Recensione Story: I Falchi della Notte e The Hitcher, un Rutger Hauer in versione villain memorabile
18/08/2019 recensione film di Francesco Chello
Riscopriamo il rude poliziesco del 1981 e il thriller on the road velato di horror del 1986, in cui l'attore olandese ha dato forma a due personaggi in grado di rubare la scena ai 'buoni'
Qualche settimana fa, abbiamo voluto ricordare Rutger Hauer attraverso Giochi di Morte e Detective Stone (le recensioni), due titoli magari meno noti al grande pubblico, ma piccoli cult da riscoprire all’interno di una filmografia probabilmente sottovalutata. L’obiettivo di questo nuovo approfondimento resta il medesimo, omaggiare nuovamente l’attore olandese scomparso lo scorso 19 luglio, stavolta cambiando l’argomento.
Il tema portante del discorso di oggi è il ruolo del cattivo, parleremo de I Falchi della Notte e The Hitcher, due pellicole che godono di una notorietà maggiore rispetto alle sopracitate e che in comune hanno la presenza chiave di di Rutger Hauer nel ruolo del villain. Interpretare il cattivo al cinema può sembrare facile, risultare credibile ed efficace è invece un compito arduo. Tutti possono provarci, ma non tutti riescono come dovrebbero. Insomma, ci vuole un attore bravo per realizzare un grande cattivo. Sull’importanza del ruolo nella tradizione cinematografica ci si potrebbe scrivere un trattato.
Wulfgar e John Ryder sono tra quei villain che lasciano il segno, personaggi determinanti per la sorte di pellicole che nel tempo vengono ricordate anche, se non soprattutto, per la presenza di un cattivo di spessore. Due performance, quelle del biondo attore, una meglio dell’altra. Se Wulfgar irrobustisce il concetto dell’antagonista di peso da contrapporre all’eroe tutto d’un pezzo, John Ryder ridefinisce la figura del serial killer mescolandola a quella del boogeyman.
I Falchi della Notte, traduzione letterale dell’originale Nighthaws – dal nome dei poliziotti della Crime Unit newyorkese in servizio notturno, esce nei cinema nel 1981. Un bel poliziesco d’azione che tratta un tema ancora attuale come quello del terrorismo, una pellicola che pur aprendo gli anni ’80 sente chiaramente (nel tono e nello stile) l’influenza del decennio precedente. Non a caso, lo script originale nasce come terzo capitolo della saga di French Connection (Il Braccio Violento della Legge), in cui Gene Hackman avrebbe dovuto fare coppia con Richard Pryor; in seguito al rifiuto di Hackman, riluttante a riprendere il personaggio di Popeye Doyle per la terza volta, la 20th Century Fox fa cadere l’opzione sulla sceneggiatura, che viene acquistata dalla Universal, con l’autore David Shaber che si rimette all’opera in modo da rimaneggiare la storia per un titolo a sé stante.
Sul progetto si fionda come un falco un motivatissimo Sylvester Stallone, che alle spalle aveva già il successo planetario di Rocky (di cui aveva sfornato pure il primo sequel) e che l’anno dopo farà doppietta con Rambo. Sly rifiuta altri ruoli perché sente che quello del poliziotto DaSilva fa al caso suo, si prepara per settimane affiancando, di notte, gli agenti della Crime Unit, chiede ed ottiene (come spesso in carriera) di realizzare da solo quasi tutti i suoi stunt, tra cui il salto sul treno e la sequenza in cui è appeso nel vuoto come un salame al cavo di un elicottero, definita dallo stesso Sylvester Stallone come una delle più spaventose esperienze della sua vita.
Oltre a dirigere personalmente una delle prime scene, in un frangente in cui la regia è scoperta a causa dell’avvicendamento tra Gary Nelson, che lascia il progetto prima delle riprese, e Bruce Malmuth, scelto per sostituirlo.
Il Deke DaSilva di un Sylvester Stallone perfettamente in parte è un poliziotto che vive di rischio e adrenalina, che per continuare a sentire la strada e combattere il crimine in prima persona (talvolta travestito da donna o da uomo d’affari) manda a monte una possibile scalata di carriera oltre che il proprio matrimonio. Il passaggio all’antiterrorismo gli permetterà di crescere, di mettersi realmente in gioco, di fare i conti con una paura che credeva non fosse tangibile.
Un protagonista di questo tipo ha bisogno, per funzionare, di una controparte (negativa) all’altezza. Specie se quello sbirro, appunto, ha il volto di un concentrato di carisma come Sylvester Stallone. Ed è qui che entra in gioco il personaggio di Wulfgar che, come dicevo, si rivela non solo decisivo ma anche necessario allo sviluppo della storia ed all’evoluzione del protagonista positivo. Il ruolo di Wulfgar è scritto bene, presentato come spauracchio, se ne parla anche quando non è in scena, alimentando un clima di tensione e minaccia.
La scrittura da sola non basta però, ha bisogno di una presenza altrettanto importante, è così che viene fuori il talento di Rutger Hauer, che con la sua interpretazione porta sullo schermo un villain impeccabile e credibile, senza cadere in facili luoghi comuni del cattivone che diventa macchietta; freddo, cinico, presuntuoso, dal fascino malsano, con manie di grandezza che corrono sul filo della follia, semina morti in quasi ogni scena in cui compare, si nutre della paura altrui, emblematica l’espressione dell’attore olandese quando sembra “respirare” l’esplosione di una bomba con l’intento di godersela nella sua devastazione o quando chiede a Stallone se si sente indifeso, rifocillandosi delle sue evidenti difficoltà.
I Falchi della Notte, fin dalla sua locandina, spinge molto sul dualismo tra DaSilva/Stallone e Wulfgar/Hauer, il loro non è solo un duello tra barbe (di cui il secondo si libera presto), ma una vera e propria guerra di nervi che evolve al punto di passare sul piano personale. Particolarmente indicative in questo senso sono le sequenze in cui i due si confrontano, dal concitato inseguimento iniziato in discoteca e culminato in metropolitana, alla tesissima sequenza in funivia, fino al sorprendente faccia a faccia finale.
Un dualismo che supererà i confini dello schermo portando i due ad alcune schermaglie sul set, come quella volta in cui Sly – che aveva forte potere decisionale – chiese di tirare vigorosamente il cavo che doveva spostare Rutger Hauer per simulare il colpo d’arma fuoco, rischiandone l’infortunio e mandando il collega su tutte le furie al punto di chiedere, testuali parole, che Sylvester Stallone non gli ‘rompesse più le palle’. Uno Stallone notoriamente competitivo che propose di rimuovere alcune sequenze di Hauer dal montaggio finale, dopo un doppio screen test in cui gli spettatori avevano potuto vedere due versioni del film, una che metteva in risalto DaSilva e l’altra più orientata su Wulfgar ed avevano votato per quest’ultima come versione preferita.
Oltre ai meriti qualitativi, I Falchi della Notte ha un suo peso specifico sulla carriera di Rutger Hauer, ponendosi come vero e proprio spartiacque tra la carriera europea e quella internazionale. Il lungometraggio, infatti, è il primo lavoro americano dell’attore olandese, una scelta da cui si può comprendere meglio la caratura del personaggio. Reduce da un buon successo in patria, inevitabilmente Hauer riceve un paio di offerte per il salto hollywoodiano; si trova sul piatto una proposta economicamente sostanziosa per partecipare a Sfinge (Sphinx), una produzione ad alto budget curata da una major con la possibilità di lavorare con un regista conosciuto come Franklin J. Shaffner. Proposta che puntualmente Rutger Hauer rifiuta, intrigato maggiormente dallo script de I Falchi della Notte e dal personaggio di Wulfgar, nonostante un salario dimezzato rispetto a quello propostogli per Sfinge. L’anno dopo arriverà Blade Runner, il resto è storia.
Nel cast di Nighthawks anche Billy Dee Williams, indimenticato Lando Carlissian di Star Wars, che interpreta il compagno di DaSilva in un abbozzo di buddy movie, oltre alla donna bionica Lindsay Wagner, nei panni della ex moglie del protagonista, e Joe Spinell, che aveva già lavorato con Sylvester Stallone in Rocky e che qui interpreta il suo superiore – un personaggio che prende il suo nome, Munafo, da uno dei produttori.
Sembra che il primo cut de I Falchi della Notte fosse vicino addirittura alle due ore e mezza poi sfoltite in sala di montaggio per rendere la visione più snella, una scelta intuibile da alcuni approfondimenti mancati, come la storia tra DaSilva e la moglie, solamente accennata. I Falchi della Notte è un solido esponente del filone poliziesco d’azione, alterna momenti di tensione e adrenalina, si regge su due personaggi caratterizzati il giusto e, soprattutto, interpretati con maestria da due interpreti in perfetta forma, che potranno annoverare i rispettivi ruoli tra i più riusciti in due curriculum tutt’altro che banali.
Per quanto riguarda l’home video, in Italia esce in DVD per la Universal nel 2003, per poi essere pubblicato nuovamente da Pulp Video, in DVD e bluray, nel 2011.
In quanto a cattivi, Wulfgar non è un punto d’arrivo, sarà con John Ryder che Rutger Hauer saprà superarsi regalando al pubblico uno dei (tanti) personaggi iconici della sua carriera. È il 1986, nelle sale arriva The Hitcher – La lunga strada della paura, un film che fin dal titolo (e dalla locandina) propone il villain come protagonista assoluto. John Ryder non è la controparte di nessun eroe, il film è incentrato su di lui, mentre il personaggio positivo è chiaramente un comprimario necessario a enfatizzare la drammaticità della situazione, un avversario fragile ed in netto svantaggio al cospetto di un assassino quasi inarrestabile.
Volendo ragionare sulle classificazioni di genere, che magari lasciano il tempo che trovano, The Hitcher viene giustamente annesso al macro genere thriller. Ma il film prende palesemente in prestito molti elementi dall’horror, li rielabora e li modella a seconda delle sue esigenze. Ci sono elementi dello slasher e del survival horror e, aspetto determinante, John Ryder oltre che spietato serial killer è evidentemente un boogeyman a tutti gli effetti. Dal bodycount al modo in cui appare e scompare dalla scena in maniera quasi innaturale, al suo essere inarrestabile, passando per quell’aura malefica che porta con sé ogni qual volta compare sullo schermo.
La stessa suggestiva location si rivela azzeccatissima in questo senso, chilometri di strada in un deserto che non offre punti di riferimento ed accentua quella sensazione di minaccia costante, di assenza di una via d’uscita.
E se John Ryder funziona sullo schermo in questo modo potente ed inquietante, lo si deve ovviamente alla performance eccezionale di Rutger Hauer. Il suo John Ryder è di un’efficacia prepotente, un personaggio nettamente disturbante capace di mettere a disagio lo spettatore. Il film entra subito nel vivo, dopo cinque minuti la situazione è già impacchettata, la tensione è subito alle stelle, il pericolo palpabile. Hauer inizia con una serie di piccoli gesti a costruire uno stato d’ansia, di opprimente turbamento. Ma soprattutto paura. Il modo in cui si pulisce il viso, in cui non risponde alle domande dirette, sussurra alcune frasi. Improvvisamente racconta di aver fatto a pezzi l’automobilista precedente.
O ancora, il modo in cui muove le sue grosse mani, le impercettibili espressioni del viso. Ed è un crescendo, si potrebbe stilare una cronistoria, dalla lacrima presa col coltello (piccola grande finezza), allo sputo raccolto con morboso compiacimento. Ogni sua apparizione viene gestita in maniera intelligente e subdola, mai lasciata al caso, finalizzata a procurare una scossa. Penso, per dirne un paio ma potrei citarne tante, a quando spunta da dietro al peluche nella macchina della famigliola felice, un momento assolutamente perfetto, oppure quando finge il grilletto col dito in una sorta di duello sottobanco per poi piazzare le monetine sugli occhi (a mo’ di Caronte) con un fare quasi rassicurante. Rutger/John gioca con le sue vittime come il gatto fa col topo, le sfida, le provoca, le porta al punto di rottura.
Esplicito l’attimo in cui il povero C. Thomas Howell punta la pistola su se stesso, quasi meglio uccidersi che avere ancora a che fare con Ryder. Una prestazione, dicevo, perfetta. Il villain di Rutger Hauer è glaciale, non perde mai la calma, non diventa mai caricaturale, particolari che lo rendono più inquietante di quanto già non fosse. Una follia palpabile ma immotivata, l’assenza di background alimenta un alone di mistero che aleggia intorno ad un personaggio che nella sua sicurezza lascia trasparire, in almeno un paio di occasioni, un malessere autodistruttivo.
Mi riferisco alla scena in cui si stende sul letto cercando un contatto con la ragazza ma, soprattutto, al dialogo in cui chiede di essere fermato. Quella che in quel momento sembra una provocazione, in realtà nasconde qualcos’altro, Ryder sviluppa uno strano rapporto col ragazzo ed è evidente che poi faccia di tutto per farsi prendere, per morire. Un Rutger Hauer motivatissimo che chiede di realizzare i propri stunt, sia quelli alla guida (tra cui la difficile sequenza della pompa di benzina) che quelli in azione (che includono la scena del parabrezza in cui l’olandese si romperà sul serio un dente).
Il lavoro dell’olandese – per il cui ruolo erano stati precedentemente considerati Sam Elliott e Terence Stamp – viene valorizzato adeguatamente dalla regia di Robert Harmon. Quello di Harmon è l’esordio in un lungometraggio, un esordio col botto che resta però isolato visto che, ad oggi, The Hitcher resta il suo miglior film e che in carriera non è più riuscito a ripetersi. Il regista capitalizza la sceneggiatura di Eric Red – che dichiarerà di aver preso ispirazione dalla canzone Riders on the Storm dei Doors – e spinge sulla suggestioni dei luoghi, enfatizza i momenti topici tramite un frequente utilizzo del rallentatore e dei primi piani.
Si fa sapientemente aiutare dalla colonna sonora incalzante di Mark Isham e dalla fotografia dai colori forti dell’esperto e pluripremiato direttore australiano John Seale. Per completare con alcune riuscite sequenze d’azione, tra inseguimenti ed esplosioni.
Prima accennavo alla controparte positiva, un volto necessario a capitalizzare il terrore istillato da John Ryder. Il volto di C. Thomas Howell, protagonista di una interminabile fuga itinerante. Non me ne voglia Howell, ma ho come la sensazione che la riuscita del suo personaggio sia legata a quello che è forse il difetto che gli impedirà di far decollare una carriera che sembrava promettente.
Parlo di un’assenza di carisma che probabilmente lo avrà penalizzato nel tempo, ma che in The Hitcher rende il suo personaggio fragile, maggiormente credibile; non è un eroe, non potrebbe esserlo, ma un ragazzetto che si trova suo malgrado a fronteggiare la morte in persona animato dal solo spirito di sopravvivenza. Un rapporto, quello tra Jim Halsey e John Ryder, che sembra evolvere in qualcosa di strano, di personale, fino a quella ambigua carezza col fucile che Halsey fa al suo aguzzino.
Relazione tra Howell e Hauer così viscerale da estendersi aldilà del set, col primo che si sentiva giustamente inquietato dalla presenza e gli atteggiamenti del collega olandese maledettamente calato nel ruolo. Jennifer Jason Leigh è la giusta spalla in questa fuga, funzionale ad alcuni frangenti emotivamente forti.
The Hitcher è un intenso thriller on the road, con momenti carichi d’orrore. Un cult nel suo genere oltre che uno dei ruoli più famosi della carriera di Rutger Hauer. Perché dare vita ad un cattivo che fa davvero paura non è cosa per tutti. Esce in DVD italiano nel 2003 targato Universal, un’interessante edizione doppio disco che però ha il demerito di non avere nessun tipo di sottotitoli sui contenuti speciali e che al momento è fuori catalogo.
Ah, fatevi un favore, evitate sequel e remake. Il seguito arriva 17 anni dopo, C. Thomas Howell riprende il suo personaggio in quella che ha l’aria di essere una mossa della disperazione; il film è poca roba, ma è lo spunto ad essere insensatamente assurdo perché se già è poco credibile che una persona reduce da un trauma del genere decida di dare nuovamente un passaggio ad uno sconosciuto, diventa ridicolmente improbabile che quello sconosciuto (che ha il volto di Jake Busey) sia nuovamente psicopatico e, soprattutto, sia ancora una volta biondo e col cappotto lungo!
Il remake Platinum Dunes, invece, arriva relativamente presto (nel 2007) e non richiesto da un pubblico che ricorda troppo bene l’originale, un rifacimento che non aggiorna la formula ma la impoverisce, la versione è scialba mentre la performance di Sean Bean (che non è uno scarso …) non vale un decimo di quella di Hauer – oltre che inserire del sangue nell’unica scena originale in cui non c’era (quella del camion) ottiene l’effetto contrario di chi vuole mostrare troppo perché in mano ha troppo poco.
Di seguito il trailer internazionale di I Falchi della Notte e di The Hitcher – La lunga strada della paura:
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