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Voto: 4.5/10 Titolo originale: Punisher: War Zone , uscita: 05-12-2008. Budget: $20,500,000. Regista: Lexi Alexander.

Dossier: The Punisher (2004), come stravolgere e tradire al cinema la sacralità di un fumetto

05/06/2023 recensione film di Francesco Chello

Thomas Jane è il protagonista del film scritto e diretto da Jonathan Hensleigh, che pecca di presunzione dimostrando di non aver capito nulla dell’opera originale, di cui non coglie lo spirito mortificandone elementi chiave

thomas jane the punisher 2004

In occasione della recente scomparsa di Ray Stevenson, avevo scelto di omaggiarne la memoria parlando di Punisher: War Zone (il dossier). Il migliore Punisher di sempre. Ribadirlo non fa mai male. In quella circostanza avevo fatto più volte riferimento alla precedente trasposizione cinematografica, The Punisher del 2004 di Jonathan Hensleigh. In termini poco lusinghieri, a dirla tutta.

Aggiungendo che per entrare nel merito di quelle affermazioni avrei avuto bisogno di un dossier a parte. Beh, detto/fatto. Che su questa cosa mi devo sfogare da diciannove anni, ma aspettare la cifra tonda del ventennale avrebbe avuto il sapore di una celebrazione inopportuna. E mi piaceva l’idea di farlo attraverso uno speciale, perché a volte anche le cose brutte hanno bisogno di approfondimenti.

Quella del 2004 è la seconda versione per il grande schermo del Punitore. Prima di allora c’era stato l’omonimo film di Mark Goldblatt del 1989 (arrivato in Italia come Il Vendicatore) con Dolph Lundgren nei panni del protagonista, un film imperfetto ma comunque godibile, divertente e, nonostante tutto, molto più Punisher del film di Hensleigh, che quel titolo lo tradisce così come fondamentalmente tradisce lo spirito dell’opera originale, nonostante il progetto nascesse con auspici propizi per non sbagliare.

Quegli auspici rispondono al nome di Garth Ennis, colui che nel nuovo millennio ha riportato in auge le gesta dell’antieroe della Marvel con uno dei cicli più importanti (e meritevoli) della storia cartacea del personaggio. Al punto da spingere la Casa delle Idee a puntare proprio su Frank Castle come nuovo character da lanciare al cinema in un momento in cui il genere non era certo inflazionato come ora, ed il parterre di personaggi più o meno inediti cinematograficamente era bello pieno di nomi anche più conosciuti dal grande pubblico.

ThePunisher.jpgUn’intenzione che pare risalisse al 1997, che aveva portato a includere il Punitore in un pacchetto di properties che avrebbero dovuto evolvere in film o serie tv sotto la produzione della Arstisan Entertainment con cui era stato trovato accordo plurimo intorno al 2000 – a quei tempi, la Marvel non produceva ancora i propri film in maniera autonoma. Il suddetto successo di Garth Ennis aveva involontariamente portato all’agognato semaforo verde per il passaggio transmediale. Insomma, per i fan del Punisher c’era di che gongolare. O quanto meno c’erano motivi per ben sperare. Mai aspettative furono riposte peggio.

Marvel e Artisan si mettono a caccia di quello che potesse essere l’uomo giusto. Ed è qui che si tagliano le palle. Con una scelta che si rivela tragicamente sbagliata. Mi riferisco a Jonathan Hensleigh, nome che molto probabilmente arriva su imbeccata (di parte) della produttrice del film Gale Ann Hurd (che per pura combinazione è anche sua moglie, ma tu guarda il mondo quanto è piccolo), e che fino a quel momento vantava esperienze solo da sceneggiatore.

Nel suo curriculum, infatti, c’erano gli script di titoli come Jumanji o Armageddon. E, soprattutto, di una roba esplosiva come Die Hard with a Vengeance – che, dettaglio non da poco, aveva il pregio di essere diretto da un signore di nome John McTiernan. Hensleigh firma il contratto ad aprile 2002, quando era lavorativamente fermo da due o tre anni.

E’ ambizioso, motivo per cui convince la produzione a farsi affidare sia la sceneggiatura (firmata insieme a Michael France) che la sua prima regia in carriera. Ambizione puramente teorica, che in pratica si trasforma presto in una presunzione devastante. In pre-produzione iniziano i primi scontri, il pomo della discordia sono i 33 milioni di budget (a fronte di una richiesta di 64) ed i 50 giorni previsti per le riprese, pochi secondo il filmmaker che decide di rimaneggiare la prima versione della sceneggiatura.

E su questo non voglio neanche tirargli la croce addosso, del resto avevo parlato di budget esiguo anche in occasione di Punisher: War Zone, che aveva goduto di una cifra simile. Esempio che però si ripercuote contro il suo predecessore, visto che il film di Lexi Alexander brillava dal punto di vista dell’azione, nonostante i soldini fossero gli stessi mentre i giorni di riprese erano appena 40.

Ma non sono nemmeno queste questioni ad interessarmi, anche perché l’ultimo dei problemi di The Punisher del 2004 è il budget, che in qualche modo viene nascosto da una resa visiva normale. Oddio, l’azione non è cospicua e neanche di alto livello, ma di questo parliamo dopo. Era giusto per farvi focalizzare sul modo in cui Hensleigh puntasse la pagliuzza perdendosi una trave monumentale.

Prima ho parlato di presunzione, ma forse ho sbagliato. Si tratta di ottusa ed arrogante presunzione. Quella con cui Jonathan Hensleigh approccia la sacralità del materiale d’origine. Lo stravolge e lo mortifica. Con un’aggravante. La presa per il culo. Perché il buon (NO!) Jonathan dice di aver lavorato su Year One (miniserie scritta da Dan Abnett ed Andy Lanning, pubblicata in 4 parti da dicembre 1994 a marzo 1995) e Welcome Back, Frank (firmata da Garth Ennis, dodici numeri usciti tra aprile del 2000 e marzo del 2001) come fonti per il suo script. Due run famose della storia editoriale del Punitore.

the punisher 2004 janePresa per il culo, perché è chiaro che questa cosa gli serviva per fare presa sulla fanbase. Peccato che tra ‘utilizzare come fonte’ e ‘prenderne molto vagamente una manciata di elementi che possano a malapena strizzare l’occhio al fan’, ci sia un’enorme differenza. Partiamo col dire che le due run risalgono a momenti storici, contesti e collocazioni temporali differenti, quindi anche solo l’idea di prenderne spunto per un mash-up è quanto meno pretestuosa. Ma quello è il meno.

Il punto è che parliamo davvero di pochi elementi per parlare di reale ispirazione. Prendiamo ad esempio Welcome Back, Frank, ovvero un arco narrativo anche abbastanza corposo (che lo stesso simpaticissimo Hensleigh definirà talmente lungo da necessitare di quattro ore di durata in stile Via col Vento) da cui in realtà viene preso abbastanza poco, se non giusto qualcosa come può essere un’ambientazione condominiale e quattro o cinque personaggi secondari.

Ma non Ma Gnucci, villain potenzialmente già pronta e impacchettata per lo schermo, per poi scegliere di creare Howard Saint appositamente per il film. Quando poi lo script originale prevedeva la presenza di Jigsaw (da noi Mosaico), una nemesi ricorrente (e di rilievo) del Punitore, che Hensleigh decide di tagliare in pre-produzione. Così come farà con Microchip, storico alleato di Frank Castle che il regista/sceneggiatore dirà persino di odiare. O col mitico battle van, il furgone da combattimento. Esempi a caso tra le tante cose cambiate rispetto al fumetto se non inventate di sana pianta, per una trasposizione che tradisce clamorosamente lo spirito del Punitore.

A questo punto, qualcuno potrebbe giustamente farmi notare che anche il Punisher del 1989 – che avevo detto di gradire – cambiava determinate caratteristiche del fumetto. Bene signor qualcuno, io ti ringrazio per l’intervento che mi permette di spiegare la differenza. Del film di Goldblatt condanno principalmente una scelta eticamente drammatica, quella di rinunciare al teschio sulla maglietta. E’ come Batman senza pipistrello. O Rocco Siffredi senza pisello, scegliete voi la metafora che preferite.

Per cui no, quello non andava bene affatto. Per quanto il teschio comparisse almeno sui pugnali. Ma le altre libertà creative (il background professionale, l’attentato, alcuni personaggi secondari ) si rivelavano modifiche in qualche modo innocue di un prodotto che sapeva incarnare lo spirito del personaggio; Frank aveva il giusto grado di squilibrio psicologico e alienazione, il film si svolge cinque anni dopo gli eventi che hanno sconvolto quella vita di cui non si preoccupa più, completamente dedicata a punire la malavita senza fare prigionieri (in nome dell’azione e del bodycount, come faceva il comic book).

E voglio dire, non credo che nel 1989 fosse così scontato trasporre a basso costo un fumetto probabilmente meno mainstream di altri senza fare grossi danni alla fonte originale – immagino siamo d’accordo sul fatto che Goldblatt non fosse nelle condizioni di un Tim Burton che gestiva un marchio come Batman per conto della Warner.

travolta in The Punisher (2004)Non volevo fare una storia di vendetta, volevo fare la madre delle storie di vendetta. Gli eventi che danno origine al vigilantismo non provengono dal fumetto, ho inventato molto di questo, l’ho fatto molto peggio.” Con queste parole Jonathan Hensleigh raccontava fiero e impettito quello che nella sua testa credeva di aver fatto con criterio.

L’unica cosa vera di quel discorso è il ‘molto peggio’. La serie di modifiche apportate svilisce e snatura puntualmente un materiale d’origine che viene storpiato in maniera imbarazzante e controproducente in nome di una immotivata supponenza. A questo punto faccio prima a raccontarvene qualcuna.

L’ambientazione si sposta da New York a Tampa (Florida), perdendo la cupezza e il degrado del contesto decisamente urban in cui siamo sempre stati abituati a vedere il Punisher. Frank conserva il suo passato militare, ma il suo nuovo presente lo vede diventare un agente dell’FBI sotto copertura (con tanto di prologo con capelli biondi e accento finto dal fare macchiettistico) perché probabilmente faceva più figo; in sostanza, nel film è già abituato a fronteggiare quella malavita che invece nel fumetto inizia a combattere soltanto dopo gli eventi traumatici in cui perde la famiglia, ex marine che dopo aver affrontato gli orrori della guerra tentava di reinserirsi nella società e tornare ad una vita normale.

E che aveva avuto la sfortuna di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato, mentre nel film l’attentato è un atto di vendetta nei suoi confronti per un qualcosa da lui involontariamente innescato. Attentato che sullo schermo, per immotivate manie di grandezza, assume una proporzione ridicolmente ampia, non più moglie e due figli persi in un’esecuzione a Central Park, ma praticamente tutto l’albero genealogico (ma con un figlio in meno, perché il figlio unico è più toccante) inclusi i parenti acquisiti e amici di amici interpretati per la maggior parte da stuntmen (e figli, visto che sono coinvolti svariati bambini), in una mega reunion dal tocco esotico a Portorico che nemmeno i matrimoni del Boss delle Cerimonie.

In pratica è come se tra qualche anno facessero un remake di John Wick in cui gli ammazzano tutta la carica dei 101. Strage da cui il nostro antieroe si riprende grazie alle cure di una specie di sciamano, che il tocco esoterico in un cinecomic deve starci bene per forza. Viene costruita una goffa backstory della t-shirt col teschio, regalata dal figlio, pare protegga dalle forze del male, tempo due minuti e muoiono tutti, con la maglietta che senza una ragione apparente finisce in mare in modo che Frank possa poi ritrovarla.

Nel film Castle affoga il dolore nell’alcol, perché come fai ad essere credibile come bello e dannato se non sei anche alcolizzato, inutile dire che la cosa non trova riscontro nell’opera cartacea in cui l’abisso da cui il Punitore non esce praticamente mai è il trauma stesso della perdita e basta da solo a rappresentare l’idea di una psiche sempre sul filo sottilissimo dell’instabilità.

Samantha Mathis e Marcus Johns in The Punisher (2004)Per non parlare di tutta la manfrina da simil investigatore privato da soap opera, l’intera strategia messa in atto per far credere a Saint che la moglie se la intende col capo degli sgherri. No, dico, sul serio? Non mi vengono commenti, solo insulti. Il Punisher certe le questioni le risolve con una pallottola in fronte, altro che inciuci da ruffiano che finiscono per diventare la parte più inutilmente lunga di un piano di vendetta assolutamente pregno di disagio.

Un fruitore poco avvezzo al personaggio e alla sua mitologia, leggendo questa serie di esempi potrebbe ritenerli ‘danni’ di poco conto. Come detto la volta scorsa, io sono fan del Punisher, è il mio personaggio preferito dei fumetti. E da fan posso dirvi che quello che compare nel film diretto da Jonathan Heinsleigh NON è il Punitore.

Bada bene, non che io sia il tipo di fan talebano che pretende aderenza alla lettera, d’altronde nello stesso fumetto si assiste con rinnovata frequenza a cambiamenti tra un ciclo editoriale e l’altro, per cui mi possono andare bene anche le libertà creative nel passaggio transmediale, che anzi spesso possono rivelarsi più funzionali al mezzo cinematografico, ma una certa fedeltà di fondo ci deve essere, non ha senso snaturare una fonte originale in nome della spocchia.

Ed in questa ottica ribadisco, The Punisher del 2004 di quella fonte ha solo il titolo, è un film che magari riesce pure ad indovinare una manciata di ‘momenti Punisher’ a loro modo anche apprezzabili, ma che nel complesso dimostra di non averne compreso lo spirito, tradito e stravolto irragionevolmente negli elementi chiave.

E la colpa è tanto di Jonathan Hensleigh quanto di Artisan – nei credits troviamo Lionsgate che a riprese in corso acquista la Artisan al suo ultimo film, senza però interferire in una produzione già avviata – e Marvel che gli affidano le redini, in particolare la Casa delle Idee che non fornisce un apporto creativo tale da tutelare la fanbase del personaggio, nonostante si tratti della prima co-produzione di un certo livello che la vede impegnata in prima linea.

Andando oltre i discorsi di natura fumettistica, tocca dire che anche provando a valutarlo come semplice film d’azione, The Punisher non entusiasma nemmeno in quel comparto. E dire che Jonathan Hensleigh ed il direttore della fotografia Conrad W. Hall, diranno di aver guardato decine di action movie anni 60/70 (da Dirty Harry a Getaway! passando per Il Buono, il Brutto e il Cattivo o Gangster Story, per arrivare a Mad Max, che viene omaggiato nella scena in cui Frank trova i corpi della moglie e del figlio), per cercare un’ispirazione che guardava a nomi come Sam Peckinpah e Don Siegel, altra paraculata (o ambizione immotivata, fate voi) che sullo schermo non trova corrispondenza.

Ben Foster, John Pinette e Michael Reardon in The Punisher (2004)Azione che viene circoscritta a non moltissimi momenti, specie considerando i 123 minuti di durata (anche tagliata rispetto a quella da 176 inizialmente prevista). E che a dirla tutta non è neanche chissà cosa. Almeno tre macrosequenze: l’attentato iniziale, Castle si difende pure ma, per forza di cose, è una scena passiva per il suo personaggio.

Va un po’ meglio durante lo scontro col Russo, frutto di due giorni di riprese, che prova a riprendere il tono grottesco di Ennis. Lo showdown finale, forse il momento migliore (anche in considerazione della lunga attesa) ma un pelino sbrigativo rispetto a quello che a quel punto avrebbe dovuto rappresentare, con la ciliegina di tutti gli sgherri che mirano sistematicamente al giubbetto antiproiettile manco ci fosse un bersaglio a punti.

Nel mezzo i due tizi ammazzati nel palazzo dei soldi di Saint ed il confronto con Harry Heck, personaggio apparso in Welcome Back, Frank ma qui in una versione solo lontanamente ispirata alla carta stampata (dove non ha una chitarra e non canta), sembra una specie di Johnny Cash in versione sicario, mette le basi per un confronto motorizzato che sembra promettere bene ma che si conclude in una resa inferiore a quelle premesse.

Il bodycount si assesta a 45 vittime mostrate su schermo, peccato che tra loro vi siano diversi parenti di Frank presenti alla riunione familiare galattica.

A questo punto parliamo anche di quei pochi (e azzeccati) ‘momenti Punisher’ menzionati qualche riga più su, anche solo per completezza oggettiva. Sequenze e/o momenti spot che chiaramente non salvano il risultato generale, ma che in quei frangenti riescono a riprendere le vibes giuste del personaggio.

Penso ai titoli di testa che indovinano font e impostazione, tra pallottole e teschio. All’entrata in scena nell’edificio dei soldi di cui sopra, col cappotto lungo e le pistole estratte in contemporanea. La Pontiac GTO dal telaio rinforzato, ideologicamente sensata per quanto soppianti il battle van e porti una targa con scritto Year One che uno penserebbe all’omaggio fumettofilo mentre invece è una banalissima coincidenza legata al nome dei customizzatori della GTO.

La lapide di Frank fatta ritrovare al boss priva della data di morte. La scena della tortura del ghiacciolo (presa dal numero 1 di Punisher War Zone di Chuck Dixon del marzo 1992). I personaggi di Spacker Dave (Ben Foster) o Bumpo (John Pinette), che riportano a quel clima condominiale di cui parlavo a proposito di Welcome Back, Frank – ci sarebbe anche Joan (Rebecca Romijn), lei un po’ diversa dalla controparte a fumetti, qui più indirizzata ad una poco attinente spruzzata di romance.

Senza dimenticare il Russo che proviene dalla stessa run (in cui il nome completo era Ivan Vassilovitch Dragovsky), gigantesco (e fumettoso) sicario che ha pure il merito di essere interpretato da Kevin Nash, che da appassionato del wrestling anni ’80/90 non posso non apprezzare – e che, per l’occasione, deve tagliarsi i capelli, cosa che nelle storyline da ring viene giustificata da una scommessa persa legata ad un match con Chris Jericho. Arrivando alla resa dei conti conclusiva, dal secchiello del ghiaccio con esplosivo (particolare presente in Year One) alla mattanza generale, per chiudere col teschio che viene a formarsi tra le auto in fiamme.

rebecca in The Punisher (2004)E, soprattutto, la dichiarazione d’intenti (che Frank Castle pronuncia in voice over) che rielabora il famoso discorso presente sempre in Year One, tra riferimenti al ‘si vis pacem, para bellum’ ed un epico ‘This is not vengeance. Revenge is not a valid motive, it’s an emotional response. No, not vengeance. Punishment’.

Bisogna spendere due parole anche per chi nel film del 2004 il Punisher lo interpreta. Mi riferisco a Thomas Jane, prima scelta di regista e produttori fin dall’inizio, che rifiuta l’offerta due volte ritenendosi poco affine a quella che riteneva potesse essere una roba di supereroi (per lo stesso motivo aveva declinato una proposta per X-Men del 2000), salvo poi convincersi ed accettare quando Avi Arad gli invia degli artwork di Tim Bradstreet.

Episodio che conferma quello che l’attore stesso dichiarerà in seguito, ovvero una conoscenza del personaggio praticamente nulla al momento della firma del contratto. Un personaggio che impara a conoscere sia durante il progetto che, probabilmente (e paradossalmente), ancora meglio dopo quando entra in contatto con una fanbase che lo aiuta a comprendere meglio lo spirito, la mitologia e l’importanza dell’opera; non a caso, Jane spingerà per un sequel che si diceva potesse essere più crudo (e che non verrà mai realizzato), salvo poi ripiegare in qualche modo nel 2012 con una partecipazione convinta al valido corto fanmade Dirty Laundry, che sembra quasi una richiesta di scuse e perdono nei confronti dei fan.

Dal punto di vista strettamente estetico/fisionomico forse non è esattamente il Frank Castle che mi sarei immaginato, ma questo è un parametro estremamente soggettivo, un non-problema, considerando che nello stesso fumetto quella fisionomia viene ciclicamente ritoccata nel corso degli anni e, come è normale e giusto che sia, ognuno può avere il proprio canone ideale – in cui Jane può starci senza che nessun altro si offenda.

Al tempo ho preso anche l’action figure da inserire nella mia collezione a tema Punitore, credo basti per dimostrare che non ce l’ho con lui. C’è da dire, inoltre, che Thomas prende la cosa seriamente, si allena per sei o sette mesi con i Navy Seals, si presenta con un fisico tirato a lucido dopo aver messo circa dieci chili di massa muscolare, ha un’unghia completamente nera frutto di un incidente sul set, ci mette fisicità e foga – pure troppa, tipo quando pugnala sul serio Kevin Nash nella lotta col Russo.

Mantiene il tono serioso e malinconico, un atteggiamento sufficientemente stone cold, parla per one line ad effetto; alla fine il suo è un Punitore in una fase di genesi, ci può anche stare che non abbia ancora un profilo perfettamente definito. Che poi venga sabotato da un copione di merda, questa magari non è colpa sua.

John Travolta è il nome di richiamo, compare volutamente su molti poster (a volte addirittura da solo) e su quasi tutte le edizioni home video; interpreta Howard Saint, villain creato appositamente per l’occasione per il quale erano stati sondati Patrick Bergin, Billy Campbell e Bruce Greenwood, John prova a dargli un po’ di carattere attraverso qualcuno dei suoi guizzi ma sembra meno incisivo di altre volte, a conferma di uno script scarso che nel suo caso propone un cattivo piuttosto average.

Affidabile come al solito Will Patton nei panni di Quentin Glass, il tirapiedi di Saint, mentre Eddie Jemison è Micky Duka, personaggio lontanamente ispirato a Mickey Fondozzi (32 presenze sul fumetto, tra il 1992 ed il 2001). Partecipazione di Roy Scheider vicino di casa di Hensleigh che in segno di amicizia scrive per lui il ruolo di Frank Castle Sr.

Uscito in patria ad aprile del 2004 (a luglio dello stesso anno in Italia), The Punisher incassa quasi 55 milioni di dollari in tutto il mondo a fronte di un budget da 33. Una corsa in sala chiusa in leggero attivo, incrementata poi dalle vendite in home video che fanno registrare quasi due milioni di copie del dvd vendute nel giro della prima settimana.

russo in The Punisher (2004)Alla fine, oltre ai fan ragionevolmente incazzati (che comunque avevano involontariamente contribuito pagando il biglietto), nel totale rientra anche lo spettatore generico che magari non conosceva la fonte e per questo poteva essere incuriosito e/o farselo piacere come semplice action di vendetta con John Travolta che fa il cattivo – del resto il mondo è strano perché è vario e a certificarlo c’è una media voto IMDb inspiegabilmente superiore sia al film del 1989 che quello del 2008, a conferma che la meccanica di certe statistiche lascia sempre il tempo che trova, e vista la mia capacità di predire il futuro vi dico che saranno gli stessi che commenteranno questo speciale (senza leggerlo) a suon di ‘Ma non capite niente, è un film bellissimohh!!1!’.

Un bilancio che porta Marvel Studios e Lionsgate a mettere in cantiere un sequel che inizialmente vede coinvolti gli stessi nomi, da Jonathan Hensleigh a Thomas Jane. Per un motivo o per un altro il progetto non decolla mai realmente, i nomi saltano, le versioni saranno diverse a seconda di chi le racconta. Fatto sta che, nonostante gli incassi, una Marvel probabilmente non convintissima di voler proseguire su quella linea, decide per una volta di dare il giusto peso ai sentimenti della fanbase. Nessuna marcia indietro sul fare un nuovo film sul Punisher, ma l’indicazione di farlo in maniera assolutamente diversa. Ovvero Punisher: War Zone del 2008, per la fortuna di tutti noi amanti del Punitore e delle sue gesta.

Esattamente il contrario di quello che è successo col film di Jonathan Hensleigh del 2004, una trasposizione che quegli stessi fan li ha delusi e traditi clamorosamente così come ha fatto con lo spirito dell’opera originale, col personaggio e la sua mitologia. C’è il titolo, il teschio sulla maglietta, ma manca la sostanza: manca il (vero) Punisher. Se cercate Frank Castle meglio rivolgersi altrove.

Di seguito trovate una scena di The Punisher: