Dossier – I Signori della Droga al cinema: Parte I
23/11/2015 news di Gianluigi Perrone
Dai cartelli messicani al 'Patrón' Pablo Escobar, Hollywood negli ultimi anni sembra aver (ri)scoperto prepotentemente il filone legato al narcotraffico centro-sudamericano. Questo speciale in 4 parti intende esaminare le produzioni cinematografiche e televisive che negli ultimi anni hanno affrontato l'argomento. Tenetevi forte.
OLTRE IL CONFINE
Vicino di casa per Hollywood, il cinema Sud Americano, in particolare Messicano, si è ritagliato la propria importanza nel panorama mondiale, sicuramente vivendo una seconda, importante epoca d’oro ai nostri giorni. Merito dei vari Guillermo Del Toro, Alfonso Cuaron, Alejandro Gonzales Innaritu (partners produttivi in un progetto che ha dato i suoi frutti) ma anche Robert Rodriguez, i quali hanno portato il mondo latino in una posizione decisionale, come ci insegnano le cronache. Così, mentre Donald Trump spinge la sua candidatura promuovendo un muro, vero, non metaforico, tra Stati Uniti e Messico, il Sud America comincia a prendere un posto sempre più centrale nelle principali vetrine cinematografiche, siano esse Academy Awards, Leoni o Palme d’oro. Il Confine apre le porte alle coproduzioni e rilascia favorevoli tax credits, quindi le meningi si spremono per trovare argomenti buoni per quel territorio.
Cos’è per Hollywood il Sud America? Sicuramente belle donne dalla carnagione scura, gli occhi grandi, le forme burrose e il sangue bollente. Cos’altro? La muerte. La violenza brutale sui confini, i Signori della Droga, la Guerra al Comunismo. Se devi parlare di Mafia, devi girare in Italia. Se devi parlare dei Cartelli, devi girare in Sud America. O meglio. Se il momento è propizio per il Sud America allora ecco che si parla sempre di più della criminalità latina.
Le brutalità della malavita sudamericana ha un nome, Pablo Escobar, e di fatto la sua vita ha già avuto numerose visitazioni da parte dei media, come vedremo in seguito, ma i gangster messicani che si aggirano dall’altro lato di El Paso, sono diventati leggendari, basti pensare all’incredibile personaggio di Anton Chighur di Non è un Paese per Vecchi, tanto da passare da villain a protagonisti della storia.
Un titolo su tutti? Sicario (2015) di Denis Villeneuve.
Se era il momento per Villeneuve di fare un ulteriore salto di qualità, quello di Blade Runner era forse il più azzardato. Allora alla luce di quale concetto, il regista di film così diversi tra di loro come Prisoners e Enemy e dal loro seguito, è risultato idoneo per una storia sul rapporto tra il Governo militare americano e il confine? Villenueve è un regista di stile, in grado di prendere un progetto dalla black list di Hollywood e dargli dignità grazie al linguaggio cinematografica. Il primo strato dello script di Sicario sembra cucito attorno a Commando, ma con la questione politica e etica del Confine a fare da merletto.
Denis Villeneuve deve farci l’orlo ai personaggi, trama non completamente riuscita, così abbatte la spettacolarizzazione, azzera il fattore violento tipico e si concentra sul conflitto morale, come in Prisoners. Come Bardem era l’ineluttabile destino in Non è un paese per vecchi, il personaggio di Benicio Del Toro è la morte che cammina, un sistematico prodotto delle due controparti che lo hanno reso tale e che annienterà come da copione. Per un pugno di dollari è nel DNA della sceneggiatura ma Villeneuve la trasforma, sceglie di seguire una strada opposta a quella ovvia per un un film del genere, la rende un anti-Peckinpah, fa una azzardo e decide di non conferire alcun appeal al suo personaggio per trasferirlo sull’enviroment, il Confine, terra franca oltre la quale tutto è proibito.
The Counselor – Il Procuratore (2013) di Ridley Scott, tratto da un romanzo di Cormac McCarthy (già autore di Non è un Paese per Vecchi), racconta invece bene alcune dinamiche dietro ai rapporti tra i king della droga e il sistema costituito. Nonostante si tratti di crimine, o forse proprio per questo, è la burocrazia a dettare alcune regole e, come in Carlito’s Way, la Legge può fare da complice compiacente. Il personaggio senza nome di Michael Fassbender accetta, per necessità, la malia del Diavolo, il suo cliente folle, narcotrafficante, impersonato da Bardem. Come già in precedenza nelle opere tratte da McCarthy, i personaggi simboleggiano concetti, e in questo caso l’assenza di nome lo rende più evidente.
Così il Procuratore vive un idillio da uomo normale, con una vita agiata che deve culminare nel matrimonio con la compagna. Un idillio sporco di sangue, ma il Diavolo non si espone, nella figura del narcos che è un folle in preda al delirio di una vita persa nel gozzovigliare, ma è la sua controparte, la cruda verità, interpretata da Cameron Diaz in uno dei migliori ruoli della sua vita, che spinge la narrazione su un terreno più concreto e realistico. Il mondo è marcio e sono tutti colpevoli.
Sia il personaggio di Bardem che quello di Del Toro sono notevolmente romanzati, e quello che c’è dietro ai killer del Cartello passa sotto il vaglio analitico di più di un media, alla ricerca di un nuovo tipo di Nemico Pubblico.
continua…
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