Voto: 7/10 Titolo originale: Il rosso segno della follia , uscita: 02-06-1970. Regista: Mario Bava.
Dossier: Il rosso segno della follia di Mario Bava, l’eleganza si fa giallo
09/12/2020 recensione film Il rosso segno della follia di Edoardo Saldarini
Nel 1970, Stephen Forsyth e Laura Betti erano i protagonisti di un film ancora attualissimo e dimenticato
Reduce dal modesto successo del film Diabolik (1967), cine-fumetto ispirato alle gesta dell’inafferrabile ladro creato dalle sorelle Giussani nel 1962 e 5 bambole per la luna d’agosto (1968), thriller “alla Agatha Christie” mai amato particolarmente dal suo autore, nel 1970 il regista Mario Bava tornava in sala, tra mille problemi di budget e distribuzione, con il suo sedicesimo lungometraggio ufficiale, Il rosso segno della follia.
INTRODUZIONE
Nel 1968 il regista sanremese Mario Bava, tra i padri fondatori del filone horror/thriller all’italiana, ha già alle spalle parecchi anni di esperienza nel mondo del cinema, ben quindici lungometraggi all’attivo, senza contare co-regie e altre collaborazioni varie. Il suo nome è ormai riconosciuto anche (e soprattutto) al di fuori della Penisola, tanto che in quello stesso anno viene contattato dal produttore cinematografico spagnolo Manuel Caño, che gli sottopone il soggetto di un nuovo film. Ha così inizio la travagliata lavorazione di una delle opere più singolari e al contempo rappresentative della poetica baviana, Il rosso segno della follia. Ma prima di andare avanti occorre fare un po’ d’ordine.
Troppo spesso parlando della sconfinata filmografia di Mario Bava ci si dimentica di citare Il rosso segno della follia tra le sue opere fondamentali. Questo capolavoro dimenticato, ingiustamente maltrattato dalla distribuzione internazionale nel corso degli anni, risulta ancora oggi attualissimo per molte trovate di trama e di regia ed è indubbiamente da considerarsi come uno dei migliori film mai girati da regista fino ad allora per originalità ed innovazione, ancora una volta, rispetto al cinema giallo italiano e non dell’epoca.
Il regista, a circa dieci anni dall’(ufficiale) esordio cinematografico (con l’indimenticabile La maschera del demonio, 1960), riconfermava la sua grande capacità di creare dei veri capolavori pur disponendo frequentemente di budget estremamente modesti.
Gli anni sessanta stanno volgendo al termine e la spinta propulsiva del genere gotico, prediletto da Bava e da molti altri registi iniziatori del genere nella Penisola (come l’amico Riccardo Freda, Antonio Margheriti o Camillo Mastrocinque, autori di diverse pellicole nel corso del decennio diventate poi pietre miliari del gotico italiano) si stava già affievolendo per lasciare spazio a qualcosa di più estremo, che rinunciava alle atmosfere fantastiche a favore di narrazioni più realistiche, dove le indagini tipiche del genere thriller si fondevano spesso con una componente più o meno horror (con particolare attenzione a dettagli sanguinari e truculenti), senza tuttavia quasi mai eccedere nell’onirico o nel surreale, e concentrandosi maggiormente sulla psicologia dell’assassino.
Di lì a poco infatti l’opera prima del regista Dario Argento, L’uccello dalle piume di cristallo (uscito in sala nel 1970, lo stesso anno de Il rosso segno della follia), darà uno scossone al panorama cinematografico dell’epoca pur riprendendo chiaramente molti stilemi dei precedenti film di Bava e riproponendoli in altri contesti e con altre modalità.
Dopo alcuni tentennamenti iniziali, il pubblico accolse favorevolmente l’esordio cinematografico di Argento, fatto generalmente mai accaduto con i film di Mario Bava, spesso criticati e accolti freddamente in patria. Il film farà da spartiacque nel panorama cinematografico italiano del periodo, polarizzando definitivamente l’attenzione di pubblico e critica sul giallo all’italiana. Da qui avrà inizio infatti una varia e florida produzione di opere di questo genere fino ai primi anni Ottanta. Mario Bava, regista con molti più anni di esperienza nel settore, si trovò così nel giro di poco tempo ad essere messo in disparte e a dover competere con diversi nuovi registi di genere e successivamente a dovergli cedere inevitabilmente il passo.
Il regista tuttavia non si perderà d’animo, girerà infatti ancora altri otto film – tra innovative sperimentazioni con altri generi e qualche buco nell’acqua – praticamente fino alla sua morte nel 1980, incoraggiato soprattutto dal figlio Lamberto, già suo operatore ed aiutante ed in seguito divenuto anch’egli un importante regista horror e fantasy (sono diretti da lui Macabro (1980), Demoni (1985), Le foto di Gioia (1987) e la serie tv di successo Fantaghirò (1991-1996)). Sfortunatamente, tra problemi di budget e distribuzione, gran parte dei titoli finirà nell’oblio fino alla prima metà degli anni duemila, quando il cinema di genere italiano verrà riconsiderato da una più ampia fetta di pubblico e di critica, e sarà riscoperto in patria grazie alla pubblicazione di opere letterarie e riviste dedicate e a nuove e più complete edizioni home video di vecchie pellicole.
Dopo questa lunga ma doverosa premessa, atta a contestualizzare Il rosso segno della follia nel periodo storico in cui è inserito, si può passare dunque all’analisi de Il rosso segno della follia, senza dimenticare i passaggi fondamentali che porteranno alla sua realizzazione.
PRIMA DELLE RIPRESE
Poco prima dell’inizio delle riprese, Mario Bava ricevette una telefonata dalla celebre attrice Laura Betti, allora fresca vincitrice della Coppa Volpi come Miglior Attrice al Ventinovesimo Festival del Cinema di Venezia per il film Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini. Betti, fino ad allora conosciuta al grande pubblico per i suoi ruoli “impegnati”, ricorderà il momento in un’intervista di Roberto Chiesi per la rivista “Cineforum” n. 437, dell’agosto-settembre 2004, poco prima della sua morte: “[…] Ero stata io a pescarlo [Bava, N.d.R.] dopo la Coppa Volpi […] Lui si è sentito molto lusingato, bene o male.
Mi piaceva molto il genere horror e Bava era un uomo molto simpatico. […] Lui aveva milletrecento espedienti, anche nell’altro film [Il rosso segno della follia, N.d.R.] dove interpretavo il ruolo del fantasma, si era sdraiato per terra, e muoveva la mano velocissima davanti all’obiettivo così sembrava che volassi …”.
Così Mario Bava, favorevole ad una partecipazione dell’attrice nel film, modificò sensibilmente la sceneggiatura di Il rosso segno della follia (scritta a quattro mani assieme a Santiago Moncada), inserendo nella storia il personaggio di Betti e rendendola di fatto molto più che una semplice comparsa. Così il ruolo dell’attrice Dagmar Lassander, all’epoca fidanzata col produttore Caño, venne visibilmente ridimensionato, rendendola di fatto un personaggio sì importante ai fini della storia, ma praticamente di contorno. Questo fatto generò diversi contrasti tra l’attrice e Bava e Betti sul set.
LA LAVORAZIONE
Una volta ultimata la sceneggiatura, Il rosso segno della follia entrò in fase di lavorazione. Le prime riprese del film (dal titolo provvisorio “Un’accetta per la luna di miele”, tradotto letteralmente per il mercato estero) ebbero inizio tra settembre e ottobre 1968 in Spagna, nei pressi della città di Barcellona, inizialmente nella villa appartenuta al dittatore Francisco Franco (dove la troupe rimase per breve tempo a causa di diverse complicazioni) e successivamente al Palazzo Reale di Pedralbes, sempre nei pressi del capoluogo catalano.
Dopo aver girato delle brevi sequenze in studio per alcuni mesi, la troupe si spostò in Italia, per eseguire le riprese degli interni della villa dove si svolgono gran parte delle vicende narrate nel film (Villa Parisi, situata a Monte Porzio Catone, Roma), location utilizzata tuttora in varie altre pellicole italiane e non).
Verso la fine delle riprese, il produttore Caño decise, per dare al film un sapore più “internazionale” e venderlo meglio all’estero, di spostare l’ambientazione della storia a Parigi, dove venne spedita una seconda unità di regia, capitanata dal figlio di Bava, Lamberto, ad eseguire alcune riprese nella capitale francese, che tuttavia a causa del budget agli sgoccioli e del conseguente rifiuto di Stephen Forsyth, protagonista della pellicola, di recitare senza esser prima retribuito (venne infatti sostituito in una breve scena da una controfigura) vennero mantenuti pochi secondi a film completato.
La spedizione a Parigi tuttavia esaurì definitivamente il budget a disposizione della produzione, così la lavorazione venne sospesa e Bava ne approfittò per iniziare le riprese per un suo film successivo, Quante volte… quella notte, prodotto da Alfredo Leone e uscito nel 1972. Una volta ultimato anch’esso, Bava sottopose la sceneggiatura de Il rosso segno della follia al produttore Leone, che tuttavia rifiutò di produrlo in quanto rimase poco impressionato dalla storia. Nel frattempo il produttore Manuel Caño riuscì a raccogliere i fondi necessari per ultimare Il rosso segno della follia, così Mario Bava poté finalmente riprendere le riprese, che terminarono ad ottobre 1969.
La produzione affiderà il compito di comporre la colonna sonora al maestro Sante Maria Romitelli, capace di creare un tema armonioso che tornerà spesso nel film, a volte persino accompagnando scene di violenza, con le quali creerà un singolare contrasto. La colonna sonora si muove tra classiche composizioni d’orchestra e brevi parentesi jazz e rock.
I PERSONAGGI
Il rosso segno della follia inizia mostrando il volto dell’assassino in azione sin dai primi secondi, espediente non inedito nella filmografia di Mario Bava, ma all’epoca non comune e considerato assoluto tabù nei libri tanto quanto nei film gialli.
Subito dopo il primo omicidio, l’assassino si presenta come John Harrington e guida lo spettatore nei meandri della sua contorta mente, riconoscendosi fin da subito come un maniaco paranoico. Si scopre essere il proprietario di una rinomata casa di moda di vestiti da sposa ereditata dalla madre e che al momento si è già macchiato dell’assassinio di ben sette donne, modelle del suo atelier, tre delle quali uccise la notte del loro matrimonio.
Questa strana ossessione lo porta a compiere gli efferati omicidi con una lucente mannaia e, subito dopo aver compiuto il delitto, a rivedere sempre più chiaramente una inspiegabile visione che lo tormenta da diverso tempo e in cui sente una donna chiamare il suo nome. Ogni volta, appena prima di compiere il misfatto, John vede apparire nelle vicinanze un bambino che lo osserva con occhi tristi.
Harrington è sposato con la fredda consorte Mildred (Betti), vedova del primo marito e assidua frequentatrice di sedute spiritiche. Mildred incolpa John di essere un buono a nulla e respinge con forza qualunque tentativo del giovane marito a convincerla a concedergli il divorzio, in quanto questo la allontanerebbe dalla casa di moda a cui ha contribuito sensibilmente a risollevarne le sorti di tasca propria.
Le cose cambiano quando un giorno John fa la conoscenza di una nuova modella di nome Helen Wood (Lassander), che si dimostra fin da subito attratta da lui. Helen è la prima donna con cui John svilupperà un rapporto di vero e profondo amore (pur dando sfogo al suo lato da dongiovanni con altre donne molto spesso, nel corso del film), ma non si immagina quanto questa sua debolezza potrebbe costargli caro.
Harrington è tenuto costantemente d’occhio dal sospettoso ispettore Russel (Jesus Puente), palesemente convinto che l’uomo sia il sanguinario omicida, e in attesa di un suo minimo passo falso per arrestarlo.
Curioso notare come, mentre nella versione doppiata in inglese di Il rosso segno della follia i personaggi facciano intendere chiaramente di trovarsi a Parigi, nella versione italiana si è scelto di ambientare la storia a Londra, nonostante in diverse scene si possano notare chiaramente monumenti caratteristici della capitale francese, come la Torre Eiffel e, anche se per pochi secondi, una facciata laterale della celebre cattedrale di Notre-Dame.
Questa bizzarra scelta è dovuta probabilmente al fatto – altrettanto curioso, peraltro – che tutti i personaggi possiedono nomi anglofoni. In ogni caso questo aspetto – ricercato o meno dal regista non è dato saperlo – che ad una prima analisi potrebbe passare inosservato, contribuisce ad alimentare nello spettatore la sensazione di straniamento che permea durante tutta la durata del film. Uno stratagemma simile – anche se estremamente esasperato – verrà utilizzato anni dopo sempre dal regista Dario Argento, che arriverà addirittura ad ambientare diverse pellicole in ambienti urbani non precisati, frutto di ricercate riprese effettuate in luoghi sempre diversi della Penisola e non, e fondendoli in un unico, immaginario agglomerato.
I DELITTI
Seguendo istante per istante la vita di John Harrington nel corso del film, si nota che non utilizza sempre lo stesso metodo per uccidere le sue vittime. Secondo il suo pensiero una donna dovrebbe amare solo una volta nella vita, ovvero durante la sua prima notte di nozze. John uccide in base a questa sua ferma convinzione anche se, come si vedrà in seguito, riuscirà ad infrangerla. Si scoprirà infatti dalle parole dell’ispettore Russel che alcune donne sono state uccise poco prima di sposarsi, e questo particolare dovrebbe suggerire quanto lo stesso John sia mentalmente instabile e confuso persino nelle sue affermazioni, tanto da non rendersi conto di contraddirsi ripetutamente infrangendo più volte il suo unico comandamento, mosso com’è dalla voglia di scoprire la verità riguardo alla visione che lo tormenta.
Una svolta importante viene data alla storia quando John, stanco delle continue angherie della moglie Mildred che non lo perde di vista un attimo, decide di ucciderla. Fingendo di scusarsi con lei subito dopo un furioso litigio, John convince la donna di amarla di nuovo. Curioso notare che nel momento in cui John finge, Mildred si dimostra sinceramente interessata e, distratta dalle parole d’amore del marito, abbassa la guardia fornendo così un pretesto al folle consorte per allontanarsi e andare a recuperare la sua mannaia.
Avviene così uno scambio di ruoli: al suo ritorno John è truccato da donna e indossa un velo da sposa; questo perché, essendo egli “obbligato”, secondo il suo modus operandi, ad uccidere solamente donne vestite da sposa, deve ricreare in qualche modo la situazione necessaria affinché lui possa uccidere. Ma perché proprio questa singolare scelta di abbigliamento?
Probabilmente perché ai suoi occhi stavolta il carnefice non è più lui ma la moglie, che lo ha sempre trattato con freddezza e che non lo hai mai ritenuto all’altezza di essere un vero marito e tantomeno del suo primo (defunto) consorte, mentre lui deve in qualche modo interpretare il ruolo della vittima, capovolgendo e stravolgendo la situazione in quanto stavolta sarà la “vittima” ad uccidere il “carnefice” e non viceversa.
E se un piccolo assaggio di soprannaturale è stato dato nella breve scena della seduta spiritica ad inizio film – in cui Mildred ripete a John le stesse parole che lui sente nelle sue visioni – qui ha inizio il vero viraggio nel surreale: lo spirito della moglie si manifesterà ancora agli occhi del marito, recitando come un mantra la frase “Staremo sempre insieme” che gli ripeteva puntualmente anche da viva.
Gli promette che non si libererà mai di lei neanche da morta, e per vendicarsi del suo assassinio da quel momento si farà vedere dagli altri ma non da lui. Harrington tenterà di tutto per liberarsi dello spettro della moglie: ne dissotterrerà la salma che aveva sepolto nella serra e la brucerà nell’inceneritore – dove peraltro ha già cremato svariate altre sue vittime – e metterà le sue ceneri in una borsa che puntualmente gli ricomparirà sempre davanti in qualche modo, nonostante i suoi continui tentativi di liberarsene.
Lo scambio di cui si è parlato poco prima potrebbe anche essere sottovalutato ad una prima visione, ma gioca in realtà un ruolo fondamentale anche in seguito nella storia, in quanto destabilizzerà ulteriormente la già instabile salute mentale di Harrington che, oltre a doversi fronteggiare con i continui sberleffi dello spettro della moglie che puntualmente ricomparirà per deriderlo, sarà sempre più provato e confuso di prima nel procedere del film, tanto che fallisce nel tentativo di uccidere una giovane conoscente in procinto di sposarsi, sfuggendo per poco alla Polizia.
Dopo questo episodio sarà Helen, nascostasi in casa di Harrington a sua insaputa, a fornirgli un falso alibi informando gli inquirenti, accorsi alla villa, di essere stata in sua compagnia tutta la notte. La maschera spavalda e antipatica dell’uomo piacente e benestante all’inizio del film – aspetto reso, tra l’altro, alla perfezione dall’attore Stephen Forsyth fin dalla prima inquadratura – è caduta: si assiste ora al disfacimento mentale di un ormai insicuro John Harrington che, ormai allo stremo, avverte Helen di scappare via. La ragazza non lo ascolta, permettendo così all’omicida di recuperare a fatica le forze per ucciderla. Alla fine si scoprirà che John non riuscirà nemmeno a compiere quest’ultimo delitto, forse mosso dal sincero sentimento che prova per la donna.
Così, il significato della visione che tormenta Harrington dall’inizio del film è finalmente svelato: si tratta di un suo ricordo traumatico che ha probabilmente cercato di rimuovere nel corso degli anni, in cui rivede sé stesso da bambino dopo aver colpito ripetutamente a morte la madre con una mannaia (e che chiama il suo nome agonizzante sul pavimento), colpevole di essersi appena sposata per la seconda volta con un altro uomo (anch’egli appena ucciso dal piccolo John) dopo la morte del primo marito, da qui è spiegata la convinzione di Harrington in quanto una donna dovrebbe amare solo una volta nella vita, la prima notte di nozze. La Polizia interviene in tempo, è la fine dell’incubo. Anche per Helen, che si scoprirà essere un’agente infiltrata mandata a seguire da vicino le mosse di John.
Il finale di Il rosso segno della follia, contemporaneamente ironico e amarissimo, mostra la Polizia che arresta l’uomo e lo carica su una camionetta sulla quale, senza alcun apparente motivo, viene caricata anche la borsa con le ceneri della defunta Mildred, che ricomparirà nuovamente agli occhi del marito, dicendogli che da quel momento in poi solo lui la potrà vedere, per il resto dei suoi giorni. Harrington, disperato e fuori di sé, cerca di scappare dal veicolo in corsa, ma mentre gli agenti tentano di calmarlo, guarda fuori dal finestrino e vede se stesso da bambino che lo osserva allontanarsi, con aria rassegnata.
STILEMI TIPICI
Questo film è intriso della tipica poetica baviana, in particolar modo per la presenza del consueto messaggio di critica sociale: anche in questa storia il carnefice è un uomo ricco e avvenente, schiavo dei suoi vizi e che uccide solamente per placarli e soddisfarli. Non mostra alcuna emozione quando uccide le sue vittime, è completamente disinteressato alla morte di chiunque, non si scompone mai dopo aver commesso il delitto, talmente è sicuro di sé. Le persone comuni sono pedine nelle sue mani, ai suoi occhi non hanno nessun valore.
Le può comprare e comandare a bacchetta quando gli pare e piace grazie ai suoi soldi e alla sua immagine. E come tutti gli uomini di potere, anche John Harrington non accetta un no come risposta: nell’ultima parte di Il rosso segno della follia, in cui si assiste al suo declino psichico, la scena in cui una donna rifiuta le sue avances e lo respinge, facendolo poi buttare fuori dal locale in cui si trovava, rappresenta perfettamente il fatto che l’odioso protagonista non riesce più ad ottenere quello che vuole, tutto il male che ha causato gli si sta lentamente ritorcendo contro. In un certo senso, è l’inizio della rivincita di tutte le sue vittime.
Il rosso segno della follia è pregno della proverbiale e sottile ironia – molto hitchcockiana – di Mario Bava, presente in diversi suoi film: ne sono un esempio scene come la transizione in cui John brucia una vittima e la moglie la mattina dopo dice di sentire odore di bruciato (si rivelerà poi essere il toast lasciato troppo tempo a scaldare); oppure quando, subito dopo una delle frequenti visioni di John, la telecamera ci mostra l’uomo nuovamente alle prese con la sua colazione, intento ad aprire un uovo alla coque dandogli un secco colpo di coltello e facendo uscire copiosamente il tuorlo, come se stesse sferrando un colpo sulla testa di una sua vittima con la mannaia. E come potrebbero non risultare un minimo ironiche anche le scene in cui John prova in tutti i modi a liberarsi della fastidiosa presenza dello spettro della moglie, che puntualmente tornerà a tormentarlo, persino nel finale?
Degna di nota anche la scena in cui Harrington si salva per l’ennesima volta dall’ispettore Russel che, giunto a casa sua con il fidanzato di Alice, la sua seconda vittima dall’inizio del film, fornisce spiegazioni riguardo un urlo che i due hanno sentito avvicinandosi alla villa (emesso pochi istanti prima dalla disperata Mildred quando il marito la colpisce a morte sulle scale) semplicemente accendendo la televisione, che in quel momento sta trasmettendo un horror che si rivelerà essere l’episodio “I Wurdulak” de I tre volti della paura, film a episodi diretto proprio da Mario Bava nel 1963.
EFFETTI
Essendo il budget de Il rosso segno della follia piuttosto esiguo, Mario Bava non poté avvalersi dei creativi effetti speciali “marchio di fabbrica” del suo cinema, optando per soluzioni molto più semplici ed economiche che utilizzerà ancora nei film immediatamente successivi: la tecnica delle riprese sfocate che fanno da transizione tra una scena e l’altra, qui usata saltuariamente, tornerà infatti, esasperata, nel film Reazione a catena (1971), ed è utilizzata magnificamente durante la prima manifestazione del fantasma di Mildred agli occhi del marito: il regista riprende il personaggio di Laura Betti in lontananza, che passa in pochi secondi – grazie all’ausilio di opportune lenti per la macchina da presa – dall’essere una massa di colori informi parecchio sfocata ad una figura umana perfettamente distinguibile mentre si avvicina allo sbalordito marito, rendendo alla perfezione agli occhi dello spettatore l’idea dell’”apparizione”.
PROBLEMI DI DISTRIBUZIONE
Il rosso segno della follia venne distribuito in Italia (2 giugno 1970) e in Spagna (14 settembre 1970) dalla Metro-Goldwyn-Mayer, mentre approderà nel Regno Unito solamente nel 1973, e negli Stati Uniti l’anno successivo, grazie a piccole case di distribuzione. Eccezion fatta per la Spagna, negli altri paesi non ebbe un buon successo, e il film finì così nell’oblio per parecchio tempo e conoscerà una prima edizione home video in Italia solamente a fine anni 2000, di ottima qualità ma purtroppo priva del doppiaggio originale, ad oggi irreperibile e rimpiazzato da uno rifatto in tempi recenti.
In conclusione, Il rosso segno della follia è un film da riscoprire e rivalutare, uno di quei (moltissimi) titoli ingiustamente bistrattati della sconfinata filmografia di Mario Bava che nasconde molto di più dietro ad un’apparentemente banale messinscena e capace senza dubbio di reggere il confronto con i capolavori maggiormente noti del regista.
Di seguito il trailer internazionale di Il Rosso Segno della Follia:
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