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Diario da Venezia 75 | Considerazioni finali: vincitori e vinti, il peso di Netflix e il futuro della critica

11/09/2018 recensione film di Giovanni Mottola

Un'altra Mostra del Cinema si chiude, lasciando immancabili - e superflue - polemiche ma offrendo soprattutto spunti di riflessione importanti sullo stato dell'industria italiana e sul pericoloso allontanamento della stampa dai gusti del pubblico

L’edizione numero settantacinque della Mostra del Cinema di Venezia è risultata di particolare interesse, non soltanto per la buona qualità complessiva delle opere presentate, ma ancor più per gli spunti di riflessione offerti circa le tendenze del cinema in senso stretto e di ciò che ad esso ruota attorno. Ve ne proponiamo alcuni, ben sapendo che se ne potrebbero trovare molti altri.

Le premiazioni

Limitandosi al concorso principale, che a differenza di quelli collaterali è sotto gli occhi anche di coloro che non erano presenti al Lido, si può notare che Guillermo del Toro, forse memore della semplicità che avevano usato i giurati del 2017 per premiare il suo La forma dell’acqua, ha ritenuto di adottarne altrettanta, guidando i suoi otto compagni di voto a scelte assennate e orientate a premiare i film da moltissimi ritenuti i migliori. Almeno per quanto riguarda i premi principali si registra quindi per il secondo anno consecutivo la voglia di risultare più vicini al gusto degli spettatori e mantenersi lontani da alcune astrusità tipiche di un passato non lontano. L’assegnazione del Leone d’Oro e dei due Leoni d’Argento (uno specificato come Miglior Regia, l’altro come Gran Premio della Giuria) rispettivamente a Roma di Alfonso Cuarón, The Sisters brothers di Jacques Audiard e La Favorita di Lanthimos (la nostra recensione) ha accontentato tutti, nonostante l’apprezzamento popolare maggiore fosse stato riservato al film tedesco Opera senza autore di Florian Henckel Von Donnersmarck, rimasto a bocca completamente asciutta.

Per quel che riguarda i premi “minori”, la saggezza della giuria è invece risultata talmente grande da sconfinare in opportunismo. In due direzioni distinte: da un lato, per la decisione di assegnare alcuni premi a chi forse li meritava meno di altri, ma poteva farsi forte di un nome più pesante, quasi fossero riconoscimenti alla carriera; dall’altro, per alcune scelte che sembrano legate a ragioni di politicamente corretto. Esempi del primo tipo sono il premio alla miglior sceneggiatura ai fratelli Coen per un film a episodi (cosa che di per sé indebolisce il concetto di sceneggiatura) che risulta tra i loro più fragili e comunque molto inferiore, in questo specifico aspetto, all’intelligente e spiritoso Double Vies di Assayas; nonché il premio per il miglior attore a William Dafoe per At eternity’s gate, un ritratto sui generis di Vincent Van Gogh piuttosto debole in cui l’attore, pur indubbiamente molto bravo, risulta spesso incolpevolmente fuori parte per via dell’età troppo avanzata (ha 63 anni, mentre il pittore morì a 37!). Anche in questo caso, c’era un’alternativa molto forte in John C. Reilly per la sua interpretazione in The Sisters Brothers. Il fatto che questo avrebbe comportato un duplice premio a un film molto buono ma non eccellente è un’obiezione valida, che la giuria ha però deciso di non considerare al momento di premiare Olivia Colman per La Favorita, raddoppiando così i riconoscimenti al film di Lanthimos. Quanto al politicamente corretto, difficile non vederne nella scelta di assegnare addirittura due premi (Premio speciale della Giuria e Coppa Mastroianni per il Miglior attore giovane a Baykali Ganambarr) a un film molto criticato come The Nightingale di Jennifer Kent (la nostra recensione). Facile invece pensare che abbiano influito il fatto che fosse l’unico film del concorso girato da una donna e che la stessa sia stata ignobilmente offesa (in sua assenza) da un cronista esagitato durante una proiezione riservata alla stampa.

Il cinema italiano

Se la Mostra veneziana è una vetrina per il cinema di tutto il mondo, dobbiamo concludere che il nostro negozio abbonda di prodotti di scarto sotto i quali si nasconde la poca merce di qualità che realizziamo. Sfogliando la rosa del concorso principale si potevano trovare tre registi italiani – Luca Guadagnino, Roberto Minervini e Mario Martone – ma solo il film di quest’ultimo era da classificarsi pienamente come tale: a parte il fatto di essersi avvalsi della collaborazione tecnica di qualche connazionale, sia Guadagnino che Minervini hanno infatti fatto ricorso a co-produzioni, dove il nostro Paese ha contato per una parte marginale. Si aggiunga che il cast di Suspiria è interamente straniero, mentre What you gonna do when the world’s on fire? è un documentario sull’America povera e scossa dal razzismo, dunque non vi comparivano attori o attrici italiani. Questi film avrebbero potuto anche essere capolavori (peraltro non lo sono …), ma resterebbe comunque il fatto che il principale festival italiano non ha sentito il bisogno di far sfilare sul tappeto rosso alcun nostro connazionale all’infuori dei succitati tre registi per mantenere alta la qualità. Non potendo trattarsi d’insensibilità o peggio di astio da parte di Alberto Barbera, dovrebbero farsi due domande tutti coloro che, a qualsiasi livello (legislativo, produttivo, organizzativo, accademico), hanno in mano le sorti del nostro cinema. Le cose non migliorano guardando ai film presentati nelle sezioni collaterali: Una storia senza nome di Roberto Andò è scolastico, La Profezia dell’Armadillo di Emanuele Scaringi è desolante (la nostra recensione), Ricordi? è ‘carino’ ma fa poco testo perché il suo autore, Valerio Mieli, è troppo discontinuo (il suo precedente e unico film, Dieci inverni, era del 2009) per essere preso come riferimento. Posto che il migliore visto, Sulla Mia Pelle di Alessio Cremonini (bella sorpresa la sua regia asciutta e senza retorica), è un film un po’ inopportuno perché tratta di una vicenda ancora calda e dunque è idoneo a suscitare soprattutto reazioni che nulla c’entrano col suo valore cinematografico, merita una segnalazione soltanto Il bene mio di Pippo Mezzapesa. Girato in economia nella Puglia da cui provengono sia il regista che l’interprete Sergio Rubini, è una commedia (il genere tipicamente nostro) lieve e affettuosa che testimonia il legame di chi l’ha fatto con la propria terra. Per la storia narrata sembra quasi la versione povera, ma assai dignitosa, del film che ha vinto il Leone d’oro. Malinconica però la rima che sottolinea come un cinema di grande tradizione che si aggrappa solo al giovane Pippo Mezzapesa assomiglia a una Nazionale quattro volte campione del mondo che si aggrappa solo al giovane Federico Chiesa. Che nonostante il nome non può fare miracoli.

Netflix

Al di là dell’assegnazione dei premi, si può notare un rafforzamento del legame tra la Mostra di Venezia e Netflix, specialmente dopo il rifiuto di Cannes di accogliere qualsiasi suo film. In generale, gli autori sembrano già sul punto di adeguarsi, almeno a vedere questo festival, realizzando film sempre più lunghi che cozzano contro le esigenze di chi gestisce le sale e si trova così costretto a diminuire il numero di proiezioni e di conseguenza a veder ridurre gl’incassi. Il rapporto di Venezia con Netflix è felice da un lato, perché se il cinema e i cineasti vanno in quella direzione sarebbe sciocco per un festival non voler adeguarsi e perché in questo modo Venezia ha potuto presentare un film meraviglioso come Roma e uno assai interessante come l’ultimo di Orson Welles, The other side of the wind, lasciato a metà e terminato grazie ai finanziamenti del colosso americano. Da un altro punto potrebbe essere controproducente, perché oggi Netflix, per lo meno in Italia, si trova in una situazione primordiale: poche persone sono abbonate e molte non sanno nemmeno cosa sia. Sarà difficile spiegare a questa seconda categoria per quale motivo non potranno andare a vedere nel cinema più vicino a casa il film che ha vinto il Leone d’Oro a Venezia ed è accompagnato da così tanti elogi da parte di chi ha potuto assistervi. Per non parlare della guerra che sono pronti a fare gli esercenti e alcuni cineasti che non vogliono nemmeno sentir parlare di queste forme di distribuzione. Il direttore Alberto Barbera ha quindi effettuato una scommessa coraggiosa e la giuria, senza forse nemmeno considerare la cosa, gliel’ha involontariamente avallata nel migliore dei modi premiando appunto il film di Alfonso Cuarón (che semplicemente era il film migliore). Ora bisogna vedere se passerà all’incasso: dipende da quanto piede Netflix riuscirà a prendere. Se poco, sarà stato un autogol. Se tanto, il festival di Venezia diventerà sempre più il centro europeo del mondo cinematografico.

Le tematiche

Passando ai contenuti dei singoli film, è curioso notare come la maggior parte di essi abbiano scelto di raccontare storie ambientate nel passato, più o meno recente. E’ il caso di tutti i film premiati, di quello tedesco tanto piaciuto al pubblico e di molti altri. Forse la selezione della Biennale ha voluto che lo spirito delle pellicole coincidesse con la personale celebrazione dell’anniversario del festival (75 anni), omaggiata anche dalla bella mostra fotografica all’Hotel Des Bains riaperto per l’occasione. Sarebbe una spiegazione suggestiva, ma anche casuale e superficiale. Quella giusta è difficile da trovare, anche considerando che ognuno fa il film che vuole e non si mette certo d’accordo con i colleghi allo scopo di accomunarsi nel raccontare il passato. Rimane però curioso notare il disinteresse o l’incapacità di raccontare il presente, forse perché noi stessi ci mettiamo quotidianamente in mostra con i social network e così, per quel che riguarda l’attualità, non resta più nulla da raccontare per chi deve fare il film e nulla di nuovo a cui interessarsi per chi deve guardarlo. L’aspetto più bizzarro per lo spettatore è stato quindi il trascorrere dieci giorni vedendo pellicole dove non compare né un telefonino né un computer, che sono ormai gli oggetti più assidui delle nostre vite quotidiane.

La critica

Da ultimo, sorge spontanea una riflessione sul ruolo della critica e sul suo rapporto con il pubblico. Tra le due categorie vi è sempre stato uno scollamento notevole, tanto che da molti anni i compilatori di dizionari cinematografici e gli estensori dei giudizi sui film appena usciti hanno preso l’abitudine di fornire la sintesi in stellette del parere di entrambe. Rispetto al passato però, la critica, pur fedele a un’ermeticità di fondo nei suoi giudizi, ha cambiato pelle. Un tempo chi scriveva di cinema, così come chi realizzava i film d’autore (per entrambi: salvo rare eccezioni), era schierato in difesa di quella sinistra della quale riproponeva tematiche e linguaggio. I critici che se ne astenevano finivano emarginati dai giri che contavano; gli autori bollati come cineasta di serie b, anche e soprattutto se trovavano le proprie soddisfazioni al botteghino. Che poi era spesso il destino di questi autori disimpegnati, più capaci di andare incontro, all’epoca con un’eleganza e uno stile oggi più rari, ai gusti di un popolo al quale importava poco, al momento di scegliere quale film guardare, di individuare quello dove dominasse il pensiero di sinistra. Oggi che la sinistra è praticamente sparita (e anche il pensiero in generale non se la passa tanto bene), la critica ha abbandonato la militanza politica per sostituirla con un’altra relativa all’aspetto tecnico dei film. I recensori sembrano aver mangiato volumi di tecnica cinematografica e pretendono sempre più spesso di spiegare a chi fa cinema di mestiere concetti come piano sequenza, uso del grandangolo, fotografia naturale.

Oggi il critico medio assomiglia sempre più al fanatico professor Guidobaldo Maria Riccardelli, che ossessionava il povero ragionier Ugo Fantozzi e l’ufficio tutto con il “montaggio analogico”, che i dipendenti fingevano per servilismo di apprezzare quando in realtà non capivano nemmeno cosa fosse. Queste considerazioni sorgono dalla comparazione tra i giudizi sui film proiettati al Lido: clamoroso il caso di Opera Senza Autore, considerato film quasi perfetto dal pubblico e mediocre dalla critica, ma ve ne sono parecchi stroncati da una categoria e apprezzati dall’altra. Bisogna peraltro considerare che il pubblico che frequenta i festival è fatto per lo più da studenti di cinema e da persone del settore – o comunque da gente che i reca spesso al cinema – e che in queste occasioni è disposta a guardare tre/quattro film al giorno. Questo genere di pubblico ha una conoscenza del cinema superiore alla media e sa valutare anche aspetti che ai più sfuggono. Se dunque non riescono ad essere in sintonia nemmeno con questo tipo di pubblico, i giornalisti dovrebbero riflettere su quanto poco riescano a comunicare con il lettore medio – che è lo scopo del loro mestiere – e su come finiscano quindi col parlarsi addosso, alla stregua di certi accademici incapaci d’insegnare. Con questo non si vuole certo dire che il pubblico abbia sempre ragione e che pur di andargli incontro si debba rinunciare ad analizzare un film nei suoi dettagli o applaudire anche le più becere commedie solo perché la gente in sala ride. Ci mancherebbe. Ma forse è il caso incontrarsi a metà strada, se si vuole evitare che la popolare arte del cinema si trasformi in un’aristocratica caccia alla volpe.

Di seguito il teaser trailer del film vincitore del Leone d’oro: