Voto: 6/10 Titolo originale: La marca del demonio , uscita: 03-01-2020. Regista: Diego Cohen.
Il Marchio del Demonio | La recensione del film di Diego Cohen
29/03/2020 recensione film Il marchio del demonio di William Maga
Lumi Cavazos e Eduardo Noriega sono gli incolpevoli protagonisti di un horror demoniaco pieno di cliché e tecnicamente maldestro, che cita a sproposito H. P. Lovecraft
La possibilità che una frase di H. P. Lovecraft incuriosisca lo spettatore (per motivi involontari …) quando viene usata per aprire un film horror è un’arma a doppio taglio; infatti, se da un lato apparecchia la tavola per una storia almeno inizialmente potenzialmente spaventosa, invocando un grande maestro della scrittura di genere, dall’altro può anche essere solo il tentativo di nascondere le carenze di una produzione che latita in originalità.
Oltre all’apertura, i personaggi de Il Marchio del Demonio (La marca del diablo) – distribuito in esclusiva da Netflix – citano apertamente lo scrittore di Providence quando si imbattono in una versione arcaica del celebre Necronomicon, il libro dei morti creato da H. P. Lovecraft e da lui sempre utilizzato nelle sue opere. Ci rendiamo quindi subito conto di quanto il film utilizzi queste citazioni come una cortina fumogena per lo spettatore, facendogli pensare che assisterà a qualcosa di lovecraftiano.
Tipicissimo esempio di film di possessione ed esorcismo medio, questa produzione messicana dal budget di circa 900.000 dollari diretta dal regista Diego Cohen (México Bárbaro II) ha addirittura un prologo minimamente interessante, con un bambino sottoposto al processo di ‘espulsione demoniaca’ e questa storia, che ha luogo 30 anni prima degli eventi raccontati, e continua a cucire la narrazione fino a chiarire completamente le sue connessioni con il presente. Non che il pubblico abbia particolarmente bisogno di più della seconda apparizione di questo flashback per capire lo ‘stratagemma’, ma non si può negare l’impatto dei promettenti primi minuti, che lasciano intendere un passatempo di maniera, ma almeno vivace.
Poco dopo, assistiamo all’ingresso in scena di Lumi Cavazos, attrice praticamente scomparsa dopo il clamoroso successo mondiale di Come l’acqua per il cioccolato quasi 30 anni fa. Il suo personaggio, Cecilia de la Cueva, è parte integrante dell’attuale mosaico del film ed è un pezzo di una famiglia ‘inspiegabile’ (il padre è un professionista in cosa, nel fare i puzzle?), con due figlie presentate malamente attraverso primi piani bizzarri – scene che peraltro sanciscono la fine di quanto fino a quel momento si era visto di positivo a livello di regia, che da lì in avanti inizia a spaziare tra l’amatoriale e l’inetto. La sceneggiatura di Rúben Escalante Mendez ha sempre meno senso man mano che si procede, e a poco a poco comincia a pescare a piene da qualsiasi cliché del sottogenere, ma ciò che colpisce di più è l’evidente assenza di risorse.
Se tecnicamente Il Marchio del Demonio lambisce il ‘non professionale’, lo stesso non si può dire degli interpreti (almeno della maggior parte). Oltre a Lumi Cavazos, Eduardo Noriega interpreta un prete dipendente dall’eroina (perché?, non lo sapremo mai…) che produce anche i film. Il 46enne attore spagnolo, che ha partecipato tra gli altri a La spina del Diavolo e Tesis, fa di tutto per dare dignità a un progetto che arranca ad ogni nuovo passo, con la sua presenza talentuosa sprecata per un personaggio tanto vuoto quanto poco giustificato. In effetti, il suo padre Tomás è uno dei personaggi che non ha proprio senso in scena, perché non aggiunge nulla alla narrazione. Forse peggio fa il Karl Nüni di Eivaut Rischen (Silencio), una sorta di Abraham Van Helsing dei poveri che suscita la risata involontaria ogni volta che apre bocca (tra l’altro, quando fuma, la sua sigaretta ha il suono di una tempesta – non sapremo mai nemmeno il perché di questo ‘effetto’).
E se c’è qualcos’altro da contestare è il montaggio di Il Marchio del Demonio, parimenti imputabile a Diego Cohen, che fa dubitare, con la carenza di tagli molto evidente anche per lo spettatore profano, come il regista probabilmente abbia saltato alcune lezioni importanti durante il suo percorso alla scuola di cinema. Le scene presentano infatti a volte lenti cambiamenti di piano che attestano proprio questa ‘carenza’, mentre altre volte tutto esplode rapidamente – probabilmente per nascondere gli effetti speciali mal rifiniti. Esemplare in tal senso è l’incredibile momento clou, lo scontro tra il giovane esorcista indemoniato Karl con le sorelle possedute e i loro sciocchi genitori è un misto delle innumerevoli ‘tecniche di montaggio’ adottate nel film, che si traduce in uno spettacolo indimenticabile – nel senso peggiore del termine.
Nel bel mezzo di un cast non pienamente all’altezza della già disastrata situazione, Il Marchio del Demonio non è in grado di opporre nessuna difesa alle sue infinite carenze, nemmeno quando gioca la carta del gore. Tra le cose migliori ci sono i titoli di testa, che non sono altro che il volo di un drone attraverso la città palcoscenico dei successi eventi. Anche se la durata del film è contenuta (circa 80 minuti) e, di fatto, non si dilunga inutilmente o stanca in senso stretto, alla fine non possono che affiorare molti dubbi sull’obiettivo di qualcosa di così privo di personalità e persino di manodopera qualificata, in cui una nota più leggera e auto consapevole avrebbe senza dubbio giovato.
Come ciliegina sulla torta, c’è una sequenza post-credits che darà i brividi a qualsiasi amante del cinema horror con almeno un livello di qualità minima.
Di seguito il trailer internazionale di Il Marchio del Demonio, nel catalogo Netflix dal 27 marzo:
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