Voto: 5/10 Titolo originale: The Bad Batch , uscita: 23-06-2017. Budget: $6,000,000. Regista: Ana Lily Amirpour.
The Bad Batch: la recensione del film diretto da Ana Lily Amirpour
26/06/2017 recensione film The Bad Batch di Alessandro Gamma
Jason Momoa, Suki Waterhouse e Keanu Reeves sono al centro di una distopia pop, in cui la patina di intellettualismo cela la vacuità dei contenuti
Visionaria regista britannica di origini iraniane, Ana Lily Amirpour si è costruita negli ultimi anni un’aura di intellettualismo e ha conquistato un certo successo, soprattutto presso la critica, con l’ottimo esordio A Girl Walks Home Alone at Night del 2014. Molto alte erano dunque le aspettative per il suo secondo lungometraggio, The Bad Batch, presentato in concordo alla 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2016 e che prometteva di combinare l’esistenzialismo del precedente lavoro a una produzione e un cast di star, quali Jason Momoa, Jim Carrey, Giovanni Ribisi e Keanu Reeves.
Purtroppo però, il risultato, forse complici anche le troppo elevate attese, è assai deludente, sebbene abbia conseguito il Premio Speciale della Giuria poiché “film americano che non scende a compromessi” e che non è “comune”. Viene tuttavia da interrogarsi se questa sia una motivazione bastante per affermare il valore di una pellicola …
Anzitutto la trama, o meglio l’abbozzato canovaccio, è un disorganico insieme di variegate suggestioni, un collage singolare di altrui idee tenute insieme da un risibile fil rouge, ossia le vicissitudini e l’infatuazione della protagonista Arlen (Suki Waterhouse) in una sorta di futuro post apocalittico, che pare un incrocio tra una declinazione hippy alla Mad Max e il meno ameno scenario di The Road di John Hillcoat.
In apertura troviamo la ragazza che errabonda in una steppa desolata e arida sotto il sole e si ferma a truccarsi in una macchina abbandonata in una zona che si rivela essere terreno di caccia di un gruppo di cannibali; perché abbia scelto proprio quel luogo per il maquillage quotidiano non c’è dato saperlo, è un vezzo stilistico come molti altri dettagli di cui è disseminato lo svolgimento, meglio non esser troppo puntigliosi.
Dunque la giovane preda è ovviamente catturata e trascinata a viva forza nel peculiare accampamento dei suoi rapitori, presentati come un gruppo di abbronzati culturisti che sollevano pesi sotto al sole, quasi rilettura distopica dei soggetti al centro di ‘Just What is it That Makes Today’s Homes so Different, so Appealing?’ di Richard Hamilton. La connotazione marcatamente pop è palese, tuttavia è la funzione ultima di tale scelta stilistica ad essere meno immediata, anzi, sembra solo essere un approccio estetico cool, senza alcuna pretesa di motivare oltre.
Passaggio, comunque sia, tra i più riusciti di The Bad Batch, alla sventurata preda vengono tagliate un braccio e una gamba mentre è ancora cosciente e messe a rosolare su una griglia, sequenza che fa ben sperare lo spettatore su futuri sviluppi piuttosto truci, ma è anche qui solo un frammento sconnesso, buttato lì ai fini della vacua spettacolarizzazione di una diegesi molto più scialba di quanto inizialmente vagheggiato.
Dunque Arlen riesce a scappare, si trascina a pancia in su strisciando su un carrello (trovata non malvagia) e viene salvata da un clochard del deserto (un Carrey irriconoscibile), che la porta nel centro abitato più vicino. Quivi giunge la seconda bizzarra distopia abitativa, ovvero una cittadina popolata da uno stuolo di festaioli in preda al perenne sballo, dove si susseguono dj set e la cui direzione è affidata a The Dream (Reeves discreto nella parte benché abbia poco spazio), che mantiene il controllo sulla comunità distribuendo ai suoi abitanti cannabis, pasticche e allucinogeni, è più affine al magnetico Guru di una setta californiana alla Holy Hell di William Allen (la recensione) che il capo di una comunità distopica. La raffigurazione di quest’ultima e del suo leader rimandano altresì immediatamente a Mad Max: Fury Road di George Miller, dacché anche qui il suddetto è il tenutario di un harem multietnico delle più belle teso al ripopolamento (senza contare che alla protagonista manca un braccio come a Furiosa …).
Le diverse configurazioni urbane, le differenti istantanee della vita nel futuro, sebbene stravaganti e non proprio approfonditi nei particolari, racchiudono però un qualche fascino e, per quanto non del tutto innovativi, hanno una loro inventiva. Il vero problema sopraggiunge poi, quando tali spot casuali devono essere ricongiunti da una narrazione che li tenga insieme, da una storia capace di avvincere e al contempo di dare un senso alle visioni delineate; è a questo punto che l’impalcatura crolla.
L’idea è quella di rappresentare una giovane donna libera e controcorrente, Arlen, che prende una scelta forte a discapito di tutto. Tuttavia, la protagonista, la cui psicologia è di per sé malamente caratterizzata, è ulteriormente afflitta dalla performance della Waterhouse, la quale si limita a un inespressivo e perenne broncio, che sicuramente non sprizza personalità e che risulta infine piuttosto fastidiosa.
Se le azioni di lei seguono poi una logica impenetrabile e parecchio uterina (non è possibile approfondire oltre senza svelare troppo del finale), la sua attrazione per il nerboruto Miami Man (Momoa), teneramente legato a una dolce bambina che la ragazza aiuta a ritrovare, è incomprensibile quanto bipolare, si passa dall’affermazione di odio al tentativo di fuga insieme; ad essere onesti non sarebbe stato chiaro che si trattasse di un qualche afflato romantico, se non fosse stato chiaramente indicato nella sinossi, in cui si parla di “storia d’amore distopica”.
L’errore probabilmente è stato di voler per forza giungere alla dimostrazione, cristallizzata nel finale, di una tesi ad effetto, pur encomiabile se fosse stata costruita una diegesi sensata e una evoluzione dei personaggi, almeno centrali, degna, ma in questo caso è solo gettata lì ex abrupto.
Specchietto per le allodole, quindi, l’intellettualismo minimalista imperante in The Bad Batch sembra celare il vuoto più che il genio, ammantando di una patina dorata l’assenza di una compiuta strutturazione della storia e del messaggio, che a una più attenta e critica analisi rivela tutta la sua vacuità.
Di seguito il trailer internazionale:
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