Voto: 7/10 Titolo originale: The Last Boy Scout , uscita: 13-12-1991. Budget: $29,000,000. Regista: Tony Scott.
Dossier: L’ultimo Boy Scout, Bruce Willis cazzutamente in missione per la sopravvivenza
03/04/2022 recensione film L'ultimo boy scout - Missione: sopravvivere di Francesco Chello
La notizia dei giorni giorni non può che essere l’addio alle scene della star 67enne. L’unica cosa giusta da fare è quindi celebrarla. E noi lo facciamo attraverso uno dei suoi (tanti) titoli cult. Damon Wayans è la giusta spalla in questo folle buddy movie del 1991 diretto da Tony Scott su sceneggiatura di Shane Black. Un film d’azione adrenalinico e divertentissimo, in cui battute e pallottole lasciano il segno in egual misura.
E’ di un paio di giorni fa la notizia dell’addio alle scene di Bruce Willis per problemi di salute. La famiglia ha confermato le voci secondo cui la star 67enne sarà costretta, suo malgrado, a rinunciare alla recitazione a causa di una diagnosi di afasia, disturbo che comporta problemi cognitivi come difficoltà e incapacità di comporre o comprendere il linguaggio a causa di lesioni cerebrali dell’area deputata alla sua elaborazione.
Una diagnosi che, secondo alcune fonti vicine alla famiglia, potrebbe essere riconducibile ad un infortunio alla testa che Willis aveva riportato nel 2002 sul set de L’Ultima Alba (Tears of the Sun), ipotesi chiaramente non verificabile. Una di quelle notizie che non possono passare di certo inosservate, non fosse altro per lo status di un’icona che risponde al nome di Bruce Willis. La fine di quella carriera che, testuali parole, ha significato così tanto per lui. Ma anche per noi. Ed in questo momento l’unica cosa giusta da fare è celebrarlo. Un atto sincero, spontaneo, senza retorica.
Partendo dal presupposto che, a mio parere, ogni articolo / recensione dovrebbe essere personale, trovo ci siano pezzi più personali di altri. Come per me, in questo caso. Per spiegare il mio sentimento, vorrei partire quasi paradossalmente dall’ultima parte del curriculum di Bruce Willis, quella – come dire – più discutibile.
Innanzitutto perché alla luce di questa diagnosi, anche determinate scelte professionali possono assumere un significato differente, essere viste sotto un’altra luce. La fase che io spesso definivo dei ruoli brevi e guadagni facili. Un periodo anche piuttosto prolifico, ma a parte alcune eccezioni da protagonista – apparentemente saltuarie, ma con (furba) cadenza più o meno regolare, in modo da restare comunque agganciato in qualche modo al giro che conta – come il simpatico Once Upon a Time in Venice, il dimenticabile remake di Il Giustiziere della Notte (la recensione) o il maldestro Glass (la recensione), per la maggior parte fatto di piccoli ruoli perlopiù innocui (sicuramente ben pagati) in produzioni non sempre entusiasmanti (spesso DTV), recitati con la carica e l’entusiasmo di chi ha perso ogni forma di stimolo.
Ecco, aldilà della dubbia qualità di questi prodottini, era proprio l’atteggiamento di Bruce a restarti impresso: spento, scazzato, distaccato, fiacco. Alla luce di questo annuncio tutto torna ed è evidente che, nell’ottica della malattia, questi ingaggi si prestano ad un altro tipo di interpretazione. Produzioni che offrivano massima resa col minimo sforzo, quello sforzo conciliabile con pochi di giorni di riprese ed interpretazioni non molto impegnative (sia dal punto fisico che del coinvolgimento vero e proprio), considerando che secondo alcune testimonianze recenti sembra che Willis avesse difficoltà a ricordare le sue battute arrivando ad aiutarsi persino con un auricolare – e immagino che, purtroppo, di racconti di questo tipo ne sentiremo ancora, ora che la notizia è stata sdoganata.
Qualcuno obbietterà che avrebbe potuto chiudere diversamente, magari uscendo dalla porta principale; io dico che sono scelte personali, insomma saranno pure cazzi suoi. Di certo non hanno obbiettato quei piccoli produttori gongolanti a cui non sembrava vero di poter piazzare il volto ed il nome di Bruce Willis su dei prodotti che probabilmente in sua assenza avrebbero venduto un decimo delle copie ad essere generosi. Una fase di carriera di cui mi è capitato di parlare più volte – anche da queste parti dove credo siano almeno tre i film che ho recensito che hanno le caratteristiche in questione, verso la quale ho nutrito un atteggiamento critico e per certi versi anche un po’ risentito.
Ma mai banalmente perculante o ingenerosamente irrisorio, e questo lo dico con orgoglio – specie ora, col senno di poi. Perché di base c’è sempre stato il rispetto e l’amore per tutto quello che era venuto prima, per quello che Bruce Willis ha rappresentato per il cinema in generale e, soprattutto, per il cinema che piace a me. Mi sono sempre posto, dicevo, come chi bacchetta un parente o un amico stretto per qualcosa che ritiene stia sbagliando, augurandosi possa tornare sulla retta via.
Ero severo, contrariato, finanche incredulo (nonostante il perdurare della cosa), ma sempre speranzoso di un’inversione di tendenza. A riprova di questo mio strambo circolo vizioso, c’è il fatto di aver continuato regolarmente a vedere e comprare tutti questi film: pur avendo la consapevolezza di rimanere insoddisfatto in buona parte dei casi, di beccare Bruce a malapena di striscio (e magari pure scoglionato), sono sempre stato lì ad acquistarli al buio ed esclusivamente per la sua presenza.
Nei tempi d’oro bastava sapere ci fosse lui per scegliere di vedere un determinato film, sono semplicemente rimasto fedele a questo concetto nonostante sapessi che la situazione nel frattempo era cambiata drasticamente. Anche quando in redazione mi chiedevano perché continuassi a farmi del male con dei DTV che avrebbero visto in pochi. Arrivando a vedere il bicchiere mezzo pieno in filmetti come Breach (la recensione), solo perché avevo visto Bruce meglio rispetto agli standard recenti – in quella occasione avevamo parlato anche dei Razzie Awards che avevano creato una categoria ad hoc per lui, salvo ritirarla in questi giorni in segno di rispetto dopo l’annuncio del suo ritiro dalle scene.
Tuttora ho in corso un ordine online che comprende un paio di quei titoli e conto di farne altri non appena la distribuzione ci consentirà di completare la sua fittissima filmografia recente – ma anche prossima, considerando che dovrebbero esserci almeno altri otto film in odore di release. Anzi rilancio, ora ho ancora più voglia di farlo, perché a quanto pare saranno gli ultimi che vedranno il nome di Bruce Willis tra i credits, una ragione che vale una visione ed un acquisto a prescindere da tutto.
Magone, quindi, a cui voglio rispondere con una celebrazione. Non voglio ripercorrere la sua carriera o snocciolare titoli come se stessimo affrontando un ricordo, fortunatamente Bruce Willis è vivo e vegeto e, cinema a parte, l’augurio è che possa godersi la pensione nel migliore dei modi compatibilmente con la sua condizione.
Voglio però parlarne come di un attore che, grazie a talento e personalità, fa parte di quella cerchia di nomi a cui sarò sempre inevitabilmente legato. Di quelli che mi hanno accompagnato dall’infanzia alla maturazione, da ragazzino a uomo.
Un interprete che ha ridefinito il concetto di eroe d’azione in un periodo storico in cui quella figura rispondeva a canoni differenti. Tanta azione ma non solo vista la ammirevole capacità di mettersi alla prova (e lasciare il segno) in praticamente tutti i generi cinematografici e con i registi (spesso di pregio) più disparati. Un curriculum che vanta una serie di cult e successi commerciali come pochi altri. E qui sto parlando oggettivamente. Il plus soggettivo sta nel fatto che diversi di quei titoli facciano inevitabilmente parte dei miei preferiti. Ed è proprio tra quelli che ho scelto il film attraverso cui veicolare il mio omaggio di oggi a Bruce Willis. Mi riferisco a quella roba incredibile che risponde al nome di L’ultimo boy scout – Missione: sopravvivere (The Last Boy Scout).
Siamo nel 1991, tre anni prima Die Hard (pietra miliare di cui avevo avuto l’onore di scrivere un paio di anni fa) aveva cambiato per sempre la carriera di Bruce Willis. I tempi sono maturi per un nuovo classico del cinema d’azione. L’ultimo Boy Scout, appunto. I meriti sono da condividere tra diversi soggetti a cominciare da Joel Silver, energico produttore estremamente pratico e coinvolto in ogni aspetto della produzione, che tenta di ripetere una combinazione magica simile a quella che gli aveva permesso di realizzare una bomba della portata di Arma Letale (la recensione).
Da quel film preleva una penna ispiratissima come quella dello sceneggiatore Shane Black, che dopo un periodo di crisi professionale (e sentimentale) culminata con l’abbandono in corsa di Arma Letale 2, trova in questo script il modo migliore per tornare in pista. Dopo il rifiuto di John McTiernan, Silver affida la direzione ad un regista bravissimo (e sottovalutato) come Tony Scott.
Ed offre il ruolo da protagonista ad uno Bruce Willis in stato di grazia, dopo che la produzione aveva valutato il nome di Jack Nicholson. Il bello è che rispetto ad Arma Letale, dove l’alchimia tra le parti aveva creato un clima lavorativamente ideale, disteso e familiare e di assoluta cooperazione, la produzione de L’ultimo Boy Scout si rivela una polveriera in cui tutti hanno problemi con qualcuno, una situazione che nove volte su dieci avrebbe finito per ripercuotersi sulle sorti di un film che invece sullo schermo non solo funziona alla grandissima ma non lascia trasparire il benché minimo segnale di dissapori produttivi.
Un ambiente pieno di maschi alfa all’apice del proprio stardom, ognuno con la sua opinione e la voglia di farla prevalere. Ma facciamo qualche esempio. Shane Black e Tony Scott dichiareranno che la sceneggiatura originale era molto meglio di quella effettivamente utilizzata (e modificata). Black è costretto a riscrivere il copione più volte di quanto abbia mai fatto in carriera, mentre il regista racconterà le difficoltà di una produzione in cui ad un certo punto le redini vengono prese da Bruce Willis e Joel Silver che rivedono parti della sceneggiatura, col produttore che lo obbliga ad accettare e girare le rettifiche a fronte della minaccia di perdere il lavoro e non venire pagato.
Non a caso Tony Scott si vendicherà nel successivo Una Vita al Massimo attraverso il personaggio di Lee Donowitz (produttore cinematografico, cocainomane e spacciatore) ispirato proprio alla sua visione di Joel Silver. Lo stesso Silver definirà la lavorazione de L’ultimo Boy Scout come una delle tre esperienze peggiori della sua vita. E non pensate sia finita qui considerando che Bruce Willis e Damon Wayans, che su pellicola mostrano una sintonia quasi invidiabile, in realtà hanno odiato lavorare l’uno con l’altro.
Un Willis all’ultima collaborazione (iniziata con Die Hard – Trappola di Cristallo) con Joel Silver, dopo che 58 Minuti per Morire e Hudson Hawk avevano già messo a dura prova il loro rapporto professionale. Passando per il compositore Michael Kamen (anche lui presente in Arma Letale) che dopo la prima visione dirà di aver detestato il film, accettando l’ingaggio solo per una questione di amicizia nei confronti del produttore e del suo protagonista.
Per non parlare della post produzione in cui la Warner Bros., preoccupata da alcune proiezioni di prova a dalla presunta sgradevolezza del personaggio protagonista (dopo ci arrivo e capirete quanto poco ne capiscono certi produttori), assume e licenzia svariati montatori che devono barcamenarsi nella mole incredibile di bobine girate da Tony Scott che amava riprendere con molteplici videocamere, fino ad arrivare a Mark Goldblatt – che ancora oggi non ne vuole parlare, limitandosi a ricordarla come una delle esperienze più frustranti della sua carriera – e Stuart Baird, che con qualche taglietto ponderato ha permesso di evitare il divieto NC-17.
Il fatto che invece l’insieme funzioni alla grande la rende una cosa grandiosa, oltre che sottolineare l’indice di professionalità delle persone coinvolte. L’ultimo Boy Scout è uno di quei film che hanno tutto al posto giusto, che ti ficcano nella memoria tanto le battute memorabili, quanto le sequenze d’azione, che se stai lì a parlarne con gli amici s’innesca un domino di citazioni che non finisce più. Un ritmo senza soste, durante l’ennesimo rewatch ad un certo punto mi è caduto l’occhio sul timer: ero arrivato al minuto 40 e questi non si erano fermati un attimo.
Si parte con un prologo che setta il mood, le note di Friday Night’s a Great Night for Football cantata da Bill Medley ci portano nel mezzo di una partita di football, acqua e fango sono la cornice di un evento straniante utile ad inquadrare il contesto anche se non strettamente collegato agli eventi che verranno raccontati: nel mezzo di un’azione d’attacco, un giocatore ammazza a pistolettate gli avversari prima di uccidersi davanti a tutti.
Quel giocatore è probabilmente il ruolo più famoso della carriera di Billy Blanks, attore marziale che quelli con i miei gusti saranno tra i pochi a riconoscere. Da lì si innesca un plot che unisce la fase investigativa ad un repertorio action assortito che spazia dalle esplosioni alle fragorose sparatorie, da cazzottoni mortali a inseguimenti funambolici con includono auto che finiscono giù per una collina terminando la propria corsa in una piscina.
E ancora, largo uso di armi da fuoco ed esplosivi, persone arse vive, pistole nascoste nel culo di un peluche. Per arrivare ad un finale nuovamente in uno stadio, laddove tutto era cominciato, in cui un Damon Wayans a cavallo tira pallonate sul grugno di un senatore in tribuna, mentre Bruce Willis sale sui riflettori per scaraventare un sicario tra le pale di un elicottero.
Con un bodycount che alla fine segna 27 vittime. E’ chiaro che, da questo punto di vista, risulta decisiva la mano dell’inglese Tony Scott, scomparso nel 2012, fratello del più famoso Ridley; L’ultimo Boy Scout è il mio preferito in una filmografia come quella di Scott junior di cui, bene o male, apprezzo tutto, regista che ribadisco nel definire sottovalutato e che in generale meriterebbe maggiore considerazione per quanto postuma (e magari un dossier tutto suo).
La sua è una regia adrenalinica, dinamica, che ricorre al sapiente uso del ralenti nei momenti clou, che sfrutta un reparto sonoro vigoroso, valorizza primi piani dei protagonisti, sa quando enfatizzare la battuta ad effetto e quando il particolare di quell’azione che gestisce nel migliore dei modi.
Merito anche della storia che si trova tra le mani, il lavoro di Shane Black è scoppiettante. Lo sceneggiatore rifiuta un’offerta da 2 milioni e 250mila dollari della Carolco, accettando quella leggermente inferiore della Warner da 1 milione e 750 mila che gli offriva la possibilità di lavorare nuovamente con Joel Silver; è comunque un record, il primo a superare il muro del milione per la vendita di una sceneggiatura, mentre il record della cifra più alta dura appena 67 giorni visto che la Carolco aveva talmente voglia di spendere quei soldi da arrivare a 3 milioni per lo script di Basic Instict firmato da Joe Eszterhas.
Il buon Shane riprende per L’ultimo Boy Scout la formula del buddy movie, da cui elimina la parola cop visto che il magico duo è composto da un investigatore privato ed un ex giocatore di football. La storia è frizzante, incentrata sul riscatto più o meno metaforico di due individui che, per ragioni differenti, erano caduti rovinosamente quando si trovavano all’apice della propria vita professionale e familiare.
Dialoghi e battute brillanti (che in originale rendono decisamente meglio, visto che molte frasi ed espressioni vengono modificate o cambiate nella versione italiana), all’insegna del lessico colorito e della parolaccia (nel conteggio spiccano 102 ‘fuck’) e della noncuranza del politicamente corretto. In cui traspare il rancore di una persona che ha sofferto per amore – “I believe in love. I believe in cancer”, oppure “Water is wet, the sky is blue, women have secrets”.
Non mancano le autocitazioni, dalla frase “your show, ace” presente anche in Scuola di Mostri (scritto da Shane Black insieme a Fred Dekker, che poi lo dirige) a “There are no more heroes in the world” già inserita in quell’Arma Letale di cui compare uno spezzone mentre Darian guarda la tv – e, curiosamente, Damon Wayans finirà per interpretare Roger Murtaugh nella omonima serie televisiva.
La battuta sul pantalone da 650 dollari era destinata proprio al film di Donner, non essendo stata utilizzata viene riciclata da Black in uno scambio tra Joe Hallenbeck e Jimmy Dix. A proposito di autocitazioni, a un certo punto Joe parla di “reindeer goat cheese pizza”, probabile farina del sacco di Bruce Willis che menzionava la stessa cosa in Hudson Hawk.
C’è tempo per qualche meta-battutina, tipo Jimmy che parla di frase ad effetto usando come esempio “I’ll be back” di terminatoriana memoria, nel dialogo finale che in italiano viene completamente stravolto – reminder, provate a guardarlo in originale.
E veniamo finalmente a Bruce Willis, che si presenta carico, ispirato e di buon umore – a volte arriva sul set con strani travestimenti chiedendo ai membri della crew cosa pensassero di… Bruce Willis! – rivelandosi, manco a dirlo, il fiore all’occhiello di un film come L’ultimo Boy Scout che già di suo è impostato a puntino.
Nell’azione, ovviamente, in cui si mostra tosto e carismatico e con una sana predisposizione per l’omicidio. Ma è dal punto di vista recitativo che fa registrare una delle performance migliori, forse anche meglio di Die Hard. Bruce riesce in qualcosa di tanto inusuale quanto meraviglioso. Farti empatizzare con un fallito apparente.
Erano gli anni in cui tendevi ad identificarti con eroi tutti d’un pezzo, prototipo del macho, di un certo tipo di man of action. Joe Hallenbeck è un uomo stropicciato dalla vita al pari dei vestiti con cui dorme nella sua Buick Riviera del ‘71 dopo l’ennesima sbronza. Un matrimonio in crisi con una moglie che lo tradisce col collega e migliore amico (più vecchio e più brutto), una figlia adolescente che non lo rispetta. La bravura di Willis sta proprio nel riuscire a farti andare oltre questo ritratto sgarrupato, farti cogliere il carisma (e le palle) di un uomo che ha rischiato la vita per salvare il Presidente e perso il lavoro per aver preso a pugni un senatore pervertito.
L’idea della sua attuale condizione socio/emotiva non ti sfiora nemmeno per un momento, tu vuoi essere lui. Nonostante tutto. Attraverso quel tono di voce basso, evidentemente disilluso ma mai sommesso – e farti cogliere una differenza che sta nelle sfumature non è compito semplice. L’ironia tagliente sempre al punto giusto. E’ in gamba, è spavaldo, è cazzuto. Incassa i colpi come pochi (nel film viene aggredito fisicamente dodici volte: sette viene colpito al volto e tre alla nuca, oltre ad colpito con un taser ed infine pugnalato) ma li restituisce più forti di quando li ha ricevuti.
In questo senso è emblematico (e memorabile) il suo “if you touch me again I’ll kill you”. Ma anche sul piano ideologico, il riprendersi la stima della figlia così come quel perdono nei confronti della moglie che assume un plurimo significato misto di dignità, superiorità, amore.
Damon Wayans è la giusta spalla, battuta pronta e tempi comici, duetta bene con Bruce Willis, si prepara al ruolo allenandosi con Vince Evans (quarterback dei Los Angeles Raiders). Il suo Jimmy Dix è un personaggio simpatico (per il quale si era pensato addirittura a Mel Gibson), che ha uno strano modo di elaborare il lutto, si cala con coraggio in una realtà molto distante dalla sua. Danielle Harris è credibile nei panni dell’adolescente sveglia e ribelle che dice parolacce e disegna Satan Claus – ruolo che l’attrice ancora oggi ritiene tra i suoi preferiti, mentre Chelsea Field interpreta la moglie pentita.
Il reparto villain di L’ultimo Boy Scout conta sulla presenza di Noble Willingham, cowboy milionario e senza scrupoli, e soprattutto di Taylor Negron: il suo Milo appartiene alla stirpe dei Joshua di Gary Busey, si fa notare nonostante abbia meno tempo a disposizione anche a causa di una revisione di uno script inizialmente più dark in cui il suo personaggio aveva un peso specifico differente. Nel cast anche una giovane (e già sexy) Halle Berry per la cui parte Tony Scott inizialmente voleva Grace Jones (ingaggio ritenuto dispendioso dalla produzione per un ruolo così breve), mentre Kim Coates fa in tempo a beccarsi il pugno più letale di sempre.
L’Ultimo Boy Scout viene girato in 72 giorni (secondo alcuni 90, allungando di due settimane) tra marzo e giugno del 1991. Esordisce nelle sale statunitensi il 13 dicembre dello stesso anno. Qualcuno dirà che il periodo natalizio non era proprio l’ideale per un film così violento. Costato 43 milioni di dollari, ne incassa quasi 115 in giro per il mondo. Non pochi ma neanche tantissimi, probabilmente meno di quanto sperasse la produzione. Comunque quanto bastava a Bruce Willis per buttarsi alle spalle il flop dello spassoso Hudson Hawk, uscito qualche mese prima.
Saranno il passaparola e l’home video a decretarne il completo successo e conferirgli il sacrosanto status di cult. Un action cazzuto, divertentissimo, adrenalinico, irriverente. Se la pensate diversamente, l’unico beneficio che vi concedo è di scegliere se lo volete in alto o in basso. Io so che da ragazzino non mi perdevo un passaggio televisivo, per poi proseguire negli anni i rewatch grazie all’home video digitale. Non potrei farne a meno.
Così come di ballare la giga con Joe/Bruce alla fine del film. E non nascondo che, stavolta, durante quella danza avevo un sorriso malinconico stampato sul volto, imprevista reazione emotiva dovuta a motivazioni di cuore. Ed è proprio parafrasando un paio di battute conclusive del suo Joe Hallenbeck che scelgo le parole per l’augurio che mi sento di fare a Bruce Willis. Take it one step at the time. Be prepared. A cui aggiungo soltanto un semplice ma enorme GRAZIE.
Qui sotto trovate il trailer di L’ultimo Boy Scout:
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