’assalto fatta di metallo, fuoco e montaggio martellante.

Laddove il capostipite di Corman e Bartel puntava su un’idea paradossale (il punteggio per gli investimenti ai pedoni) come lente satirica sul voyerismo collettivo, il remake sposta il baricentro: arena carceraria, reality gladiatorio in diretta, potenziamenti attivabili in pista, e un’architettura di gara in tre manche che replica la progressione a livelli. Ne deriva un mondo meno beffardo e più ingrigito, che preferisce l’impatto alla riflessione.

Sul piano della messa in scena Death Race è coerente con il cinema di Anderson: fotografia slavata, ferraglia che stride, esplosioni reali e un uso degli effetti pratici che dà peso ai ribaltamenti di carrozzeria. Le sequenze migliori sono quelle in cui l’azione trova chiarezza nella coreografia degli scontri: l’attivazione delle armi, le trappole della pista, l’ingresso del mostruoso veicolo corazzato che devasta i concorrenti.

Quando il film accelera, regala quella “fisicità di metallo” che molti blockbuster digitali avevano smarrito. Quando rallenta, risaltano i limiti: dialoghi schematici, character design a stereotipi (il rivale, il naziskin, il gangster asiatico, il latino psicopatico), una cornice carceraria che ripete il copione del detenuto incastrato e della direttrice corrotta.

Jason Statham è il perno che regge l’ingranaggio: corpo teso, sguardo di pietra, economia di gesti. È l’eroe da officina che Anderson gli cuce addosso da anni: non un monolite invincibile, ma un professionista del rischio che macina chilometri senza posa. Accanto a lui spicca Joan Allen, scelta sorprendente e riuscita: la sua Hennessey è una manager di ghiaccio, tagliente e cinica, capace di tenere la scena con un sopracciglio. Ian McShane porta carisma crepuscolare, Tyrese Gibson dà al rivale Joe un’energia rissosa che funziona nelle collisioni a breve raggio. Gli altri sono funzioni, sacrificabili alla prossima curva.

death race 2008 filmLa regia spinge sul frastuono: montaggio aggressivo, sonoro che picchia, una frenesia che a tratti sacrifica la leggibilità. Il taglia-incolla furioso pare più una soluzione per nascondere limiti di messa in quadro; eppure, quando Anderson apre il campo e lascia respirare la geometria della pista, la tensione sale davvero.

È qui che Death Race centra il suo obiettivo: travolgere lo spettatore con una catena di micro-climax ben piazzati. Il contrappeso è un epilogo sbrigativo, meno appagante dello scontro tecnico in corsa, e un’idea di mondo che si accontenta del bozzetto distopico (privati che gestiscono carceri, pubblico assetato di sangue) senza mordere davvero il tema. La critica alla spettacolarizzazione della violenza resta superficie, cornice utile a giustificare la giostra più che a metterla in discussione.

Il confronto con il modello anni Settanta e con altri “sport letali” al cinema è inevitabile. Rispetto a “Anno 2000 – La corsa della morte”, qui l’umorismo nero evapora quasi del tutto: il tono si fa cupo, compatto, meno disponibile al grottesco. Il parallelo naturale è “L’implacabile”: condannati trasformati in intrattenimento, regole del gioco manipolate, pubblico complice. Anderson sceglie l’aderenza al presente più che la costruzione di un futuro satirico: corpi che si frantumano davvero, polvere, ferri, fumo e napalm contro la levigatezza patinata delle supercar. Per questo Death Race funziona come film d’azione e zoppica come parabola: prende sul serio la meccanica, non il messaggio.

La coerenza industriale è lampante: Death Race promette e mantiene “auto e carneficina”. La sceneggiatura è un telaio spartano che tiene insieme il pilota incastrato, la figlia da ritrovare, la direttrice che trucca le carte, i compagni di squadra che diventano famiglia. È il minimo sindacale per far scorrere la benzina verso ciò che conta: inseguimenti, impatti, esplosioni. Chi entra cercando costruzione psicologica o invenzione narrativa resterà deluso; chi vuole sentire il colpo secco di una mitragliera sul cofano, il boato di un bus blindato che esplode, la strisciata di scintille su cemento, troverà pane per i suoi denti.

Sul versante ideologico il film è poi onesto fino all’ingenuità: sa di essere un piacere colpevole e ci si abbandona senza ipocrisie. Proprio questa trasparenza lo rende meno irritante di tanti prodotti che travestono il consumo di violenza da sermone. È un parco giochi meccanico dove la regola è sopravvivere all’ennesima staccata. Quando l’azione si ferma, restano i difetti: un finale zuccheroso, una moraletta di comodo, il disegno sociale ridotto a didascalia. Ma la memoria della visione torna sempre alle gare, al clangore, alla massa d’acciaio che prende velocità.

Death Race è dunque una definizione vivente del suo stesso titolo: corsa verso la morte come spettacolo, spettacolo come macchina industriale che macina uomini, e il cinema come officina che lucida e rimonta la rottamazione. Nel suo campo, è efficace. Fuori da quel campo, è irrilevante. Per chi misura un film d’azione dal peso specifico del metallo e dal numero di fiammate, missione compiuta; per chi cerca intelligenza satirica e invenzione, il traguardo resta lontano. Paradossalmente è proprio questa nettezza a renderlo “onesto”: non finge di essere altro che ciò che è. E quando ingrana la marcia giusta, il contagiri emozionale sale davvero.

Di seguito il red band trailer di Death Race:

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