Riflessione: e allora chi, se non Mario Bava?
03/10/2024 news di Federico Ravazzoni
Con un approccio innovativo e un occhio per i dettagli tecnici, il regista di Sanremo ha plasmato l'horror gotico e gettato le basi per generi poi divenuti popolarissimi
Se ve intendete di arti magiche, invocate Thot (dio egizio della sapienza) e chiedetegli chi è il regista italiano che per mordente, influenza e capacità di inventare generi filmici dal nulla si sia contraddistinto a partire dal suo primo film.
Lui esiterà un secondo, sarà tentato di rispondervi uno scontatissimo Federico Fellini, ma sono certo che, alla fine, farà il nome di Mario Bava.
Nato il 31 luglio 1914, parliamo di un regista a cui, se vi piace il cinema d’essai e in particolare l’horror e il suo vasto florilegio di sottogeneri, dovete più che ai vostri genitori.
Parliamo di un regista che, con budget irrisori e a volte persino ridicoli, riusciva a calamitarsi addosso l’invidia e l’ammirazione di addetti ai lavori ben più facinorosi di lui.
Fece il suo ingresso a gamba tesa nell’industria cinematografica nel 1960 con una gemma senza tempo, la pellicola capostipite dell’horror gotico italiano: La maschera del demonio.
Il genere horror lato sensu, a dire il vero, nascerà qualche anno prima, nel 1957, con I vampiri di Riccardo Freda. Provate, anche qui, a fare una piccola ricerca su chi fu il direttore della fotografia e degli effetti speciali.
Ve lo dico io: inizia con “Mario” e finisce con “Bava”. Monopolio, questo è il termine giusto.
La maschera del demonio sarà il film che consacrerà il genere in Italia e gli darà i natali una volta per tutte. Guardandolo oggi, per quanto sia visivamente lampante la senilità della pellicola, sarete catapultati in un mondo gotico e perverso, sentirete sulla pelle il marchio di Caino, l’avvicinarsi ad ampi passi dell’anatema. Diventerete ciò che non avreste mai voluto essere, e vi piacerà.
Percepitene le atmosfere, fruitene con mente attiva e reattiva, informatevi sul budget a disposizione e stupitevi di quello che una mente illuminata riesce a plasmare dal nulla.
Mario Bava era sì un regista, ma un regista factotum. Suo padre, Eugenio Bava, era direttore della fotografia e scenografo agli albori del cinema italiano e, come spesso succede, aveva l’abitudine di portarsi il figlio sul posto di lavoro.
È nei vari set in cui lavorò il padre che Mario Bava iniziò a prendere dimestichezza con gli aspetti tecnici della realizzazione di un film, e proprio questo sarà il bagaglio culturale che gli permetterà di diventare ciò che già era, citando Nietzsche. Un suo grande talento, forse il più grande di tutti, era quello degli effetti speciali.
Ne La maschera del demonio c’è una scena dove alla protagonista (una splendida e inimitabile Barbara Steele, ancora oggi regina indiscussa dell’horror gotico italiano) viene conficcata una maschera chiodata in faccia, e quando questa le verrà poi estratta rimarrà con tutti i fori dei chiodi sul viso niveo.
I fori, se guardate bene, sono fori verso il ‘fuori’ (concedetemi questo gioco di parole), come effettivamente accade quando un oggetto viene estratto da una superficie.
Una minuzia, un particolare che se fosse stato fatto in un altro modo, non sarebbe pesato a nessuno. Forse, nessuno se ne sarebbe neanche mai accorto.
Eppure, lui sì. Mario Bava ci faceva caso, a queste cose. Per lui era un’ossessione.
Lui voleva fare le cose come andavano fatte, pretendeva realismo nelle scenografie e surrealismo nelle atmosfere. Qualche decennio dopo, un certo Martin Scorsese (vi dice qualcosa?) dirà che fu proprio guardando i film di Mario Bava che capì l’importanza della messinscena.
Purtroppo, né La maschera del demonio né gli altri suoi film ebbero grande successo in patria, ma questa cosa fu controbilanciata dall’enorme successo all’estero: in particolare in Francia, in Spagna, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. L’impatto fu giganteo e profondo, influenzando la società in maniera netta. Alcuni esempi:
I tre volti della paura (1963) è un altro capolavoro baviano che ispirerà Wes Craven nel realizzare “Scream” (il regista statunitense prenderà in prestito anche alcune caratteristiche fisiche del serial killer di Sei donne per l’assassino (1964) dello stesso Bava per realizzare il suo iconico Freddy Krueger), Sleepy Hollow di Tim Burton (dove c’è un’intera sequenza a cavallo praticamente identica) e L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski.
Roba da niente, insomma.
Quando questo film uscì oltreoceano, venne distribuito col titolo Black Sabbath.
Penso possiate immaginare da soli chi visionò la pellicola e se ne fece influenzare per dare un nome alla propria band. Altrimenti, prendiamo il suo Diabolik (1968), ad oggi al 429 posto della lista dei migliori film di sempre redatta dalla rivista “Empire”.
È un film barocco, scenograficamente pomposo e allo stesso tempo cromaticamente bilanciatissimo. La cesura netta nelle pigmentazioni della fotografia, come accade in tutti i film di Bava, mescolata a scenografie futuriste costruite con niente, dà una particolarissima energia alla pellicola, talmente peculiare da volere essere fedelmente riprodotta dai Beastie Boys nel video di Body Movin’.
Inoltre, per questo film, Bava caccerà dal set Catherine Deneuve perché, a suo dire, “faceva troppo la diva”. La sostituirà con una splendida, seppur non altrettanto affascinante, Marisa Mell.
Insomma, potremmo parlare di Mario Bava per anni, forse per secoli, e trovare sempre qualcosa di nuovo.
Vi basti sapere tutti i generi che ha creato, o di cui è in un qualche modo precursore: l’horror gotico italiano con il già citato La maschera del demonio, il pulp con Cani Arrabbiati (1974), i film di fantascienza con Terrore nello spazio (1965) che, tra le altre cose, diventerà una delle principali fonti d’ispirazione per Ridley Scott nella realizzazione di Alien.
E poi ancora, creerà il giallo all’italiana con La ragazza che sapeva troppo, realizzerà uno dei primi western comici italiani con Roy Colt & Winchester Jack (1970) e, ad oggi, possiamo considerare i suoi Sei donne per l’assassino e Reazione a catena (1971) come veri e propri antesignani del cinema slasher; un sottogenere dell’horror in cui un assassino compie una mattanza, solitamente con un’arma da taglio e in una struttura chiusa.
In Sei donne per l’assassino, oltretutto, verrà configurato il cliché filmico dell’assassino con l’impermeabile nero e i guanti in pelle, il volto coperto e il cappello sulla testa.
In conclusione, c’è un ultimo regista che deve tutto, e fors’anche di più, a Mario Bava. Un regista che non ha mai fatto mistero di questa influenza e che l’ha citato fedelmente varie volte nelle sue opere: sua maestà Dario Argento, la cui filmografia (se non altro sino a Inferno) sembra l’appendice pop di quella di Bava.
L’influenza baviana in Dario Argento emerge chiaramente nella fotografia e nello sperimentalismo cromatico, oltre che in alcuni espedienti registici come lo zoom su un singolo occhio che spia da una fessura, il piano sequenza su alcune biglie di vetro che rotolano su una superficie piana e l’omicidio di una vittima affogandola a forza nella vasca da bagno. Guardate i film a colori di Mario Bava e poi guardatevi Suspiria di Dario Argento.
Ve ne accorgerete da soli.
Io, purtroppo per me, li ho già visti talmente tante volte da saperli a memoria e non mi resta quindi che parlarvene.
Di seguito il trailer di La maschera del demonio:
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