Titolo originale: Un borghese piccolo piccolo , uscita: 17-03-1977. Regista: Mario Monicelli.
Riflessione | Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli: decostruzione dell’italiano medio
17/05/2021 recensione film Un borghese piccolo piccolo di Marco Tedesco
Nel 1977 Alberto Sordi era l'irriconoscibile protagonista di un'opera feroce e spietata, basata sull'omonimo romanzo di Vincenzo Cerami
Fresco di diploma, il ragionier Mario Vivaldi (Vincenzo Crocitti) non sembra una cima: ha un’aria balorda e modi da ganzo. Ma Giovanni (Alberto Sordi), suo padre, ne va molto orgoglioso, e se lo mangia con gli occhi. Impiegato in un ministero romano, ormai alle soglie della pensione, spera che il figlio possa prendere il suo posto e far carriera. Se seguirà i suoi consigli, di fregarsene degli altri e pensare soltanto alla famiglia, Mario potrà sfondare nella vita, e finché babbo e mamma gli saranno vicini potrà dormire fra due guanciali.
Per farsi assumere al ministero c’è da superare il concorso? Niente paura: anche se Mario è un asino, grazie alle sue conoscenze papà è pronto a spianargli la strada. Persino a iscriversi alla massoneria, per ingraziosirsi il capoufficio che dovrà esaminargli il figliolo. Benché non sappia nulla di triangoli e trentatré, Giovanni infatti fa presto ad aggiornarsi e, chiedendone scusa a Dio, ad essere accolto tra i ‘fratelli’. Con l’effetto sperato: di venire a conoscere in gran segreto, prima dell’esame, il testo della prova, e di poter così contare sul successo del figlio.
“Gli altri non esistono” aveva detto il padre al figlio. Invece esistono. C’è per esempio una banda di delinquenti che proprio la mattina del concorsa rapina una banca, e c’è qualcuno che nella sparatoria lascia secco sull’asfalto il povero Mario. I sogni di casa Vivaldi si spezzano di colpo: la madre (Shelley Winters) è immobilizzata da una trombosi, a Giovanni si gela il sangue. Ma non tanto da aiutare la polizia dichiarando che fra i teppisti mostratigli in questura ha riconosciuto l’assassino del figlio. Da bravo burocrate, anziché affidarsi agli incerti meccanismi della giustizia, vuol fare vendetta da sé. Pedina il criminale con la sua automobile, al momento buono gli dà una mazzata col crick, e se lo porta in una baracca sul Tevere per torturarselo con tutta calma. L’assassino è coetaneo di Mario.
Straziandone il corpo Giovanni è spinto dall’odio, ma la sua agonia gli ricorda anche il figlio perduto. Trasporta la moglie paralitica e muta a vedere la preda, e gli si siede accanto a sbrigare la propria pratica di pensione. E’ come se lo introducesse nella tana della famiglia, e prolungasse nella ferocia l’animalesco egoismo che lo ha sempre guidato. Perciò piange e inveisce, quando anche quest’altro ragazzo gli muore, come non aveva fatto per il figlio. Nessuno si è accorto di nulla.
Seppellito l’assassino di Mario, Giovanni toma fra i colleghi d’ufficio che lo festeggiano per il pensionamento e gli regalano una medaglia. Tutti dicono di invidiarlo, ora che infine potrà godersi il meritato riposo, ma già l’indomani all’uomo muore la moglie (e nel discorso funebre un prete spietato si augura un nuovo Diluvio universale). Solo nella sua casa silenziosa, privo degli unici affetti che lo legavano alla vita, Giovanni che cosa farà?
Senza rimorsi, sembrerà in pace con se stesso, ma quando dopo qualche anno gli accadrà d’imbattersi in un altro giovinastro arrogante, prenderà, minaccioso a pedinarlo, come sempre al riparo della sua utilitaria. Perché questa è forse la sorte di ogni borghese piccolo piccolo: vendere l’anima in cambio d’un miserabile orgoglio, e se la speranza va tradita, riempire il proprio universo di lampi dì barbarie. Giovanni ha già fatto vendetta da solo, una volta. D’ora in poi sarà un’altra goccia nel fiume di veleno che assedia la città.
Restando quasi sempre molto fedeli (salvo nel finale) all’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami uscito l’anno prima, Sergio Amidei e Mario Monicelli nel 1977 scrivevano uno dei loro film più crudeli. Che lascia un po’ spiazzati per lo scarto fra una prima metà governata dal sorriso e la seconda tinta di tragedia (c’è forse troppo di programmato nel supporre che quel ruffiano travet possa trasformarsi in un sanguinario aguzzino), ma dove sono dipinti con forza inconsueta caratteri e atmosfere in cui si esprime un’immagine bieca dell’Italia del tempo.
In un arco che va dallo humor nero al sarcasmo, dalla satira civile all’allucinazione, Un borghese piccolo piccolo raduna un gran numero di motivi, e dà a quasi tutti sferzante risalto. C’è l’irrisione della burocrazia statale; c’è la caricatura dei cerimoniali massonici e della superstizione cattolica; c’è il tema della maternità protettiva e del paternalismo vanitoso e intrigante; poiché Giovanni ha fatto la Resistenza, c’è la polemica sui destini d’una generazione; c’è un richiamo all’aggressiva civiltà dell’automobile e alla presenza della cronaca nera nelle fantasie delle donne costrette in cucina; c’è il lamento sui falsi riti dell’amicizia; c’è soprattutto l’allarme destato dai cittadini che hanno perso fiducia nella giustizia e chiudono ogni emozione nel cerchio domestico.
E ci sono due gesti uguali: i colpi di pietra con cui all’inizio Giovanni rabbiosamente uccide un pesce, e i colpi di crick con cui stende l’assassino di suo figlio. Essi sono il punto di fusione dei vari elementi del film e ne sintetizzano la tesi: appunto la voluttà distruttiva contenuta nell’inconscio di un ceto sociale che cercando truci rivalse alle sue frustrazioni è, dietro lo schermo della famiglia, il supporto del fascismo quotidiano.
Venuto subito dopo Amici miei e Caro Michele, due opere altrettanto riuscite, Un borghese piccolo piccolo confermava come Mario Monicelli attraversasse uno stato di grazia. Senza sovrapporre le proprie idee a quelle di Vincenzo Cerami, trasferisce in immagini il romanzo portandone a galla molti umori segreti, esaltandone i valori drammatici; e raggiungendo in varie sequenze una forte significatività figurativa. Nella seconda metà ne forza un po’ lo stile dimesso caricandolo di modi espressionisti, ma in generale la sua messinscena è di classe. Basta avvertire quante sfumature di grigio essa accolga, quasi per dire l’odore di morte che sprigiona la storia, basta accertare la coerenza con cui il regista muove le sue pedine sui vari scacchieri.
Pur procedendo sul filo del rasoio, e riservandoci qualche ingrato tuffo al cuore (come nelle scene farsesche sull’iniziazione massonica), Un borghese piccolo piccolo spara dunque a raggera e lascia spesso il segno. Quando finisce, lo spettatore sensibile si ritrova diverso e turbato. Persuaso all’inizio d’essere in uno scherzo, scosso a metà dalla inattesa svolta drammatica, è entrato in un incubo che non lo abbandonerà tanto presto. Potrà discutere sulla metamorfosi del protagonista (se sia scusabile con la subitanea follia provocata dal dolore, o se quella follia sia già nel suo sistema di vita), ma gli sarà difficile sottrarlo al contesto storico-sociale che ha rovesciato il rapporto fra vittima e carnefice. Amidei, Monicelli e Alberto Sordi sono stati molto abili nel calare l’apologo nell’irrealtà del tempo.
Perché Un borghese piccolo piccolo era anche il film-scommessa dì Alberto Sordi, un possibile ‘tornante’ della sua carriera. Mai visto infatti un Sordi che come qui s’immedesimava con tanta convinzione in un personaggio molto rischioso. Dopo aver accentuato il satirico della prima parte nel timore di perdere il pubblico che voleva soprattutto divertirsi, l’attore raggiunge, via via che scivola nel tragico, una nuova, straordinaria efficacia. Aiutato da un trucco perfetto, egli costruisce con grande sicurezza, e un’ombra di autopsia, un carattere molto composito: ridicolo ma anche abietto, caritatevole e odioso, spregevole, e insieme degno di pietà. E si offre come un mostro che è un perfetto campione per l’analisi socio-psicologica della piccola borghesia impiegatizia.
Sebbene in più luoghi il romanzo di Vincenzo Cerami sembri scritto su misura per lui, ad Alberto Sordi andava il merito di esservisi riconosciuto col coraggio dell’artista che sapeva rinnovare con pieghe torve la sua maschera spassosa. I comprimari Shelley Winters e Romolo Valli non gli erano comunque da meno: l’una esprimendo con sobri tratti l’impotenza femminile, l’altro facendo del laido capufficio un altro .dei suoi piccoli capolavori. Vincenzo Crocitti è invece adeguato al ruolo dello sfortunato ragionierino, mentre Mario Vulpiani e Giancarlo Chiaramello sono rispettivamente gli autori della fotografia e delle musiche, elementi niente affatto secondari in un film che andrebbe rivisto a cadenza regolare per assaggiarvi attraverso le vostre reazioni, e – se necessario – per mettervi in cura.
Di seguito trovate il trailer di Un borghese piccolo piccolo:
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