Voto: 6/10 Titolo originale: Sweet, Sweet Lonely Girl , uscita: 22-09-2016. Regista: A.D. Calvo.
[recensione] Sweet Sweet Lonely Girl di Alejandro Daniel Calvo
24/05/2017 recensione film Sweet, Sweet Lonely Girl di Sabrina Crivelli
Sospeso tra thriller, love e ghost story, un film ben recitato e denso d'atmosfera, rovinato da un finale troppo sbrigativo
Singolare coming of age con un tocco dark, Sweet Sweet Lonely Girl di Alejandro Daniel Calvo framezza in una narrazione lirica, un sentimentalismo tardo-adolescenziale, un tocco oscuro sepolcrale, tipico dei film gotici vintage, un po’ alla Ballata macabra.
La pellicola principia con la vicenda della sfortunata protagonista, Adele (Erin Wilhelmi), che per supportare la famiglia in difficoltà economiche, la madre e il nuovo compagno aspettano una figlia, va a lavorare dalla vecchia zia Dora (Susan Kellerman), mentalmente instabile e di cui ha solo vaghi e sparuti ricordi infantili. La donna, un’agorafobica, vive in una sontuosa quanto sinistra villa vittoriana, da cui non esce volentieri, anzi, parrebbe non voler mettere piede fuori dalla sua stanza. L’ambiente familiare è tutt’altro che ameno, la genitrice la ossessiona con i soldi e il suo consorte sembra avere strane mire sulla figliastra, che accetta di andarsene senza apporre troppe resistenze. La ragazza, dunque, inizialmente svolge con meticolosità, seppure un po’ contro voglia, le sue mansioni, senza mai però vedere la donna, che si limita a intimarle degli ordini o a scriverli sopra dei foglietti. Se la situazione è latamente inquitante, e la magione scricchiolante e vuota non è da meno, tutto migliora d’improvviso quando la protagonista s’imbatte per caso al supermercato in una splendida sconosciuta, Beth (Quinn Shephard). Quest’ultima, bella e spavalda, attrae subito l’attenzione di Adele, timida e solitaria, che ne viene attratta; le due si rincontrano poi in un bar poco dopo e il loro legame diviene via via sempre più stretto.
Di primo acchito, quindi, la storia sembrerebbe più che altro incentrata su una relazione, tra amicizia e amore, tra le due ragazze, di cui sono raccontati in maniera molto dilatata e con lato romanticismo gli incontri; eppure, sapientemente sospeso tra più generi, Sweet Sweet Lonely Girl introduce via via nello svolgimento dettagli oscuri, appena percepibili, fornendo così allo spettatore avvisaglie che ciò che appare non corrisponde a ciò che è realmente. Anzitutto c’è Adele, che parrebbe dolce e indifesa, ma in realtà con il procedere della diegesi si rivela capace di gesti inaspettatamente turpi, iniziando dopo poco a rubare all’anziana assistita con mille sotterfugi, istigata dalla fascinosa amica. Si fa strada così la componente marcatamente thriller, che tinge di nero l’idillio, mostrando il lato oscuro delle due protagoniste, che con somma innocenza compiono gesti dalle conseguenze terribili. Rimane solo l’incognita se il crimine sia messo in atto scientemente oppure no. A rendere verisimili, a dare consistenza alle psicologie dei personaggi, c’è l’ottima recitazione delle interpreti principali la Wilhelmi e la Shephard, la cui recitazione è ottima e credibile, e che rimangono sempre in parte senza alcun eccesso manierista. La loro performance è ancor più encomiabile dato il fatto che, a parte poche repentine comparse, sono le uniche due attrici in scena e l’azione si regge solo pressoché solo su di loro.
La caratterizzazione delle due ragazze, tuttavia, non è l’unico indizio di qualcosa di maligno che aleggia nella diegesi, si succedono allo stesso modo epifanici particolari che indicano in maniera appena percettibile la vera natura del racconto. In primo luogo c’è un continuo e straniante gioco di sguardi, in particolare il ricorso all’immagine riflessa: l’occhio della camera in diversi frangenti non si posa direttamente sui soggetti che dovrebbe inquadrare, ma sulla superficie di uno specchio che ne duplica e rimanda i contorni. Sono reiterati i casi in cui si assiste a tale procedimento, dal primo dialogo delle due novelle amiche in locale dove mangiano una pizza, o quando Adele apre un melograno, o quando le due si provano i vecchi vestiti della proprietaria di casa, o ancora sulle piccole lastre riflettenti sugli armadietti in palestra, oppure nel tentativo di spiare la zia, fanno scivolare sotto la porta un antico specchio d’argento in cui il suo volto è riverberato; infine, nell’epilogo ad effetto, il riflesso della minaccia incombente sulla protagonista gioca in ruolo centrale, di rivelazione, seppur forse sia il passaggio meno riuscito. In primo luogo si tratta del ricorso alla vista, agli occhi in un iter seduttivo saffico, per cui il mostrare, come lo spiare nascostamente, fanno parte di una dinamica del corteggiamento, ma non si limita a ciò, è molto di più. Tale meccanismo, infatti, a cui Calvo ricorre in modo tutt’altro che avventato, è profondamente radicato e funzionale nell’economia filmica complessiva e riesce perfettamente a trasmette la sensazione che s’insinui l’arcano nell’apparente normalità, pur lasciando chi guarda incerto del pericolo imminente, che d’altra parte non è davvero tangibile. Ad acuire tale straniamento, sempre più intenso, si odono vaghi e inquietanti i sussurii di una voce femminile fuori campo che chiama Adele più volte lungo la pellicola, come luciferina presenza ad attirarla a sé. In ultimo anche alcuni elementi del profilmico, in particolare alcuni oggetti di scena contengono in sé la suddetta minaccia, nella fattispecie una statuetta, certo rivelatrice per chi vuole vedere, che molto richiama quelle antiche divinità demoniche mesopotamiche, quali il Pazuzu di L’Esorcista.
Sospeso tra diversi generi, in chiusura si aggiunge purtroppo un afflato paranormale, che tuttavia non riesce ad essere portato davvero a compimento, anzi lede in parte il lato thriller molto più riuscito. Ghost story mancata, allora, troppo lento è il concretizzarsi dell’orrore vero e proprio, che è per una estesa porzione della pellicola costituito solo dalla decadente magione e poco altro, gli elementi afferenti a tale nucleo narrativo sono troppo abbozzati e incoerenti, solo impalpabili presagi a cui però non segue una vera e propria chiusa. Soprattutto è forzato e in parte ermetico il colpo di scena finale, basato praticamene solo dal dettaglio di una foto, che da la sensazione di una certa incoerenza con il resto dello svolgimento, contrariamente sempre ben congegnato nella sua ponderata sospensione tra dark e love story con un tocco di weird. Forse, se fosse stato prolungato in parte il minutaggio di Sweet Sweet Lonely Girl, tutte le sue componenti, così sapientemente delineate lungo la via, avrebbero potuto essere condotte a un degno compimento, ma con i suoi soli 76 minuti (molto poco a dire il vero), sembra solo che si sia voluti approdare a uno sbrigativa finale, non badando alle minuzie.
Di seguito il trailer originale:
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