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Dossier | Ari Aster, guardate i 6 angoscianti cortometraggi ‘di formazione’ che hanno plasmato la sua regia

21/01/2020 news di Sabrina Crivelli

Andiamo alle origini della poetica registica del 33enne autore di Hereditary e Midsommar, un'esplorazione dei lati più oscuri dell'animo umano, dove risiede il vero orrore

BEAU cortometraggio ari aster

Con i suoi Hereditary – Le radici del male (la recensione) e Midsommar – Il villaggio dei dannati (la recensione), il 33enne Ari Aster ha indubbiamente conquistato in breve tempo molti fan del cinema del terrore, affermandosi come voce nuova e fresca nel panorama horror, nonché uno tra i registi da tenere d’occhio. Tuttavia, i due lungometraggi, rispettivamente del 2018 e 2019, non sono affatto le prime terrificanti storie raccontate su video a cui ha lavorato. Al contrario, esiste una serie di agghiaccianti cortometraggi che precedono i due titoli usciti in sala e che, sebbene meno apertamente orrorifici, possiedono tutte le carte per risultare altrettanto disturbanti.

Anzitutto, Ari Aster ha perfezionato la propria tecnica al Conservatorio AFI, dove ha intessuto non poche relazioni e amicizie con molte delle persone con cui lavora tutt’oggi, in primis il direttore della fotografia Pawel Pogorzelski. Di quel periodo di formazione fanno parte anche alcune importanti prove in regia, che lo hanno portato a coltivare alcuni degli aspetti fondamentali del suo cinema ben prima del successo internazionale di Hereditary.

Ari Aster Ha infatti lavorato a ben 6 cortometraggi tra il 2011 e il 2016, periodo lungo il quale ha affinato le sue capacità, tutti radicati nella medesima, vasta e raccapricciante gamma di orrori psicologici ed emotivi che ha caratterizzato dopo anche i film. Il loro punto di forza è una narrazione che nasce dal disagio profondo e che costringe gli spettatori ad affrontare ciò che invece vorrebbero ad ogni costo ignorare, o che non vorrebbero mai ammettere.

Esploriamo questa manciata di lavori brevi.

Ari Aster -The Strange Thing About the Johnsons (2011) - poster1) The Strange Thing About the Johnsons (29′, 2011)

Abbiamo deciso di aprire la nostra lista con questo cortometraggio non solo perché è stato il primo a essere girato da Ari Aster, ma anche perché è il più lungo e complesso di tutti. Inoltre, anticipa inoltre alcune delle tematiche che saranno poi centrali in Hereditary e Midsommar.

Anzitutto, anche qui si parte con quella che sembra una normale e amorevole famiglia americana, per costruire via via una sempre maggiore claustrofobia, dando la sensazione che tutto sia sul punto di implodere a causa di un traumatico segreto che i suoi membri serbano. Così, si assapora appieno il momento in The Strange Thing About the Johnsons in cui ci si rende davvero conto del livello di morbosità che si cela dentro le mura domestiche. D’improvviso, un colpo di scena inaspettato con tanto di incesto e sconvolgimento delle tradizionali gerarchie domestiche trascina i protagonisti in territori estremamente oscuri. Feste tra amici e un idilliaco ritratto famigliare si alternano a violenti stupri e crolli emotivi. La scena del confronto tra padre e figlio è assolutamente agghiacciante e ci mostra perfettamente come Ari Aster abbia un vero e proprio dono nel creare situazioni tese e spaventose. Il modo in cui la telecamera fluttua per poi indugiare in modo inaspettato su un dettaglio o su un volto, rivela un’eccezionale libertà di movimento e di espressione, la stessa di cui i personaggi al centro della finzione filmica sono in fin dei conti del tutto privi.

The Strange Thing About The Johnsons mostra in modo crudo e sconvolgente quanto possa essere estremamente difficile per ogni individuo essere normale. Ogni momento di incertezza si trasforma lentamente in ansia. I silenzi all’apparenza indice di tranquillità a volte sono più eloquenti di una frase urlata a squarcia gola. L’itero cortometraggio è un esercizio di repressione e resistenza, mentre seguiamo questa famiglia spingersi fino al limite estremo e al danno emotivo che ciò che hanno taciuto a lungo provoca a tutti loro. Il cast, tra cui primeggiano Billy Mayo, Brandon Greenhouse e Angela Bullock, riesce a trasmetterci un dolore e un angoscia paragonabile a quelli portato su grande schermo dai protagonisti di Hereditary, anche loro intrappolati in un contesto famigliare all’apparenza normale, ma in realtà decisamente problematico.

2) Beau (6′, 2011)

Lo stesso anno di The Strange Thing About The Johnsons, Ari Aster lavora a un secondo cortometraggi horror che, anche se più breve, non è certo meno disturbante: Beau. Con protagonisti Billy Mayo, Logan Atkinson e Casey Desmond, si apre con qualche sommaria – ma fondamentale – informazione su colui a cui si deve il titolo (ossia Beau stesso), un uomo che pare non dormire mai. Sebbene sia solo un dettaglio marginale della premessa, mette subito lo spettatore a disagio. Ne segue l’epicentro narrativo di Beau: i tentativi del protagonista iperteso e paranoico, che teme costantemente di essere aggredito o che qualcuno entri in casa sua e lo derubi.

Ari Aster - Beau (2011)In una durata di poco più di cinque minuti si concentra ogni fobia e fissazione di Beau, rendendo ogni secondo straordinariamente ansiogeno. Ciò lo rende probabilmente uno dei sei titoli della nostra lista più smaccatamente orrorifici. Forse, gli eventi descritti da Ari Ater lungo il suo svolgimento potranno apparire piuttosto insignificanti, alcuni addirittura quasi comici. Eppure, al contempo veniamo sprofondati in un vero e proprio incubo, in cui si concretizzano le peggiori paure di una mente disturbata, tramutando così ogni aspetto dell’esistenza in puro, quotidiano orrore.

Grottesco, quanto folle, troviamo pure tracce di un rudimentale piano di ‘autodifesa domestica’ alla Mamma, ho perso l’aereo (Home Alone, Chris Columbus), nei tentativi di Beau di difendere il proprio appartamento dall’invasione di possibili malintenzionati.

https://vimeo.com/23026704

3) Munchausen (15′, 2013)

Forse il cortometraggio di Ari Aster più lontano dallo stile che abbiamo imparato ad amare, in Munchausen lo sceneggiatore e regista abbandona la sua consueta cruda e sofferente verbosità, optando al contrario per una storia che punta tutto su immagini, sfumature psicologiche e su una colonna sonora davvero coinvolgente. Contraddistinto da un’atmosfera da fiaba dark, esplora la triste e verosimile lotta interiore che affligge una madre in crisi perché il figlio sta partendo per il college.

Ari Astrer - Munchausen (2013)La donna cerca con ogni mezzo di trattenere il figlio, di impedirgli di lasciarla. L’assenza di dialoghi, le musiche malinconiche, l’illuminazione calda e persino il titolo – ricamato a punto croce – in apertura, ci trasmettono un’immagine confortante, ma sotto la superficie c’è una verità straziante. Tutto si apre con l’entusiasmo di un ragazzo che inizia una nuova bellissima fase della propria vita. Le immagini della gioia, delle esperienze, dell’amore che lui sperimenta intensificano ancor più il vissuto di abbandono della madre, la sua disperazione.

Eccezionale esempio di narrazione minimalista, Munchausen confida nel potere delle sue immagini di Ari Aster per creare emozioni negli spettatori. Il resto lo fanno il notevole uso del montaggio, a cui si ricorre con molta intelligenza per coprire anche sbalzi temporali. La relazione che la madre (Bonnie Bedelia, in una interpretazione commovente) ha con suo figlio è su per giù l’opposto delle dinamiche familiari al centro di Hereditary, anche se alla fine spezza ugualmente il cuore. Poi c’è una svolta paradossale alla Misery non deve morire che aggiunge un tocco di macabro tipico dello stile del regista …

In generale, si tratta di una delle più brutali storie di Aster e si focalizza semplicemente sui problemi quotidiani, che spesso non volgiamo vedere. (cliccate il tasto blu per vederlo)

4) Basically (15′, 2014)

Basically, insieme a C’est La Vie, può essere raggruppato in quelli che Ari Aster stesso ha definito i suoi ritratti. Presentati in origine al New York Film Festival, il regista li ha descritti come un’antologia in 12 parti che “può essere vista come un ritratto panoramico di Los Angeles“. Ogni segmenti è uno spietato studio di un personaggio che scava in profondità nella vera natura delle persone; il tutto in modi decisamente non convenzionali e abbattendo la quarta parete. Così, non solo sono messe il luce le abilità di Aster come regista, ma anche come qualcuno capace di approcciare il cinema partendo dallo studio delle psicologie dei suoi protagonisti. Ed in fondo è esattamente da qui che nasce la sua interpretazione dell’horror.

Ari Aster - Basically (2014)Basically vede protagonista Rachel Brosnahan (L’ultima tempesta) nei panni di una viziata socialiser di Los Angeles di nome Shandy Pickles, che ha all’apparenza una vita perfetta, ma pian piano scopriamo che sotto la superficie tutto va in pezzi. In maniera assai ambiziosa, il corto indaga difatti sul perché le persone fingano di essere ciò che non sono e su cosa davvero cerchino in un mondo pieno di finzione.

C’è un’estetica surreale nel modo in cui viene descritta la vita di Shandy, mentre critica indiscriminatamente e cinicamente tutti coloro che le stanno intorno, ma non riesce a seguire i suoi stessi consigli. È un perfetto ritratto delle insicurezze che alimentano l’industria dell’intrattenimento. Esattamente come Hereditary e Midsommar, dunque Basically affronta le anomalie e disfunzionalità nascoste dietro a un mondo idilliaco. Una sola verità emerge: anche coloro che hanno tutto sono sottoposti ai capricci del fato e ai lati oscuri dell’esistenza.

Così, man mano che il monologo della protagonista diventa sempre più cupo, la composizione delle inquadrature è diviene sempre meno brillante, fino a cedere del tutto alla tenebra. Tutto avviene in soli 15 minuti, in cui è concentrata l’intera vita di Shandy, incarnata in maniera notevole da Rachel Brosnahan. La sua performance, la forza con cui è reso il dolore sono certo le premesse delle successive intense e controverse psicologie che abbiamo amato nel cinema di Ari Aster.

Notevole è infine l’abilità del regista nello svelare pian piano la vera natura di Shandy, sulla difensiva per la maggior parte del corto – in cui passa in rassegna la storia della sua vita – ma che mostra infine la propria vulnerabilità e le sue profonde ferite; qui s’intravvede una persona autentica. In conclusione, Basically eccelle nel mostrare le crepe di una vita perfetta, e una volta che inizi a vederle, il processo diventa inarrestabile.

5) The Turtle’s Head (11′, 2014)

The Turtle’s Head è invece qualcosa di molto diverso e rende chiara l’innata dote di Ari Aster a sconvolgere le nostre aspettative con colpi di scena del tutto imprevisti. Così, ci rendiamo conto ad un certo punto di essere davanti a una storia assai diversa da quella che ci saremmo aspettati inizialmente. In apertura sembra una detective story maschilista, completa di iperbolica voice over. Il perfetto prototipo di noir hard-boiled, che dal genere riprende l’uso di musica, fotografia, indizi telegrafici, persino le stesse scelte tipografiche. Inoltre, il corto ci coinvolge, motivo per cui è così efficace e sorprendente quando muta rapidamente in un agghiacciante body horror.

Ari Aster - The Turtle’s Head (2014)Improvvisamente, infatti, tutto il potere e l’aggressività che il protagonista esercita scompaiono, proprio quando si rende conto che il suo pene sta iniziando a ridursi in maniera inspiegabile. Il senso di mistero è creato grazie all’inquadratura che riesce a catturare e trasmettere l’angoscia esistenziale del detective Bing Shooster (Richard Riehle) e viene relegato in secondo piano quando inizia la sua crisi. Anche in questo caso, è sconvolgente quanto il regista possa realizzare in soli dieci minuti.

Il twist può sembrare allora divertente, ma Ari Aster indugia sull’immagine di questi grotteschi genitali che rimpiccioliscono per un tempo assai lungo del necessario, tutto allo scopo esplicito di metterci a disagio e costringerci a relazionarci con questa massiccia dose di orrori, come è peraltro costretto a fare il detective Bing Shooster.

The Turtle’s Head è indubbiamente il cortometraggio più apertamente umoristico tra quelli girati da Ari Aster (trattasi di dark humor ovviamente), e ci stupisce quanto una storia possa cambiare così profondamente il proprio tono, quando viene rivelato il vero soggetto della narrazione. Ed è esattamente questo che gli conferisce un tale impatto.

6) C’est La Vie (7′, 2016)

Chiudiamo la nostra rassegna con C’est La Vie, una storia che viene raccontata attraverso il poco attendibile punto di vista di un senzatetto tossicodipendente (Bradley Fisher). Il risultato è un colossale attacco alla società e al consumismo, sottolineando che nessuno desideri essere un senzatetto, ma finisca così dopo essere stato masticato e sputato fuori dal sistema. È un’analisi sconvolgente su quanto in basso possa precipitare un uomo. Tuttavia, non c’è nessun elemento effettivamente horror, l’unico vero orrore messo in scena sta nell’essenza oscura dell’umanità. E c’è anche un risvolto paradossale: Chester Crummings, il senzatetto, condanna l’umanità e la società, ma allo stesso tempo non dimostra certo di essere migliore.

Ari Aster - C’est La Vie (2016)Predica, ma allo stesso tempo miete vittime. Assassina una famiglia durante l’irruzione in una casa, per poi urlare: “E non farmi nemmeno iniziare con l’AIDS!”. L’intero film rasenta il grottesco, pur rimanendo un crudo esame non solo dell’ambiguità che regna negli Stati Uniti, ma anche nella famiglia tradizionale e delle dinamiche che vigono al suo interno, da cui Aster è tanto affascinato.

Nonostante i suoi soli 7 minuti di durata, man mano che avanza il minutaggio, C’est La Vie diventa decisamente più oscuro e più intenso, quasi stessimo precipitando nel baratro insieme alla controversa voce narrante. Nella ‘serie di ritratti’ proposta dal regista, è il più vicino a Basically, e seppure i rispettivi protagonisti siano agli antipodi, la crudele critica sociale rimane sempre la medesima, come fossero due facce della stessa medaglia. In tal senso, ci mostra una diversa sfumatura dell’orrore che Ari Aster è capace di immortalare con la videocamera.

Una degna conclusione può essere rappresentata quindi dalle parole del senzatetto alla fine di C’est La Vie:

“Sapete cosa dice Freud sull’essenza dell’horror? Dice che è quando la [vostra] casa non sembra più la vostra casa. [diventa] Unheimlich. Ed è quello che questo posto è diventato. Per tutto questo tempo, e [questo] maledetto paese, e tutto il resto. È Unheimlich”.

Certo una massima che Ari Aster ha sfruttato ampiamente per dare vita agli incubi terrificanti al centro del proprio cinema.