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Diario da Venezia 76 | Giorno 4: J’accuse e Joker, iniziale speciale; Ema e Martone, che delusione!

01/09/2019 news di Redazione Il Cineocchio

I film di Roman Polanski e Todd Phillips raccolgono lodi di pubblico e critica, Il Sindaco del Rione Sanità e l'ultima fatica di Pablo Larrain meno

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Le biglietterie automatiche delle stazioni allertano subito chi si appresta a compiere un acquisto con l’annuncio: “Fate attenzione ai borseggiatori“. Bisognerebbe utilizzarlo anche sui vaporetti, dal momento che ieri una turista filippina è stata derubata di alcune migliaia di euro, cioè l’intera somma appena prelevata per godersi un periodo di vacanza a Venezia. Quando se n’è accorta ha compreso che il portafogli visto volare poco prima in acqua era il suo, gettato da una borseggiatrice che nel frattempo era riuscita a fuggire. Lo scippo sui vaporetti sembra essere una pratica diffusa, quindi è bene rimanere il più possibile fermi dove ci si trova, nel nostro caso al Lido.

Qui alla Mostra del Cinema negli ultimi due giorni sono stati proiettati i due migliori film della presente edizione – J’accuse di Roman Polanski e Joker di Todd Philips -, e sarà difficile vederne altri alla stessa altezza nei prossimi giorni. Prima di addentrarsi su questi due bisogna però dare conto del fatto che sia stato presentato anche il primo film italiano del Concorso, Il Sindaco del Rione Sanità di Mario Martone. Il direttore Alberto Barbera ha faticato parecchio nella selezione dei film italiani, trovandosi a scegliere tra opere deludenti e fatte in serie, con sempre i soliti attori e le stesse tematiche. Se per quanto riguarda i film stranieri ha potuto sbizzarrirsi tra il cinema d’autore di grandi maestri o il cinema popolare delle superstar, il nostro panorama non offre nessuna delle due possibilità e così Barbera ha esplicitamente dichiarato di aver scelto le opere che più hanno osato, cercando di proporre qualcosa di nuovo e fuori dagli schemi. Il risultato è stato un invito a Martin Eden di Pietro Marcello, a La mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco e appunto al film di Martone.

IL SINDACO DEL RIONE SANITÀ filmQuest’ultimo è tratto dall’omonima commedia di Eduardo de Filippo, dalla quale il medesimo regista aveva già ricavato una sua personale lettura teatrale, ora trasposta in versione cinematografica. Una scelta molto difficile, che rischia di risultare spiazzante tanto per quelli che videro la versione originale quanto per quelli che non la conoscono. Il testo di Eduardo ha per protagonista Antonio Barracano, uomo anziano che con l’aiuto di un medico di sua fiducia “gestisce” le liti e le gesta criminali del suo quartiere grazie a un timore reverenziale che tutti gli portano. Non è una persona di specchiata virtù, ma non è nemmeno un criminale vero e proprio. Come afferma Mario Martone, “potrebbe essere un personaggio di Shakespeare o di Dostoevskij, dove bene e male si fondono“. La sfida del regista è stata ambientare la vicenda ai giorni nostri modificando i connotati del protagonista, qui diventato un giovane di nemmeno quarant’anni. In effetti, quella sorta di massoneria plebea incarnata dal Barracano di Eduardo oggi non esiste più; e forse sulla scelta ha inciso anche la consapevolezza che la figura di un camorrista più moderno ricalca un modello di sicuro successo, come dimostrano recenti film e serie TV a tema criminale. Stride un po’ però il fatto che la sceneggiatura sia ripresa pari pari dal testo di Eduardo: alcune battute e alcune situazioni, che erano state scritte per un anziano, non si adattano bene ad un protagonista nel pieno delle sue forze. Eppure il lavoro risulta credibile anche perché molto ben recitato da tutti, in particolare da Francesco di Leva nella parte principale, per la quale dice di essersi ispirato alla figura di Mohammed Ali, del quale il suo Barracano intende riprendere l’impressione di forza che nasconde però fragilità interiori che lo rendono “un uomo che ha paura in casa sua”, come dimostra già la prima scena di Il Sindaco del Rione Sanità. Il pubblico ha mostrato il suo apprezzamento con otto minuti di applausi.

Parecchi di più ne ha raccolti Joker di Todd Phillips, con uno straordinario Joaquin Phoenix. Anche se la Mostra non è ancora arrivata al giro di boa, si consiglia già sin d’ora a chiunque altro fosse stato in lizza per la Coppa Volpi di miglior attore di ripassare il prossimo anno. Un suggerimento che potrebbe anche estendersi fino all’Oscar. Phoenix infatti giganteggia in questo ruolo che ha avuto predecessori illustri, tra gli altri, in Jack Nicholson e Heath Ledger. A differenza però delle precedenti versioni, dove il Joker traeva sempre il suo significato in contrapposizione a Batman, almeno per la prima ora del film il suo si spoglia di qualunque connotazione fumettara per diventare l’incarnazione di un dramma umano sulla follia e sulle dolorose circostanze che possono causarla. A simboleggiare questo disagio è una risata irrefrenabile provocata da una malattia nervosa anche in circostanze nient’affatto divertenti. Il film rasenta la perfezione finché si mantiene sulla descrizione di come nasce il noto personaggio che dà il nome al titolo, perché offre una possibilità di lettura che travalica la vicenda della figura immaginaria.

Cala leggermente di tono solo verso la fine, quando si trova costretto a riagganciarsi al fumetto e deve introdurre particolari che legano l’esistenza del Joker a quella del nemico storico Batman, che nel film si vede solo nei panni di bambino, e incominciare così un’escalation di pazzia criminale. In quel momento torna ad essere pura invenzione, dunque perde di senso ogni possibile interpretazione relativa al disagio sociale del Joker, che invece il regista sembrerebbe voler suggerire fin dall’inizio. In ogni caso un film di altissima qualità, soprattutto dal punto di vista delle interpretazioni. Al plurale, perché oltre allo strepitoso Joaquin Phoenix il cast comprende anche, nell’importante ruolo di contorno del presentatore televisivo, Robert De Niro. La sua presenza è simbolica. Da un lato perché richiama alcuni modelli a cui sembrano essersi rifatti gli sceneggiatori per costruire il personaggio del Joker, ovvero il Jack La Motta di Toro Scatenato, il Travis Bickle di Taxi Driver e il Robert Pupkin di Re per una notte. Tutte figure di perdenti, falliti, ossessionati. Dall’altro per una scena ben precisa, quella in cui il presentatore TV da lui interpretato abbraccia affettuosamente il futuro Joker (al secolo, nel film, Arthur Fleck). Con quel gesto Robert De Niro sembra prendere atto della grandezza del giovane collega e consegnargli così il testimone che lo consacra nuovo numero uno del cinema americano. Il film ha riscosso apprezzamento unanime, anche se forse non è riuscito da questo punto di vista ad eguagliare J’accuse di Roman Polanski.

joker film 2019 joaquin phoenixLe polemiche instaurate attorno alla figura del regista sono state lasciate alle spalle, come ha confermato l’atteggiamento di uno dei produttori del film Luca Barbareschi che ha voluto evitare di tornare sull’argomento nella conferenza stampa di presentazione del film. “Questo non è un tribunale morale (che peraltro non esistono perché nei tribunali non ci si occupa della morale ndr.), ma un Festival del cinema. Il film deve parlare, la giuria deve giudicare, il pubblico, se vuole, può applaudire”. Il progetto del film era in cantiere da circa otto anni e inizialmente era stato pensato in inglese, per il mercato internazionale. Piano piano si è imposto invece l’orgoglio dei francesi di raccontare nella propria lingua una vicenda importante della loro storia, e questo ha comportato notevoli rallentamenti nella ricerca del denaro necessario a finanziarlo. È valsa la pena aspettare a lungo, perché il risultato non sarebbe stato lo stesso. Francese è infatti Alfred Dreyfus, ufficiale dello Stato Maggiore condannato nel 1894 per alto tradimento sulla base di un’accusa poi rivelatasi falsa, degradato e imprigionato sull’Isola del Diavolo. Francese anche il vero protagonista del film, il colonnello Picquart (Jean Dujardin), integerrimo responsabile di un ufficio del controspionaggio che trova le prove dell’innocenza di Dreyfus ma viene ostacolato dall’omertà di tutti i suoi superiori, i quali non possono permettere di far trapelare un errore e una macchinazione tanto gravi commessi dagli alti gradi dell’Esercito.

Tutto quel che viene raccontato è accaduto veramente e ciò lo rende non solo un grande film ma anche un documento storico importante su un fatto così poco noto nei suoi dettagli che persino gli attori, francesi, ammettono di non averlo mai conosciuto a dovere prima di girare il film. In conferenza stampa un giornalista ha riferito di aver visto il film insieme al direttore del Festival di Cannes, il quale avrebbe affermato che da oggi nelle scuole sarà sufficiente mostrare J’accuse di Polanski per spiegare alla perfezione l’Affaire Dreyfus. Se il film è riuscito così bene, con ogni probabilità ciò non si deve solo all’indubbio talento di Roman Polanski, ma anche al fatto che egli è convinto di essere un perseguitato al pari di Dreyfus, come ha recentemente dichiarato in un’intervista allo scrittore francese Pascal Bruckner. Il suo impegno allo spasimo nel rivalutare la figura dell’ufficiale francese nascondeva probabilmente anche il desiderio di parlare di vicende dalle quali si ritiene anch’egli, a torto o a ragione, tormentato. In questo film ha messo insomma sé stesso, non soltanto in senso letterale per il brevissimo cammeo in cui compare nella scena del ricevimento. Ma a prescindere dalle ragioni che lo hanno portato a realizzare un film così maestoso, conta il risultato finale e l’apprezzamento incondizionato riservatogli da pubblico e critica.

Proprio nella coda di una giornata in cui tutti i film erano stati buoni se non esaltanti è arrivato il veleno. Ad iniettarcelo è stato il cileno Pablo Larrain, autore solitamente apprezzabile (tra gli ultimi lavori “Neruda” e “Jackie”) ma stavolta farneticante con il suo Ema. È la storia di una ragazza (Mariana di Girolamo) che si veste in modo inguardabile, passa il tempo in strada a ballare una spacca timpani musica reggaeton e a intavolare discorsi da bollino rosso con le amiche, passando dalla teoria alla pratica con disinvolta promiscuità bisex. Ha un marito coreografo di nome Gaston (Gael Garcia Bernal), col quale i rapporti sono freddi da quando i due hanno deciso di abbandonare un bambino di nome Polo, adottato qualche anno prima. A un certo punto Gaston le fa una scenata dicendo che passa il tempo ad ascoltare musica per imbecilli, e lo spettatore per un attimo si rincuora scoprendo di non essere l’unico a pensarlo. Ma Pablo Larrain è implacabile e non si contenta di tormentare lo spettatore con un frastuono terribile che nemmeno un adolescente rimbambito sopporterebbe, ma lo sottopone anche a scene girate con un continuo movimento di macchina che provoca il mal di mare. Una tecnica tipica di chi non ha un’idea precisa di cosa mostrare e tenta d’ingraziarsi almeno i sacerdoti del “piano sequenza” e gli ammiratori di ogni virtuosismo di camera. In sostanza Ema dividerà: o ne parleranno benissimo o, come chi scrive, malissimo. Dalle reazioni alla proiezione stampa, i primi dovrebbero essere meno dei secondi, e il pubblico sarà probabilmente ancora più severo. Forse questo film non uscirà mai in sala. Se uscirà, i minori di quattordici li salverà la censura, gli altri il passaparola.

Di seguito il trailer di Ema: