Voto: 7/10 Titolo originale: The Mitchells vs. the Machines , uscita: 22-04-2021. Budget: $75,000,000. Regista: Mike Rianda.
I Mitchell contro le macchine | La recensione del film animato di M. Rianda e J. Rowe (su Netflix)
16/05/2021 recensione film I Mitchell contro le macchine di William Maga
I due registi - supervisionati da Phil Lord e Christopher Miller - scrivono e dirigono un'opera capace di reinventare concetti noti, veicolando in maniera divertente ed emotiva un messaggio universale
C’è qualcosa di decisamente familiare in ogni aspetto della nuova commedia fantascientifica animata per famiglie I Mitchell contro le macchine (The Mitchells vs. The Machines, già noto come Connected), distribuita recentemente in esclusiva da Netflix, dopo essere stato posticipato a lungo causa COVID. Lo stile delle animazioni è complesso e stratificato, come ci si potrebbe ormai aspettare da un prodotto targato Sony Pictures Animation, lo stesso studio dietro al film vincitore dell’Oscar Spider-Man: Un nuovo universo del 2018 (la recensione). Ci sono aspetti dei personaggi che richiamano a quanto già visto in Piovono Polpette del 2009, anch’esso – non a caso – della Sony Pictures Animation. Ci sono anche riferimenti ad altri film, a canzoni e innumerevoli altre piccole sciocchezzuole pop che rimandano subito a qualcosa che il pubblico avrà già visto o sperimentato.
All’apparenza, quindi, ciò potrebbe scoraggiare alcuni dal riuscire a trovarci qualcosa di lontanamente originale ma, come vedremo, I Mitchell contro le macchine fa della referenzialità continua a pronunciata una caratteristica cardine e consapevole, prendendo temi e lessici apparentemente abusati e reinventandoli, incoraggiando nel mentre chi guarda ad attingere e a testare la propria cultura personale in fatto di meme.
È la sera prima che lei voli verso una scuola di cinema a Los Angeles e l’adolescente Katie Mitchell (doppiata in originale da Abbi Jacobson) è sull’orlo della libertà. Anche se le mancheranno il suo fratello minore Aaron (il regista Michael Rianda), appassionato di dinosauri, e la madre, l’insegnante di scuola elementare Linda (Maya Rudolph), è dal padre Rick (Danny McBride), un tempo a lei molto vicino ma ora ben poco solidale, quello dal quale ha bisogno di allontanarsi di più. Sentendo che questa potrebbe essere la sua ultima possibilità di trascorrere del tempo con Katie, Rick annulla però il suo biglietto aereo e carica l’intera famiglia in macchina per un viaggio verso la destinazione della ragazza.
Anche se cercano di trarre il massimo dalla ‘gita di famiglia’, più si sforzano e più le cose sembrano andare per il verso sbagliato. Nessuno di loro avrebbe però potuto prevedere quanto sarebbe potuta andare storta la situazione quando scoppia un’improvvisa rivolta delle macchine, coi Mitchell che si ritrovano ad essere quella che potrebbe essere l’unica speranza di sopravvivenza dell’umanità.
Quando la maggior parte di noi pensa a un meme popolare, pensa probabilmente al Success Kid, al Condescending Wonka e Distracted Boyfriend (se non avete associato i nomi all’immagine vuol dire che siete ‘out’, sappiatelo). I più ‘anziani’ penseranno invece al Grumpy Cat o al Nyan Cat. Per quelli ancora più ‘vecchi’ ci sono invece il Numa Numa e il Lightsaber Kid. Ciascuno dei meme nati sul web negli ultimi quindici anni ha preso d’assalto la cultura popolare fino a quando anche i meno avvezzi alla tecnologia non hanno imparato loro malgrado a riconoscerli, pur non comprendendo appieno da dove provenissero (e perché fossero diventati famosi …).
Partendo da alcune preoccupazioni molto attuali sulla privacy e la tecnologia per arrivare ad esplorare in conflitti generazionali, la sceneggiatura scritta da Michael Rianda e Jeff Rowe (anche co-regista) ci gioca un bel po’ sopra, offrendo momenti in I Mitchell contro le macchine che ricorrono allo stesso espediente. C’è così una gag di ‘rimozione del cuoricino’ come in Piovono Polpette, c’è una sequenza messa in scena (e citata anche nel parlato) come in Zombi di George A. Romero, un uso della canzone Ironside di Quincy Jones che di sicuro scatenerà una specifica risposta della memoria, e altre cose ancora. Ognuno di questi simpatici momenti (tra gli altri) fa leva su un’esperienza condivisa, su quel riconoscimento di similarità che i meme suscitano attraverso costrutti e funzioni sociali.
In senso stretto, i meme sono ‘informazioni culturali’ che sono passate da un singolo piccolo gruppo a un gruppo più grande. Potreste pure non conoscere il video di YouTube del ragazzo cicciotto che canta Numa Numa, ma se avete sentito Live Your Life di T.I. feat. Rihanna (2008), quelle battute all’inizio sono inconfondibili. All’interno della canzone stessa, si può ascoltare poi addirittura un altro meme, quando Rihanna intona “… got my mind on my money …”, un riferimento a Gin & Juice di Snoop Dogg del 1993. I meme sono, in molti modi, una scorciatoia per comunicare un’esperienza condivisa. Senti una traccia, vediamo un’immagine, uno stile di abbigliamento, la cornice di un’opera di animazione e il significato intertestuale ci colpisce lesto. Questo utilizzo della comunicazione tramite meme da parte di Michael Rianda e Jeff Rowe è però solamente la visione macro della loro storia.
La visione micro guarda invece i meme dalla loro origine, a cominciare dalla ‘casa’. Non c’è dubbio che gli individui siano plasmati dalla loro comunità. Ciò che piace loro, ciò che apprezzano, il modo in cui vedono il mondo sono plasmati dalle esperienze che hanno con quelli che li circondano. Non si tratta solo di genitori per figli, ma il contrario. I genitori sono influenzati tanto da ciò che fanno i loro figli quanto viceversa ed è qui che I Mitchell contro le macchine gioca tutte le sue carte, creando un racconto emozionante al centro di una commedia di azione e avventura. Il film inizialmente vuole che lo spettatori pensino ad un conflitto narrativo tra figlia e padre, ma in realtà incorpora il modo in cui i più giovani arrivano a vedere i loro genitori come persone.
Prendiamo la canzone di cui sopra, Live Your Life, una traccia che ha un significato speciale nella relazione tra i protagonisti Katie e Rick. Quella traccia è stata rilasciata nel 2008 e all’epoca Katie sarebbe stata una bambina, troppo piccola per capirne davvero il testo, il che significa che Rick – o Linda – hanno fatto suonare quella canzone per lei, creando così l’intersezione di interessi condivisi che avrebbero preso la forma di un momento familiare seminale.
Sebbene I Mitchell contro le macchine non approfondisca chi abbia fatto l’inception nella vita di Katie, c’è un altro aspetto che viene utilizzato per portare avanti l’idea che quelli che Katie e Aaron conoscono come papà e mamma hanno una portata limitata proprio a causa del loro ruolo di genitori. L’incorporazione dell’idea che i genitori siano più che semplici ‘tutori’ promuove semplicemente l’altra nozione portata avanti dalla narrazione secondo cui Katie è più di ciò che i suoi genitori pensano che lei sia. Siamo tutti individui complessi e I Mitchell contro le macchine non ha paura di esplorare questo aspetto. I due registi scelgono semplicemente di farlo tramite un’apocalisse robotica.
Non dovrebbe essere una sorpresa visto che tra i produttori ci sono i ‘maestri’ dell’arte della decostruzione Phil Lord e Christopher Miller (sia di Piovono Polpette che di Spider-Man: Un nuovo universo), ma la fine del mondo appare ‘fantastica’. Il centro dell’apocalisse ha un sapore futuristico alla Tron con un magnifico aspetto visivo magnetico dalle sfumature rosa-viola, mentre i robot stessi sono di un bianco perla, così che non c’è scontro tra bellezza estetica e forma.
Anche se i fan del lavoro di Michael Rianda e Jeff Rowe riconosceranno un po’ del fascino di Gravity Falls, l’animazione principalmente realizzata in cel-shading e acquerellata varia in base al tono, al personaggio e alle necessità, per un risultato meno confortevole e più stordente. Poggiandosi alla discussione sui meme di cui sopra, la preminente forma di animazione usata è … beh un po’ tutte, poiché il design visivo utilizza come freccia al suo arco il punto di vista cinematografico di Katie per sovrapporre uno strato di animazione a un altro.
Ad esempio, nella sequenza di apertura di I Mitchell contro le macchine, la voce fuori campo di Katie introduce la sua famiglia in uno stile simile a un trailer, culminando nel titolo “La peggiore famiglia di tutti i tempi” intonacato sullo schermo. In un’altra scena, la ragazzina è presentata come circondata da una combinazione di figure disegnate a mano, ognuna diversa nello stile (vita, emotiva, linea e cartone animato), ciascuna che si fonde insieme alle altre per formare un’ardente esplosione di suggestione intorno a lei mentre parla. Il risultato finale potrebbe sembrare un approccio gargantuesco, ma è molto più specifico nel suo approccio multimediale.
Non si ricorre a questa varietà di stili visivi e di animazione al mero scopo di risultare pazzerelli e provocatori, ma per trasmettere la prospettiva specifica della Katie ‘regista’. Questa è la sua storia, anche se sposta il suo punto di vista sugli altri comprimari, quindi tutto quello che accade sarà visto attraverso il suo obiettivo, che – casualmente – si sposa con un talento cinematografico. Il risultato assomiglia così a uno dei progetti fai-da-te di Katie, o un account di Social Media particolarmente creativo in cui le esperienze quotidiane vengono arricchite con filtri, animazioni ed effetti vari ed eventuali (‘abbellimenti’ disegnati a mano sopra alla raffinata perfezione dell’animazione generata al computer).
Tra la spinta alla auto-riflessione su se stessi in relazione agli altri e l’animazione follemente mutevole, I Mitchell contro le macchine diventa così una corsa sfrenata. È dolce, sincero e mai una volta suona disonesto, anche quando prende spietatamente – ma bonariamente – in giro gli adulti per essere ‘poco tecnologici’. In parte questo è dovuto al ‘potere’ dei meme stessi, che ci fanno innamorare del film prima che possiamo esserne completamente coinvolti (la categoria dei cinefili non potrà non sentirsi sciogliere il cuore durante l’introduzione del personaggio di Katie in apertura). Ma non va dimenticato che vengono presentati una varietà di personaggi potenzialmente ‘anormali’ o ‘non conformi’ senza che il film sia assorbito da quelle ‘anormalità’ o ‘non conformità’.
La gente è la gente come cantava qualcuno, e le cose che ci rendono diversi ci rendono solamente quelli che siamo. Il fatto che Michael Rianda e Jeff Rowe abbiano realizzato un’opera che riesca a parlare del delicato tema del trovare ‘la tua tribù’ (scelta), elevando al contempo la nozione di legami familiari (non scelti) senza che per forza una cosa debba prevalere sull’altra è un dono assoluto per quelle famiglie che potrebbero essere alle prese anche con questi concetti. Anche se può apparire uno strano paragone, I Mitchell contro le macchine potrebbe far parte di un double bill con Minari di Lee Isaac Chung, visto che – con le debite distinzioni di ritmo – entrambi parlano di persone che cercano disperatamente di stabilire una connessione, anche quando stanno fallendo (ok, un altro candidato potrebbe essere Scott Pilgrim vs. the World, che già nel 2010 aveva ‘giocato’ con la commistione di medium apparentemente lontani).
I due registi raggiungono un sano equilibrio con lo stile a volte frenetico e iper-acuto di Lord & Miller, ma sembrano condividere la stessa fiducia nell’estrarre emozioni potenti non solo come giustapposizione, ma in effetto simultaneo, con le loro battute, lasciando il pubblico a piangere dal ridere durante le varie scene senza che loro sappiano quale emozione stia dominando la loro reazione irrefrenabile.
Oltre a tutto questo, abbia anche la possibilità di ascoltare le performance vocali di un cast di doppiatori d’eccezione, come quasi sempre accade negli USA (e, come quasi sempre, il paragone con le controparti italiane è impietoso): il premio Oscar Olivia Colman dona carattere a una I.A. “cattiva” (e il suo ragionamento non è poi così orribile dato il contesto …); ad Abbi Jacobson viene concesso spazio per creare la gamma necessaria per illustrare le paure e le frustrazioni di Kate; Danny McBride offre qualcosa di molto più sommesso, anche se non necessariamente contenuto, rispetto alle esibizioni per le quali è solitamente noto; Maya Rudolph è infin l’asso nella manica che può trasformare in un fuoricampo qualsiasi lettura di battute.
C’è un però, anzi due. Il duplice altro lato della medaglia in I Mitchell contro le macchine è dato innanzitutto dal fatto che un’uscita su Netflix è praticamente sinonimo che mai lo vedremo in home-video, quindi niente supporto fisico che anche nel 2021 qualcuno potrebbe ancora collezionare (semi cit. della battuta pronunciata dal piccolo Aaron ‘Cos’è un album?‘ …). In secondo luogo, la tempistica dell’uscita potrebbe significare che sarà quasi dimenticato prima che la ‘stagione dei premi’ inizierà sul serio il prossimo autunno, una possibilità a cui è meglio non pensare.
Insomma, accoppiando il pedigree di Lord e Miller con la visione di Rianda e Rowe, I Mitchell contro le macchine riesce a mescolare tutte queste idee familiari, spesso preda di battute scontate e prevedibili, in modi nuovi e ad approfondire concetti emotivamente coinvolgenti che ormai tutti conosciamo ma che non abbiamo mai percepito così finemente finché non sono riusciti a trovare la sfumatura giusta. Assemblare, assorbire e riconfigurare tutti i pezzi che avremmo potuto desiderare (aka quello che pensiamo di voler vedere nei film che amiamo) e presentarli in un modo che fosse gratificante senza però capitolare a quelle aspettative, soddisfacente e sorprendente allo stesso tempo era un risultato affatto scontato, ma ogni tanto capita anche qualcosa di impensabile.
Di seguito trovate il trailer italiano di I Mitchell contro le macchine, nel catalogo di Netlix dal 30 aprile:
1
© Riproduzione riservata