Titolo originale: Little Shop of Horrors , uscita: 19-12-1986. Budget: $25,000,000. Regista: Frank Oz.
Recensione story | La piccola bottega degli orrori di Frank Oz (1986)
07/04/2020 recensione film La piccola bottega degli orrori di William Maga
A metà degli anni '80, Rick Moranis, Steve Martin ed Ellen Greene erano i protagonisti del rifacimento dal budget più sostanzioso del piccolo cult di Roger Corman del 1960, divenuto nel frattempo anche un musical di Boradway
“Non conosco nessuno che merita d’essere fatto a pezzi per sfamare”, protesta l’occhialuto Seymour Krelborn (Rick Moranis) a metà del film. Novello Faust del sobborghi newyorkesi (siamo nei primi anni Sessanta), il piccoletto ha risollevato le sorti finanziarie dello scalcinato ‘Flowers shop’ in cui lavora da garzone esibendo in vetrina una strana pianta venuta giù dal cielo nel bel mezzo di un’eclissi di sole; ma, ora, quel vegetale canterino e chiacchierone sta crescendo a vista d’occhio, le tumide labbra rosate sono diventate fauci che invocano sangue e carne umana.
La piccola bottega digli orrori (Little Shop of Horrors) è un film strampalato e divertente, che si ispira all’omonima commedia musicale di Broadway di Howard Ashman e Alan Menken del 1982, la quale, a sua volta, si rifaceva al fortunato cult-movie scritto da Charles B. Griffit e diretto da Roger Corman. Sul filmetto del 1960 – maestro indiscusso del cinema di serie B a basso, bassissimo costo – fioriscono ancora oggi leggende ed esegesi critiche: vi basti sapere che il regista lo girò in poco più di due giorni, chiamando a raccolta il solito gruppo di ‘amici’ (c’era addirittura un Jack Nicholson giovanissimo e già ghignante) e riutilizzando una scenografia già usata per un’altra sua pellicola.
Ventisette anni dopo, ingaggiato dal produttore discografico David Geffen, l’ideatore del Muppets e fresco reduce da Dark Crystal (la recensione), Frank Oz, rimetteva mano – con 25 milioni di dollari di budget – alla materia con fresca e irriverente inventiva, riuscendo dove si erano arenati Martin Scorsese e John Landis (all’inizio interessati al progetto).
Chi ha visto la horror comedy originale conoscerà quindi la storiella. Si immagina che il fatiscente negozietto di fiori gestito da Vincent Gardenia (quando il nome è una ‘premonizione’ …) torni agli antichi splendori grazie a quella gentile e inusuale pianta, ribattezzata Audrey II, scovata dal frustrato garzone. Il quale sarebbe pronto a tutto pur di poter sposare la svampita commessa Audrey I (Ellen Greene, unica attrice facente parte del cast del musical teatrale del 1982), vamp dal cuore tenero e dal livido facile, tormentata da un dentista manesco (uno dei pazienti, tra l’altro, è Bill Murray, in un cameo con dialoghi improvvisati). Capirete che, di fronte alle continue richieste di cibo della pianta, ormai piuttosto cresciutella, il tenero protagonista metterà da parte ogni riserva morale, prima fornendo un po’ del proprio sangue e poi cominciando a fare a pezzi gli sventurati che gli capitano a tiro. È un crescendo, appunto, dai tipici riverberi faustiani, con il sempre più innamorato fioraio che vende l’anima al diavolo (pardon, alla pianta venuta da un altro mondo) pur di coronare il borghesissimo, rassicurante sogno d’amore.
Impreziosito dalla smaltata fotografia di Robert Paynter e ben sorretto da una folta equipe di tecnici degli effetti speciali, impegnati ad antropomorfizzare il feroce vegetale, La piccola bottega degli orrori può fare ancora oggi la felicità di almeno due categorie di spettatori, quelli che vanno pazzi per la musica black degli anni Sessanta (rock, blues, rhythm and blues, cori in stile Supremes) e quelli che gongolano di fronte al continui riferimenti cinefili (“Non vengo da una Laguna Nera, la Cosa e la Mummia sono niente in confronto a me”, avverte minacciosa Audrey II nel mezzo di un palpitante blues elettrico).
Il gioco è scoperto e aperto a tutte le interpretazioni; a Frank Oz e ai sul collaboratori bisogna riconoscere il merito di aver moltiplicato gli spunti satirici (sono prese di mira le fantasie della coppia americana media) e le trovate coreografico-buffonesche, in modo che ciascuno possa prendere dal film ciò che più gli piace. Almeno due ‘numeri’ sono, comunque, da antologia: il primo è la dichiarazione di intenti del sadico dentista ‘teddy boy’, incarnato con oltraggiosa grinta rock da Steve Martin; l’altro è la complessa sequenza iniziale, con il popolo negletto del quartiere che innalza una specie di gospel risentito contro la grama vita nei bassifondi (per la cronaca, tutto venne ricostruito negli attrezzatissimi Pinewood Studios di Londra dallo scenografo Roy Walker).
Di seguito il lungo finale alternativo di La piccola bottega degli orrori, girato ma scartato e mai montato perché ritenuto troppo deprimente dagli spettatori chiamati ai test screen (ma ottenne comunque il PG-13 in censura):
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