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Voto: 7/10 Titolo originale: Frankenstein , uscita: 17-10-2025. Regista: Guillermo del Toro.

Frankenstein (2025): la recensione della versione di Guillermo del Toro (Venezia 82)

31/08/2025 recensione film di William Maga

Il regista messicano firma un’opera gotica e tragica con Oscar Isaac e Jacob Elordi, tra hybris, dolore e compassione

Il Frankenstein di Guillermo del Toro riapre il laboratorio del mito senza smantellarlo: lo rianima. L’impianto narrativo resta quello che conosciamo, con il prologo tra i ghiacci e il racconto a specchio delle due voci, Victor e la Creatura / Mostro; la novità è nel modo in cui il regista riporta a galla la materia, trasformando l’orrore in tragedia operistica e la morale in una domanda intima e feroce: che cosa rende umano un essere, l’aspetto o le azioni?

In questo, il film è insieme summa e confessione della poetica di del Toro, ossessionata dagli esclusi, dalla tenerezza possibile nel mostruoso e dalla colpa di chi “gioca a fare Dio”.

Il confronto con la tradizione evidenzia una scelta di campo netta. Rispetto alle letture più “meccaniche” o grottesche del passato, qui la Creatura è un’anima prima ancora che un corpo: Jacob Elordi la interpreta come un bambino imprigionato in un gigante, sguardo di meraviglia e scatti d’ira, sete di linguaggio e condanna all’immortalità. È un’invenzione di pietra e nervi che impara “amico” prima di capire “sé”, e quando scopre di essere fatta di scarti, comprende la propria sventura con la lucidità di un adulto.

Dall’altra parte, Victor Frankenstein è il doppio speculare: Oscar Isaac lo tratteggia come un virtuoso della hybris, sedotto dall’idea di deporre la morte e piegare la materia, fino a confondere scienza, lutto e vanità. Se il rapporto padre-figlio è il cuore pulsante del romanzo, qui assume una concretezza emotiva che brucia: il creatore genera il proprio carnefice e si condanna a riconoscerne la somiglianza.

La messinscena tiene insieme grandiosità e tattilità. Del Toro privilegia spazi fisici costruiti con cura maniacale: il castello-laboratorio, i convettori verticali, i conduttori di fulmini, la sala d’esperimenti che pare un palcoscenico con il motto latino inciso in facciata. La fotografia satura rossi e verdi, scolpisce i volti con ombre che ricordano certo espressionismo europeo; i costumi definiscono psicologie prima ancora che epoche; la musica avvolge e sprona, porta la tragedia a un volume emotivo che non chiede permesso. Il risultato è un “gotico” sensoriale in cui ogni oggetto ha peso, ogni tessuto racconta, ogni cicatrice è una frase del discorso.

Il film dialoga con l’intera opera di del Toro: l’infanzia ferita e i fantasmi della Storia de La spina del diavolo e Il labirinto del fauno riaffiorano nella Creatura come memoria del dolore; l’amore per il “mostro” de La forma dell’acqua torna qui spogliato di romanticismo, come pietà tragica; l’architettura gotica e il desiderio di possesso di Crimson Peak diventano laboratorio della hybris di Victor; la cornice noir de La fiera delle illusioni ricompare nella critica alla manipolazione e allo spettacolo della scienza; la manualità artigianale di Pinocchio – corpo assemblato, paternità imperfetta, vita nata dall’artificio – è la prefigurazione più diretta; persino gli esordi di Cronos e Mimic, tra carne e metamorfosi, anticipano l’ossessione per la materia viva e la responsabilità di chi la modella.

Frankenstein appare dunque come sintesi e rifrazione: non un’opera isolata, ma il punto in cui i temi sparsi della sua carriera convergono in un’unica partitura.

frankenstein del toro film 2025Sul piano drammaturgico, il film alterna momenti di stupefacente intensità a passaggi meno risolti. L’arco sentimentale che coinvolge Elizabeth, pur sostenuto dalla presenza magnetica di Mia Goth, a tratti appare più dichiarazione di poetica che necessità narrativa; le pulsioni edipiche sono esposte con franchezza che sfiora l’ovvio. Eppure, quando la storia si stringe sul duello morale tra padre e figlio, il racconto ritrova una precisione chirurgica: la Creatura che apprende la parola “amico” dal cieco, il desiderio di morire negato come condanna eterna, la consapevolezza che la vita può essere crudeltà senza tregua. Qui il film tocca il suo vertice, restituendo al mito la sua dimensione di meditazione sul dolore: non “chi è il mostro?”, ma “di chi è la responsabilità del suo dolore?”.

Il dibattito sulla “fedeltà” a Mary Shelley è sterile se non si osserva dove l’autore spinge il baricentro. Del Toro preferisce la reverenza all’azzardo iconoclasta: non smonta il meccanismo, lo affina. A qualcuno parrà una scelta prudente; a molti sembrerà l’unico modo per rinnovare senza snaturare. La regia non reinventa la forma del racconto, ma ne riaccende il senso: mette in scena un mondo in cui la tecnica promette salvezza e consegna devastazione, in cui la guerra fornisce materia prima al sogno di onnipotenza, in cui l’amore per la vita genera una vita impossibile da amare. È una critica della superbia travestita da elegia romantica.

Gli attori reggono questo equilibrio. Isaac incarna un Victor seducente e ripugnante, capace di passare dall’eloquenza accademica alla furia infantile; Elordi dona alla Creatura un corpo pensante, insieme goffo e sensuale, che trasforma ogni gesto in apprendimento; la Goth porta in dote intelligenza e fragilità, spostando Elizabeth fuori dal ruolo di puro oggetto del desiderio e facendone un termometro morale dell’epoca. Attorno, figure come l’affarista che finanzia il laboratorio (Christoph Waltz) o il padre medico (Charles Dance)  irrigidiscono l’asse tematico: il capitale e la scienza, alleati, costruiscono il teatro del disastro.

Resta la domanda cruciale: è un film “di spettacolo” o un film “di idee”? È entrambe le cose, e la loro frizione è voluta. Quando punta al sublime sensoriale, Frankenstein preferisce il gesto largo alla psicologia minuta; quando torna alla carne viva dei personaggi, si fa sorprendentemente sobrio. Ne nasce un andamento sinusoidale che qualcuno leggerà come disomogeneità, altri come respiro. Nel finale, la pietà non assolve, e la sentenza è dura: chi crea senza assumere la responsabilità della propria creazione non è un genio incompreso, è il vero colpevole. La Creatura, invece, è il nostro specchio: desidera una comunità che non sa contenerlo e una fine che non può raggiungere. È la forma più pura della tragedia moderna.

In termini di efficacia, Frankenstein convince quando si fida del silenzio e dei corpi, meno quando spiega quello che le immagini già dicono; emoziona perché trasforma un racconto arcinoto in un’esperienza sensoriale e morale dove la bellezza non addolcisce l’orrore, lo rende pensabile. È un grande film popolare nel senso migliore: accessibile senza semplificare, sontuoso senza compiacimento, radicale nella compassione. Non demolisce il mito, lo riconsegna al presente con una domanda che ci riguarda tutti: se la vita ci condanna a ferire chi amiamo, quale responsabilità abbiamo nel tentare di non farlo?

Di seguito trovate il teaser trailer doppiato in italiano di Frankenstein:

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