Voto: 6.5/10 Titolo originale: Waxwork , uscita: 17-06-1988. Budget: $3,000,000. Regista: Anthony Hickox.
Dossier: Waxwork (1988), i cari vecchi mostri del museo delle cere di David Warner
28/07/2022 recensione film Waxwork - Benvenuti al museo delle cere di Francesco Chello
Ricordiamo il bravo attore britannico recentemente scomparso attraverso il film scritto e diretto da Anthony Hickox. Un piacevole omaggio al cinema horror classico portato in scena con ironia e piglio grandguignolesco, al netto di una trama ingenua su cui soprassedere grazie all’atmosfera tipica di quel decennio.
Lo scorso 24 luglio si è spento David Warner. Bravo attore britannico con un curriculum lungo e variegato che include una nutrita serie di partecipazioni in quel cinema di genere che tanto amiamo. Una bella fetta di carriera che da queste parti diventa un valore aggiunto. Nato a Manchester nel 1941, unico figlio in una famiglia disfunzionale, sembra non avere particolare predisposizione per lo studio o lo sport. Finché non scopre il teatro, che inizialmente vede come semplice via di fuga da un’infanzia incasinata. E che si trasforma presto in strada della vita, quando entra prima nella Royal Academic of Dramatic Art di Londra e poi nella Royal Shakespeare Company.
Artista versatile, capace di districarsi tra cinema, tv e teatro. Proprio il background teatrale anziché limitare le sue scelte in maniera elitaria, gli permette di approcciare con successo altri media ed altri generi che lo assorbiranno nel corso degli anni, trasformandolo in affidabilissimo caratterista nel senso più nobile del termine, di quelli che forniscono un apporto prezioso al film a cui partecipano.
La voce profonda e vellutata, la statura importante (quasi 190 cm d’altezza), lo sguardo apparentemente sornione, il ghigno beffardo, un pizzico di sana follia. Una serie di caratteristiche che lo hanno portato spesso ad interpretare ruoli da cattivo, sinistri o comunque eccentrici. Oltre che a lavorare con grandi registi, da Sam Peckinpah (ben 3 volte) a John Carpenter (una volta e mezza), passando per Terry Gilliam, Richard Donner o James Cameron, che nel 1997 gli offre un ruolo (che molti ricordano) nel suo Titanic in omaggio a S.O.S Titanic del 1979, in cui David Warner era uno dei protagonisti.
Senza dimenticare Wes Craven che pensa a lui nientemeno che per l’iconico ruolo di Freddy Krueger, che Warner dovrà rifiutare per impegni sovrapposti, attendendo Scream 2 per lavorare finalmente col regista americano. Prende parte ad uno dei migliori film della Amicus, La Bottega che vendeva la Morte (From Beyond the Grave, 1973), horror a episodi in cui compaiono Peter Cushing e Donald Pleasance che in qualche modo lo battezzano al genere.
Non disdegna la tv, con partecipazioni in serie di culto come Doctor Who, Twin Peaks o Star Trek. L’universo trekker, in particolare, gli permette di mettere a segno una partecipazione multipla (e transmediale) in ruoli e razze differenti: nel film Star Trek V – L’Ultima Frontiera (1989) interpreta un umano, è un klingon invece in Star Trek VI – Rotta Verso l’Ignoto (1991), mentre nella serie televisiva Star Trek: The Next Generation indossa i panni (ed il trucco) di un cardassiano: ho amato il suo Gul Madred, nel bellissimo doppio episodio Il Peso del Comando (Chain of Command, sesta stagione), in cui tortura psicofisicamente Picard.
Così come da tartafan ricordo con simpatia il suo professor Jordan Perry in Tartarughe Ninja II: Il Segreto di Ooze del 1991. Chiaramente sto pensando ad alta voce, a buttare giù un elenco ci avevano già pensato i miei colleghi un paio di giorni fa (la notizia).
Del resto, è basandomi sul concetto dei ricordi che ho scelto il titolo attraverso il quale omaggiare David Warner. Mi riferisco a Waxwork – Benvenuti al museo delle cere, del 1988. Un piccolo simpatico horror che chi, come me, in quegli anni era ragazzino, ricorda con gli occhi di quella nostalgia che ti fa andare oltre le sue imperfezioni. Perché è evidente che Warner abbia roba più grossa sul curriculum, ma sono altrettanto certo che chiacchierare di Waxwork farà piacere a più di uno di voi.
Il film è scritto e diretto dal britannico Anthony Hickox, al suo esordio assoluto – arrivato quasi per caso, durante un viaggio a Los Angeles si schianta contro l’auto del produttore Staffan Ahrenberg che era alla ricerca di una sceneggiatura da produrre. Figlio d’arte, suo padre Douglas (morto proprio nel 1988) era anch’egli regista mentre la madre, Anne V. Coates, montatrice e premio Oscar nel 1963 con Lawrence D’Arabia.
Anthony ha una grande passione per l’horror a cui contribuirà con titoli come Hellraiser III o Warlock II, oltre naturalmente a Waxwork ed il suo sequel, prima di farsi risucchiare dalle produzioni televisive. Una passione che viene certificata dalla dedica finale sui titoli di coda che include Hammer, Argento, Romero, Landis, Spielberg, Wells, Carpenter (e mamma e papà), oltre che dallo spunto che accende l’idea alla base di Waxwork.
In sostanza, quella che si pone come variazione sul tema del Museo delle Cere, non è altro che un escamotage per portare in scena un film a episodi camuffato da storia unica. Un racconto che ricorre ad esoterismo ed anime vendute al Diavolo, in cui le varie sezioni del museo fungono da portale verso una realtà che prende spaventosamente vita nel momento in cui viene oltrepassato il confine. E’ così che i malcapitati di turno dovranno fronteggiare, a seconda dei casi, licantropi, vampiri, mummie o zombie.
Anthony Hickox dichiarerà di aver scritto la sceneggiatura in appena tre giorni, e non è difficile credergli guardando il film. Un ingenuo filo di trama young, utile a collegare le varie scenette dell’orrore. La sensazione è che il regista morisse dalla voglia di omaggiare figure iconiche dell’horror classico, trovando così il modo per evitare di sceglierne solo una in particolare ma piuttosto costruire un calderone che potesse contenere più esponenti orrorifici.
Brevi segmenti (che, appunto, in altre circostanze sarebbero stati proposti come veri e propri episodi) contraddistinti dalla specifica tematica e dalla sua ambientazione ogni volta differente. Il punto in comune tra questi spezzoni, oltre naturalmente alla questione del museo delle cere che ospita (e porta in vita) i vari avvenimenti, è quello che poi si rivela il punto di forza di Waxwork: l’insospettabile livello di violenza, splatter e trasformazioni varie frutto di graditissimi effetti animatronici, prostetici e make-up vecchia scuola, merito dell’impegno di Bob Keen che lavora agli special effects la bellezza di 18 ore al giorno per circa otto settimane.
Una baita nel bosco ospita l’episodio di un lupo mannaro dal look joedantesco, inizialmente sembra mancare la scena della trasformazione, quando invece il morphing viene riservato a un altro personaggio e si va ad aggiungere ad una persona squartata in due (interpretata dal fratello di Hickox). Il secondo segmento si muove in ambito vampiresco con Miles O’Keefe nei panni di Dracula, una cena nobiliare a base di carne umana (che in realtà è un mix di rabarbaro, anguria e fragole) è il preludio ad un bagno di sangue che nonostante i tagli chiesti dalla MPAA include un tizio con una gamba scarnificata, una testa che esplode, vampiresse infilzate (anche da bottiglie di champagne), momenti di melting.
La terza è la volta di una mummia dall’aspetto suggestivo che risorge dal sarcofago per schiacciare un cranio e trafiggere persone sulle note de Il Lago dei Cigni di Tchaikovsky che era presente nella soundtrack de La Mummia del 1932, oltre che in Dracula del 1931 (e la sua versione spagnola) ed altri horror come Il Dottor Miracolo (Murders in Rue Morgue) del 1932.
Lo spezzone che mi ha convinto meno è quello su cui paradossalmente si insiste di più (ci si ritorna in doppia battuta), ovvero quello del Marchese de Sade, poco splatter e un personaggio meno riuscito che avrebbe fatto meglio a lasciare il suo spazio a qualche altro celebre mostro classico.
Il quinto, invece, è quello che lascia col rimpianto: il protagonista finisce nel mezzo di una notte dei morti viventi, proprio quella di George Romero a giudicare da un bianco e nero che ne esplicita l’omaggio (sebbene appaia un po’ decontestualizzato rispetto al resto del film); l’atmosfera è creepy il giusto, così come gli zombie si presentano con look e movenze accattivanti, peccato che la situazione (girata in una sola notte in quel Griffith Park già location degli esterni della scena del licantropo) duri talmente poco da non avere il tempo di vederli banchettare.
Tra le statue di cera compaiono anche l’Uomo Invisibile, Jack lo Squartatore, un prete voodoo, un baccello de L’Invasione degli Ultracorpi (1956), un bambino demoniaco (da Baby Killer, 1974), una creatura aliena, un uomo cobra, Mr. Hyde, un Golem ed il mostro di Frankenstein, impersonato (senza essere accreditato) da Kane Hodder, che lavorava al film come stuntman.
Anthony Hickox aveva pensato anche ad altri personaggi horror poi scartati per questioni legali legate ai diritti di sfruttamento, come Jason Voorhees, i bambini de Il Villaggio dei Dannati o La Cosa. La scenografia del museo si presta al gioco a cui partecipano i due pittoreschi maggiordomi, un nano (Mihaly ‘Michu’ Meszaros, che era comparso sulla copertina di Strange Days, storico album dei Doors) ed un energumeno che ricorda Lurch della Famiglia Addams (nello script originale era chiamato così, poi cambiato sempre per ragioni di copyright); la casa nella scena d’apertura era già stata utilizzata in Willard e i Topi (1971) e Spiritika (Witchboard, 1986).
Veniamo al focus del nostro pezzo, quel David Warner a cui, manco a dirlo, viene affidato il ruolo chiave di Waxwork. L’inglese interpreta Lincoln, inizialmente luciferino cicerone di un museo di cui si scoprirà essere proprietario. E’ lui ad aver venduto l’anima al Diavolo, il museo è il mezzo attraverso il quale perpetrare quei sacrifici umani necessari a mettere in moto la fine del mondo.
Ruolo che ovviamente Warner porta a casa ad occhi chiusi, a metà tra l’ironico e il diabolico, nella prima parte compare in due o tre occasioni ben gestite (tipo quando pronuncia una metabattutina sul fatto che fanno film su qualsiasi cosa o quando spegne una sigaretta di un ospite nella propria mano) per poi prendersi la scena nell’atto finale quando il museo si trasforma in una corale e delirante zuffa di mostri (ridimensionata rispetto ai piani iniziali a causa della fine del budget).
Fa specie pensare che David Warner ha completato le sue scene in appena due o tre giorni, a causa di un’agenda di lavoro molto fitta. Il volto noto del cast giovanile è quello di Zach Gallighan – protagonista che non brilla particolarmente, che stava cercando di costruirsi una carriera all’altezza di Gremlins (la recensione) senza però riuscirci; oltre al cult di Joe Dante (ed il suo sequel) che gioca un campionato a sé, è proprio Waxwork il titolo più noto tra quelli che restano sul suo curriculum, in seguito lavorerà con Anthony Hickox altre due volte (Waxwork II e Warlock II).
Deborah Foreman è la co-protagonista, al tempo aveva una relazione col regista la cui fine burrascosa le precluderà il ritorno nel sequel in cui viene sostituita da Monika Schnarre. Patrick McNee interpreta Sir Wilfred, l’antagonista di Lincoln che si sacrifica (perdendo – letteralmente – la testa) per la causa, ruolo per cui erano stati sondati Michael Gough, Christopher Lee, Peter Cushing e Donald Pleasance.
Prodotto dalla Vestron Pictures (che inizialmente aveva rifiutato il progetto come diversi altri studios) con un budget di 3 milioni di dollari, esordisce nelle sale statunitensi a giugno del 1988. In Italia ci arriva esattamente un anno dopo con l’immancabile titolo scemo Illusione Infernale, salvo poi tornare fortunatamente Waxwork (col sottotitolo ‘Benvenuti al Museo delle Cere’) nelle distribuzioni successive, inclusa quella in dvd targato Eagle Pictures al momento fuori catalogo e non facilissimo da reperire.
L’incasso in sala non è entusiasmante, poco più di 800 mila dollari che porterebbero il film in perdita se non fosse per l’home video che nella ‘golden age’ del videonoleggio (anche grazie ad una locandina fighissima) ne decreta la resurrezione che, non a caso, conduce al sequel già menzionato a cui una rediviva mano mozzata aveva lasciato una porta aperta sul finale del primo film.
Waxwork II: Lost in Time (da noi Waxwork 2 – Bentornati al Museo delle Cere) viene rilasciato nel 1992, ma non ne parleremo adesso. Anche perché nel seguito non c’è David Warner, uscito di scena con stile in una vasca di cera bollente che non gli impedisce di pronunciare la sua catchphrase: “Would you like a closer look?”.
Waxwork è un piacevole omaggio al caro vecchio cinema dei mostri, portato in scena con un apprezzabile piglio grandguignolesco. Humour ed orrore si fondono in un film che ha il merito di non prendersi troppo sul serio, come dimostra la chiusura sulle note di It’s my Party, brano di Leslie Gore del 1963.
L’ingenuità della trama non è altro che un funzionale collante tra gli episodi, la visione può beneficiare inoltre di quella tipica atmosfera 80s capace di offuscare i difetti e far sembrare le cose migliori di quanto siano. Oltre a poter fare contare sulla classe e l’ironia di un David Warner che si conferma presenza di pregio come spesso gli capitava in carriera.
Di seguito trovate il trailer internazionale di Waxwork – Benvenuti al museo delle cere:
© Riproduzione riservata