Voto: 5.5/10 Titolo originale: Short Circuit , uscita: 09-05-1986. Budget: $10,000,000. Regista: John Badham.
Recensione story: Corto Circuito di John Badham (1986)
27/11/2020 recensione film Corto circuito di Marco Tedesco
Steve Guttenberg e Ally Sheedy doveva occuparsi del tenero Numero 5, robottino in cerca di un cuore e in fuga dai militari
La vera star di Corto Circuito (Short circuit), il divertente film diretto da John Badham applaudito all’anteprima lagunare nella sezione ‘Venezia Giovani’ alla Mostra del Cinema del 1986 – anticamera del buon successo al botteghino qualche mese dopo (40 milioni di dollari incassati globalmente a fronte dei 15 di budget) -, si chiama Number Five, Numero 5, ma non è il profumo che usava Marilyn Monroe.
È infatti un robot, il migliore che si potesse inventare: per costruirlo una troupe di ben 40 persone ha lavorato cinque mesi (“i militari ci avrebbero messo dieci anni” disse all’epoca il regista), andando a curiosare anche in una esposizione giapponese della futura tecnologia. Poi, sul set, dove il ‘divo’ era accompagnato da quattro persone addette al suo funzionamento (uno, la voce, due, gli occhi, tre, le braccia, quattro, il corpo), questo Numero 5 si prendeva anche delle libertà. “Abbiamo voluto un robot — diceva sempre John Badham — e soprattutto che non facesse pensare a un trucco, che ci fosse qualcuno dentro“.
Okay, il risultato è raggiunto: se si dovesse far inaugurare il termine “carino”, nella terminologia della critica cinematografica, ‘Corto circuito’ dovrebbe tenerlo a battesimo. Carino uguale a dolce, rassicurante, distensivo — con la garanzia di un protagonista che sta furbescamente a metà tra E.T. l’extra-terrestre e Frankenstein, e che si accoccola subito nella nostra infantile tenerezza —, John Badham, già dietro alla mdp per Wargames e Tuono blu, ci offre qui un’ulteriore e indovinata variazione sul potere tecnologico, i suoi usi, i suoi riflessi sulla gente e sui destini del mondo.
Si diceva dunque di questo magnifico robot allevato da militari e industriali per scopi bellicosi. Quando, un bel giorno, un temporale provoca un corto circuito, il nostro Numero 5 perde una rotellina, scappa e si convince di essere vivo (e anche pacifista!).
Succede il patacrac: i potenti sono in subbuglio, il povero inventore cerca di richiamare a casa la sua creatura (Steven Guttenberg è bravissimo nel rendere le apatiche personalità di questi ragazzi della porta accanto anni ’80, vedi Scuola di polizia, o Cocoon), ma il robot finisce a casa di Stephanie (Ally Sheedy), una brava ragazza amica degli animali e dal cuore d’oro.
Number Five si umanizza così a vista d’occhio: affamato di ‘input’, di stimoli, impara a memoria gli spot tv, balla come John Travolta in La febbre del sabato sera» (vezzo di autocitazione: era sempre John Badham il regista), scimmiotta John Wayne e guida il furgone come un camionista di Convoy, si lascia sedurre da una farfalla (come, se non sembra irrispettoso, il soldatino di All’Ovest niente di nuovo del 1930) e, soprattutto, se la dà a rotelle levate perché teme che i padroni lo ritrovino, lo smembrino e lo uccidano. Figurarsi, lui è così vivo che farebbe anche il galante, se non gli mancasse qualcosa di essenziale al proposito.
Come mai una macchina costruita per eseguire programmi si ritrova una personalità e alcuni principi morali innati? I casi sono due: o lo chiedete a Kant, che di imperativi categorici se ne intendeva, o a Steven Spielberg, che di sicuro avrebbe messo volentieri la sua firma su questo film molto piacevole e prevedibile, diretto con ironia e mano ferma, ma infarcito di trovate e trovatine, di battute e battutine, e con un suo piccolo messaggio di distensione nella bottiglia tecnologica.
Perché avrete intuito che lo scienziato e la ragazza si ritroveranno uniti, che il robot sconfiggerà tutti (tiene prigionieri gli altri robot canticchiando la “Colonel Bogey March”) e che John Badham ci vuole rassicurare che non tutto è perduto. Il robot forse andrà ospite fisso di qualche talk show, vivrà felice e contento con il già citato Steven Guttenberg (una faccia rassicurante che vorremmo avere tutti come vicino di casa) e con la deliziosa Ally Sheedy, brava quasi come in Breakfast club, e mai banale.
Partecipano alla letizia post-disneyana (o pre, visto che Wall-E lo omaggerà apertamente anni dopo), dove si possono accomodare anche quelli che hanno superato i 12 anni, il molto spiritoso – e bianchissimo – Fisher Stevens (Fratello di un altro pianeta), che fa l’indiano, e un bel gruppo di animali di ogni ordine e grado, il che non deve stupire, dato che gli sceneggiatori di Corto Circuito, S.S. Wilson e Brent Maddock avevano fino a quel momento fatto parlare i cartoni animati.
Così, tutto d’un colpo, in molti si ritrovano addosso un’anima, e il pubblico ha riguadagnato il sorriso grazie a questa favola umanista, mai volgare o grottesca.
Di seguito una scena di Corto Circuito:
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