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[I diari del Lido: il Cineocchio a Venezia 74] Giorno 2 – Gli opposti si attraggono

01/09/2017 news di Giovanni Mottola

Amelio e del Toro, Olmi e Labate: opere così diverse eppure così simili

La programmazione odierna del festival ha avuto una nota di atipicità nella scelta di offrire alla stampa la proiezione congiunta, senza nemmeno che i presenti fossero obbligati a uscire dalla sala per rientrarvi subito dopo come è costume, di The shape of Water di Guillermo del Toro e Casa d’altri di Gianni Amelio.

the shape of water del toroI due film non hanno proprio nulla in comune: il primo è un lungometraggio in Concorso dal sapore di favola; il secondo un cortometraggio evento speciale sulla cruda realtà dell’Italia centrale distrutta lo scorso anno dal terremoto. Forse è stata proprio la totale diversità dei due lavori a indurre a unificarli. In questi giorni si è sottolineato come il Festival di Venezia abbia a cuore la definizione di “Mostra” del cinema, fino al desiderio di riproporne la scritta sulla facciata della sala principale. Alla dicitura all’esterno si è dunque fatto corrispondere, all’interno, una varietà cinematografica degna della definizione, che in pochi minuti ha spazzato via l’annoso dibattito se un film debba volare con la fantasia oppure offrire una descrizione concreta della realtà. Vedere del Toro e Amelio uno dopo l’altro ha dimostrato che vanno bene entrambe le cose, perché il cinema è l’arte di raccontare, attraverso le immagini, storie capaci di divertire, commuovere, far riflettere, porre interrogativi. L’unica cosa che conta è riuscirci, come è capitato quest’oggi a entrambi i registi. Quindi dispiace davvero che la giuria, in sala per assistere al primo film come le è imposto dal ruolo, non si sia trattenuta appena dieci minuti in più per assistere al lavoro del maestro italiano. Difficile pensare che siano andati via di proposito; con ogni probabilità, nessuno ha avuto l’accortezza di comunicar loro che sarebbe stato proiettato. In ogni caso, di questo episodio si saranno accorti in pochi dal momento che – lo diciamo con disappunto – la stampa ha messo in atto il medesimo fuggi fuggi dopo l’ultima scena di di The Shape of Water. Un gran bel film, questo di del Toro, che appassionerà particolarmente chi ama il genere fantastico. Di realistico non vi è infatti nulla, se non la sensibile descrizione della solidarietà che si genera spontanea tra anime abbandonate. Lo è, inevitabilmente, l’essere mostruoso tenuto in custodia da un laboratorio americano, che intende studiarlo per scopi militari e deve guardarsi dalla concorrenza dei russi. Lo è anche, per il suo non gradevole aspetto fisico, Elisa (Sally Hawkins), che in quel luogo fa le pulizie. Solo lei prova un sentimento affettuoso per il mostro e, con l’aiuto del vicino di casa, riuscirà ad aiutarlo. Una favola forse più adatta ai bambini, a parte qualche momento thriller e qualche scena violenta, ma che finisce per intenerire anche i grandi. Gli habitué del Festival potranno ritrovare, nel clima di favola e nell’anima sognatrice di Elisa, qualcosa della protagonista femminile del recente, pur diversissimo, La La Land di Damien Chazelle. I più pragmatici, invece, faranno notare che i primi due film di questa edizione del concorso (l’altro è Downsizing di Alexander Payne) hanno entrambi per protagonista una donna delle pulizie. Il documentario di Amelio sulla popolazione di Amatrice è fatto di niente, come durata, ma dentro c’è tutto: l’intervista a una maestra che racconta le reazioni dei bambini, la signora che racconta di turisti sciacalli recatisi lì per fotografare i ruderi, la gente che ha voglia di rimanere e provare a ricostruire. Un’unica poetica concessione al romanzesco nel girovagare di un uomo anziano con la foto di una donna amata, quasi elemosinando un’informazione su di lei o l’offerta di un po’ di compassione.

casa d'altri amelioIn serata è stato proposto un altro binomio bizzarro. Al primo ci siamo sforzati di dare una spiegazione tirata per i capelli, ma questa volta non capiamo proprio cosa possa legare il documentario ritrovato di Ermanno OlmiIl tentato suicidio nell’adolescenza con Raccontare Venezia di Wilma Labate. Infatti, nel presentare il primo, Tatti Sanguineti non ha nascosto il disappunto per come è stato trattato un grande maestro quale Olmi, non presente in sala, che non ha avuto l’onore di una proiezione autonoma per questo straordinario documento inedito, girato nel 1968 ma ritrovato solo ora a Brescia presso gli archivi della Fondazione Micheletti. Si tratta di un’indagine commissionata dalla Sandoz circa il fatto che, nell’ambito dei malati psichiatrici al di sotto dei venticinque anni, un paziente su tre tenti il suicidio. Olmi svolge il lavoro presso il reparto di psichiatria del Policlinico di Milano, diretto dal professor Carlo Lorenzo Cazzullo, intervistando il luminare e i suoi collaboratori, per poi concentrarsi sul singolo caso di una ragazza che deve i suoi problemi al difficile rapporto con il compagno e con la famiglia. Emerge un quadro assai interessante non soltanto dal punto di vista medico-statistico, ma anche dal punto di vista cinematografico, perché Olmi riesce a coniugare lo sguardo del documentarista, che deve fornire informazioni, con quello del regista sensibile, capace di osservare la realtà che lo circonda per poi raccontarla con delicatezza. L’unico nesso con il documentario seguente, Raccontare Venezia, sta nel fatto che anche questo, a suo modo, è una chicca per cinefili. L’idea nasce dal libro “Storie di cinema a Venezia” scritto da Irene Bignardi, che è anche la musa ispiratrice del film. La giovane attrice Silvia d’Amico, quasi omonima ma non parente del Silvio d’Amico a cui è intitolata l’Accademica d’Arte Drammatica di Roma, dove si è diplomata, accompagna lo spettatore sui luoghi in cui furono girati celebri film, mentre si alternano gli aneddoti di autori, attori e storici del cinema.

Raccontare Venezia Wilma LabateSi scopre così che Luchino Visconti, per Senso, avrebbe voluto la Mangano o la Bergman per la parte che fu di Alida Valli e Marlon Brando per quella di Farley Granger; che a Orson Welles un produttore disse “dobbiamo fare l’Otello”, ma aveva in mente quello di Verdi e si ritrovò spiazzato nel vedere quello di Shakespeare; che Al Pacino era molto metodico e sul set del Mercante di Venezia costringeva il regista a girare anche cinquanta volte la stessa scena; che per tutti i registi è stata un’impresa girare in una città tanto atipica come il capoluogo veneto. Naturalmente tanti film sono stati esclusi e tra essi segnaliamo quello che ha ispirato il titolo del documentario, ovvero “Dimenticare Venezia” di Franco Brusati. Si vedono scorrere alcune scene tratte da A Venezia un dicembre rosso shocking, film di genere di Nicolas Roeg, Marco Polo di Giuliano Montaldo, il delizioso Pane e tulipani di Silvio Soldini, Chi lavora è perduto, esordio alla regia di Tinto Brass e unico veneziano tra i registi che hanno raccontato questo magico luogo. L’immagine più struggente è quella tratta dal set di Unguided Tour di Susan Sontag, perché è l’occasione per rivedere il povero Claudio Cassinelli – compagno della Bignardi, dalla quale ha avuto il figlio Giovanni che di questo documentario è il produttore – scomparso prematuramente per un incidente in elicottero sul set del film Vendetta dal futuro. Il meglio arriva verso la fine, con una breve ripresa del Canal Grande effettuata addirittura dai Fratelli Lumière. Una scena che per la sua importanza storica vale da sola tutto il documentario e forse anche tutto il Festival.

A domani.