Voto: 6/10 Titolo originale: The Blackout Experiments , uscita: 21-05-2016. Budget: $1. Regista: Rich Fox.
[recensione] The Blackout Experiments di Rich Fox
12/06/2017 recensione film The Blackout Experiments di Sabrina Crivelli
Un documentario horror che ci proietta nei più oscuri meandri della mente umana
Decisamente sfidante, The Blackout Experiments è la seconda opera diretta da Rich Fox, dopo più di un quindicennio dalla prima, Tribute (2001) e presentata al Sundance Film Festival del 2016. Documentario con incursioni nei lati oscuri della psiche umana, in particolare nella ricerca di paura e dolore e perciò quasi horror in molti passaggi, delinea un percorso analitico in senso freudiano, a cui si frammischia lo sperimentalismo di una performance contemporanea, risultando un film non immediato o meramente d’intrattenimento, ma certo “interessante” nel senso etimologico di suscitar un coinvolgimento, una riflessione non superficiale.
La narrazione, anzitutto, è volutamente frammentaria, poco agevole, si dipana in una coralità di testimonianze dei partecipanti a un misterioso happening, presentatosi sotto l’evocativo nome di Blackout. Si tratta di studiare un aspetto controverso della psiche umana, registrata attraverso il girato, tramite interviste individuali e filmati a carattere documentario: il cercare, provando situazioni limite e l’orrore nella vita reale, a superare i propri limiti, la banalità e ripetitività dell’esistenza comune. Tale percorso è raccontato direttamente dai protagonisti, che finito l’iter previsto dagli organizzatori dell’esperimento stesso, hanno rilasciato una serie di interviste, perché ambedue le parti, osservatori e osservati, meglio comprendessero quanto successo. Ne risulta una raccolta di testimonianze sulle tappe affrontate in un crescendo che principiano con l’attesa, la preparazione all’esperienza topica, tra eccitazione e lato timore del non conosciuto, dell’horror vacui, ambedue tratti atavicamente distintivi dell’uomo. Emerge così il vero quesito posto dagli individui, a se stessi prima di tutto: “Perché affidarsi a perfetti sconosciuti e sottoporsi a vessazioni psicofisiche volontariamente?”.
A dare quasi ieraticità all’interrogativo, il soggetto parlante di turno è sovente inquadrato davanti a uno sfondo nero, con una maglietta del medesimo colore, in un’estetica minimale e senza fronzoli che risalta al massimo l’antropologico annullando ogni distrazione e al contempo ricordando vagamente il Black Light Theatre del rivoluzionario Konstantin Stanislavskij. La complessa riflessione si focalizza dunque sulla ricerca di dolore e paura come pratica catartica o liberatoria (in fondo anche la passione per la filmografia del terrore ha anche tale raison d’être), per molti inaccettabile, eppure spesso al centro delle paradossali ricerche artistiche nella contemporaneità (a partire dagli anni ’70 particolarmente in voga), ne sono esempi celebri le performance di Marina Abramović o Chris Burden. Allo stesso modo persone comuni, la cui individualità è scientemente non troppo marcata così che il loro vissuto possa esser latore di universalità, si affidano a un’entità oscura e inquietante, senza volto perché esso è coperto, e ne seguono le direttive e volontariamente cedono per un certo lasso di tempo il controllo totale di sé, quasi in una regressione infantile. Subiscono quindi diverse violenze, dall’essere incappucciati con sacchetti di plastica, all’essere picchiati e vilipesi verbalmente.
Ciò che il Blackout, che immediatamente rimanda all’oscuramento momentaneo – del logos ça va sans dire-, apporta allora all’esistenzialismo dell’uomo post-contemporaneo, sempre alla ricerca di senso e di una maggior consapevolezza, è l’esperire i confini, la morte stessa, e tramite il dolore ottenere una nuova e più profonda percezione del reale, di ciò che è intorno, ma anche all’interno di lui stesso. Sembra paradossale, ma ciò che infine emerge è che, come la gran parte degli interrogati infine concede all’occhio della camera, dopo una buona dose di vacillamenti, attraverso un trauma profondo eterodotto è possibile affrontare i propri spettri, i propri limiti, pervenendo a una più intensa percezione della propria vita, e crea non poca dipendenza.
D’altra parte già là visceralità del teatro di Jerzy Grotowski aveva ipotizzato un simile percorso per il proprio pubblico, solo che in questo caso al posto di una collocazione teatrale il locus prescelto è allo spettatore sconosciuto fino all’ultimo e di norma capannoni sono abbandonati o luoghi fatiscenti; inoltre la “pièce” è quivi decisamente più invasiva. Documentario orrorifico dunque affascinante, a dare ancor più profondità e forza alla riflessione c’è il comparto visivo, tutt’altro che improvvisato. Il détournement, ricercato con cura, è tradotto da scelte ben precise: alle sequenze già citate con le interviste, si alterna un girato che ha tutta l’immediatezza e il realismo della presa diretta, in cui momenti di quotidianità sono contrapposti a scene altamente disturbate e disturbanti, proprio quelle aventi oggetto i passaggi più truci in cui i partecipanti sono coinvolti negli shock indotti e le quali contengono anche immagini piuttosto forti, da pellicola horror vera e propria; tuttavia qui non siamo nella finzione…
In conclusione, The Blackout Experiments è certo estremamente indie e anti-narrativo nella forma (Le Lacrime di Kali di Andreas Marschall è qualcosa che potrebbe accostarvisi nel mondo della cinematografia non documentaristica), non è un prodotto per tutti e chiaramente non vuole esserlo (forse per questo non ha ancora una data di uscita per l’Italia, e probabilmente mai l’avrà …), ma, in caso apprezziate un certo tipo di prodotto molto sperimentale, è senz’altro un titolo da non perdere.
Di seguito il trailer:
© Riproduzione riservata