Voto: 8/10 Titolo originale: Django , uscita: 06-04-1966. Regista: Sergio Corbucci.
Dossier: Django di Sergio Corbucci, il western all’italiana si sporca di fango e nichilismo
29/09/2024 recensione film Django di William Maga
Nel 1966 Franco Nero era l'anti-eroe al centro di un'opera di rottura, grezza e affascinante
Diretto nel 1966 da Sergio Corbucci (all’epoca ‘caldissimo’ nel genere), è considerato uno dei film più importanti nel panorama del western all’italiana, sebbene il suo tono cupo e violento lo distingua nettamente dai cugini americani più classici. La trama segue appunto Django, un misterioso ex soldato, interpretato da Franco Nero, che vaga attraverso un paesaggio desolato, trascinando dietro di sé una bara che contiene un pesante mitragliatore.
Questo elemento visivo e narrativo incarna l’essenza stessa del film: la morte e la distruzione sono sempre presenti, e Django, più che un eroe, è un anti-eroe spinto da motivi personali di vendetta.
Django rappresenta una delle incarnazioni più memorabili dell’anti-eroe tipico del cinema di Corbucci. Non è un cavaliere sena macchia o un redentore, ma un uomo tormentato, con un passato oscuro, che agisce con fredda determinazione. Il film, infatti, abbandona del tutto la distinzione tra buoni e cattivi, immergendo i personaggi in un mondo moralmente ambiguo, dove l’unica legge è la violenza.
Franco Nero, con il suo carisma e lo sguardo impassibile, dona al protagonista di nero vestito una fisicità e una presenza che lo rendono uno dei volti più iconici del cinema western europeo.
L’idea di trasportare una bara dietro di sé non è solo un espediente visivo ‘cool’, ma un simbolo del peso della morte che Django porta con sé ovunque vada. Questo aspetto sottolinea la dimensione nichilista del film, in cui la speranza di redenzione è praticamente assente. La sua vendetta, anche se giustificata da motivazioni personali, non è mai idealizzata: è brutale e disillusa.
Sergio Corbucci utilizza il contesto del western per riflettere su questioni politiche e sociali che stavano caratterizzando l’Italia degli anni ’60. In particolare, la rappresentazione del Maggiore Jackson (Eduardo Fajardo) e dei suoi seguaci razzisti, che incarnano gli ideali suprematisti del Sud degli Stati Uniti post-guerra civile, offre una critica feroce alla violenza e all’oppressione sistematica.
Tuttavia, anche la fazione opposta, i rivoluzionari messicani, non è dipinta in una luce positiva: sono brutali, avidi e opportunisti. Questa scelta narrativa rafforza l’idea che nel mondo di Django non ci sono eroi o cause giuste, ma solo individui spinti da interessi personali e dalla volontà di sopravvivere.
Questo pessimismo riflette le tensioni sociali e politiche dell’epoca, sia in Italia che a livello globale, in un momento di grandi cambiamenti e conflitti. Corbucci non si limita a raccontare una storia di scontri armati, ma introduce una riflessione più ampia sulla natura della violenza e sulla corruzione del potere, rendendo Django un film dal sottotesto politico più profondo di quanto possa sembrare a una prima visione.
La violenza è uno dei tratti distintivi del film, ma viene utilizzata in modo diverso rispetto ai western americani. Qui la brutalità è iperrealistica e scioccante, resa ancora più esplicita dal contrasto tra momenti di calma e improvvise esplosioni di violenza. L’uso del mitragliatore nella famosa scena della sparatoria è uno degli esempi più lampanti di come Corbucci stravolga le convenzioni del genere.
Questo tipo di arma, anacronistica per il periodo storico del film, amplifica la portata distruttiva della vendetta di Django e aggiunge un tocco quasi surreale alla violenza.
Le scene di combattimento, tuttavia, non sono mai completamente gratuite: ogni esplosione di violenza porta con sé una sensazione di inevitabilità e fatalismo. Django stesso ne è vittima, come dimostra la scena in cui le sue mani vengono schiacciate, simbolo della sua impotenza in un mondo dominato dal caos. Questa violenza, lungi dall’essere stilizzata, riflette l’anarchia e la mancanza di giustizia in un universo che ha perso ogni senso di moralità.
Il mondo di Django è quindi desolato, fangoso, quasi post-apocalittico. Sergio Corbucci abbandona le ampie praterie tipiche del western tradizionale per creare un’ambientazione degradata, dove melma, pioggia e desolazione fanno da sfondo alle vicende dei personaggi. La città in rovina, sporca e quasi priva di vita, diventa una metafora visiva della decadenza morale che domina il film.
Corbucci sfrutta l’ambiente per amplificare il senso di claustrofobia e oppressione che circonda i personaggi, contribuendo a rendere Django un film dal tono cupo e pessimistico.
Un altro elemento distintivo di Django è la sua colonna sonora, composta da Luis Bacalov. Il tema principale, diventato iconico, accompagna il personaggio di Django nei suoi momenti di solitudine e nei suoi atti di violenza, donando al film un’atmosfera malinconica ed epica al contempo.
La musica di Bacalov riesce a combinare il pathos emotivo con la crudezza della narrazione, rafforzando la dualità del personaggio di Django, sospeso tra vendetta e disperazione. Questo tema musicale è stato ripreso e omaggiato in numerosi film successivi, incluso Django Unchained di Quentin Tarantino, a testimonianza della sua influenza duratura.
La soundtrack non serve comunque solo come semplice accompagnamento musicale alle immagini, ma diventa parte integrante della narrazione, contribuendo a costruire l’identità del film. La musica accentua la solitudine di Django e il peso del suo passato, dando vita a un commento sonoro che riflette il tono crepuscolare della pellicola.
A distanza di decenni, Django continua a essere un punto di riferimento nel cinema di genere, grazie alla sua capacità di unire l’intrattenimento alla riflessione sociale e politica. L’influenza del film è stata vastissima, generando innumerevoli sequel non ufficiali e ispirando registi contemporanei come Quentin Tarantino. La figura di Django ha superato i confini del film per diventare un’icona culturale, rappresentando il prototipo dell’anti-eroe che affronta un mondo corrotto e senza speranza.
Ma oltre alla sua eredità diretta nel cinema, Django ha contribuito a ridefinire il concetto di spaghetti western, dimostrando che il genere poteva essere utilizzato non solo per raccontare storie di cieca violenza e brutale vendetta, ma anche per affrontare temi più complessi e universali. Il film ha messo in discussione i miti fondanti del western classico, smontando l’idea di giustizia e ordine per offrire una visione molto più caotica e disillusa del mondo contemporaneo.
Insomma, Django di Sergio Corbucci è un’opera che ha segnato una svolta nel cinema western, non solo per la sua violenza cruda e il suo approccio innovativo al genere, ma per la sua capacità di affrontare tematiche complesse come la corruzione morale, il razzismo e la violenza sistemica. Attraverso un personaggio enigmatico e un mondo visivamente degradato, il regista – anche co-sceneggiatore insieme al fratello Bruno e a Fernando Di Leo) – ha creato un’opera che continua a influenzare e ispirare, capace di parlare sia agli appassionati di cinema di genere che a un pubblico più ampio.
La sua colonna sonora iconica e la rappresentazione visiva del degrado umano e ambientale lo rendono un’opera che trascende i confini del suo genere, rimanendo un classico senza tempo.
Di seguito trovate l’iconica scena d’apertura di Django:
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