Voto: 6/10 Titolo originale: Jason X , uscita: 09-11-2001. Budget: $11,000,000. Regista: James Isaac.
Dossier: Jason va all’Inferno e Jason X, gli esperimenti targati New Line
13/09/2024 recensione film Jason X: Morte Violenta di Francesco Chello
La Paramount cede il testimone (e i diritti) allo studio rivale che prosegue la saga realizzando due capitoli (nel 1993 e nel 2001) per certi versi ‘sperimentali’ - uno riuscito l’altro meno, che portano il franchise di Venerdì 13 in territori inusuali, contribuendo comunque ad alimentare il mito di Jason Voorhees attraverso nuove dinamiche e nuove situazioni
Oggi è venerdì 13. Il primo del 2024, a distanza di undici mesi dal precedente. So di ripetermi quando dico che per un fan dell’horror la data di oggi non può essere una data qualunque. E chiaramente non mi riferisco ad una ricorrenza, quanto proprio alla giornata calendariale. Specie se, come nel mio caso, il vostro boogeyman del cuore è Jason Voorhees, che a questo giorno è legato a doppio filo.
Da queste parti, poi, è ormai tradizione partire con le celebrazioni. Quando dicevo di ripetermi mi riferivo appunto al fatto che dal 2019 ho avuto l’onore di celebrare il venerdì 13 … parlandovi di uno – o più – Venerdì 13. Che è pure l’occasione per farvi un recap.
Avevamo iniziato dall’ultimo capitolo, il reboot del 2009 in occasione del suo decennale, passando poi per il quarantennale del capostipite nel 2020). Nel 2022 vi avevo raccontato dei capitoli II e III e della genesi del mito di Jason e dell’iconica maschera, mentre a gennaio 2023 era stata la volta del ciclo di Tommy Jarvis attraverso lo specialone su Parte IV, V e VI, per poi ripeterci ad ottobre dello stesso anno con le variazioni sul tema di Parte VII e VIII.
Le tradizioni sono fatte per essere rispettate, non potevo quindi sottrarmi dall’onorare questo venerdì 13 settembre 2024 parlandovi di altri due capitoli della saga. Chiaramente mi riferisco a Jason va all’Inferno del 1993 e Jason X del 2001. Entriamo nella fase degli esperimenti targati New Line, che prima decide di trasformare Jason in un’entità malefica capace di trasmigrare di corpo in corpo e poi di mandarlo nel futuro (e nello spazio).
Ma andiamo per gradi. Anzi, facciamo pure un passo indietro per aiutarvi a contestualizzare.
E torniamo addirittura a Venerdì 13 parte VI: Jason Vive del 1986, uno dei miei capitoli preferiti in assoluto che però al botteghino aveva raccolto meno di quanto meritasse – 19 milioni a fronte di un budget da appena 3 milioni, comunque niente male. Considerando gli incassi in fase calante, la Paramount era in cerca di un’idea che potesse rivitalizzare il brand risollevandone le sorti finanziarie. Ad un certo punto quell’idea sembrava essere un crossover con un brand in qualche modo rivale, vale a dire A Nightmare on Elm Street che in quel momento storico faceva registrare quasi il doppio degli incassi al boxoffice.
Arriva puntuale la proposta di Paramount a New Line, un’operazione congiunta in cui i primi avrebbero mantenuto la distribuzione domestica con i secondi a beneficiare di quella internazionale. Ma la New Line, seppur fortemente tentata, desiste anche alla luce del fatto che la Paramount puntava a mantenere un certo controllo creativo a dispetto di una property come quella di Freddy Krueger che in quel frangente conferiva una posizione di forza all’interno di una trattativa destinata a naufragare, con i due franchise orientati a procedere ognuno per la propria strada.
Paramount realizza altri due capitoli, nel 1988 esce Parte VII: Il Sangue Scorre di nuovo che fa registrare numeri simili al predecessore, mentre nel 1989 è la volta di Parte VIII: Incubo a Manhattan che invece scende a 14 milioni di incasso su 4 investiti. Numeri comunque in attivo, ma testimoni di un trend al ribasso che spinge la Paramount a fare una scelta probabilmente affrettata. Cedere i diritti di Jason Voorhees alla New Line (mantenendo quelli sul marchio Friday the 13th o su altri personaggi ad esso collegati, tipo Tommy Jarvis).
Scelta, dicevo, avventata e per certi versi anche scellerata. Voglio dire, dopo aver fatto registrare numeri da capogiro e spremuto la serie come un limone con otto film in nove anni, non dovrebbe essere difficile capire (ed accettare) una flessione che a quel punto è anche fisiologica, per cui non così grave o irrecuperabile da giustificare la cessione a cuor leggero di un personaggio ormai iconico ad un competitor.
Che non è l’unica scelta incomprensibile e anti commerciale di questa situazione, considerando ciò che New Line pensa bene di farne. Ovvero costruire Jason va all’Inferno, il proprio esordio sulla saga, sulla suddetta questione dell’entità malefica che si sposta da un corpo all’altro. Che io voglio anche capire la voglia di dare una propria impronta, di voler dimostrare di avere il pisello più lungo. Così come di voler approfittare per approfondire la quota soprannaturale di Jason (ormai immortale dal sesto capitolo), riscriverne quelle origini mai troppo approfondite, in modo anche di spostarsi in territori più vicini a quelli di Freddy in vista di un possibile incrocio.
Ma stravolgere una formula, una mitologia, una simbologia come quella di Jason Voorhees è un mix letale di stupidità e arroganza, di mancanza di rispetto verso il personaggio e l’intera fanbase. Fare un film di Jason senza Jason, ma in maniera differente da quanto aveva fatto (ancor più colpevolmente) nel 1985 Parte V: Il Terrore Continua, in questo caso Jason c’è ma… non si vede!
Se pago il biglietto per un qualsiasi prodotto legato al mondo Venerdì 13 lo faccio per il suo protagonista indiscusso, per vedere un energumeno con la maschera da hockey che massacra persone più o meno a caso per 90 minuti, non puoi ridurre il suo screentime a nemmeno dieci minuti a favore di un’idea che ne stupra le caratteristiche.
Potevano dimostrare la propria (presunta) superiorità puntando a fare un capitolo cazzuto, magari con qualche elemento novità ma restando fedele delle sue linee guida, ma per farlo sarebbero servite umiltà ed ambizione invece di affogare nella propria presunzione.
Ed uno dei portatori principali di arroganza e presunzione è proprio quel Sean S. Cunningham che il franchise di Venerdì 13 lo aveva addirittura fondato dirigendo il primo capitolo, salvo poi scendere dal treno in corsa in quanto trovava stupida la trovata di riportare in vita Jason nel secondo capitolo, dimostrandosi in quella occasione poco lungimirante visti i milioni che arriveranno a cascata proprio grazie a quel personaggio rocambolescamente ripescato.
Ora che lui lo ammetta o meno, questo per Cunningham deve essere stato un rospo difficilissimo da mandare giù, anzi considerando il suo mettersi varie volte di traverso direi che non è mai stato davvero digerito. Lo dimostra il fatto che nel momento in cui la New Line decide di coinvolgerlo – insieme al figlio Noel – come produttore del primo (e per certi versi storico) episodio realizzato da loro, il buon Sean abbia proposto di impostare la cosa proprio sullo sminuire la figura di Jason arrivando a chiedere che la ‘fottuta’ (parole sue, poi negate) maschera da hockey si vedesse il meno possibile.
Peccato solo che il nome di Jason compaia persino nel titolo del film e che l’eroe del franchise sia indiscutibilmente lui dal 1982. Non solo, ma è sempre Cunningham a chiedere di ignorare gli eventi di Parte VIII: Incubo a Manhattan (e sostanzialmente anche dei capitoli precedenti) in modo da prenderne le distanze – ci penserà un fumetto postumo a provare a fare da anello di congiunzione tra ottavo e nono capitolo con Jason che torna a Crystal Lake dopo essere stato immerso nei rifiuti tossici di una fogna di New York.
A conferma di uno stato evidentemente confusionale si aggiunge un’intervista dell’epoca rilasciata dal regista Adam Marcus in cui quest’ultimo sostiene che la storia si svolge grossomodo dopo gli eventi di Parte II: L’Assassino ti Siede Accanto… peccato che in quel film Jason non indossi la maschera da hockey!
Quando poi a posteriori, sarà ancora Cunningham a definire paraculamente Jason va all’Inferno un film imbarazzante e scaricare in qualche modo le colpe su Marcus – scelto perché grande fan della serie – con dichiarazioni eloquenti: ‘Adam è venuto da me e ha detto che l’ultima cosa che i fan volevano vedere era Jason attraversare ancora una volta Crystal Lake facendo a pezzi nuovi ragazzetti, quando in realtà era proprio quello che volevano’.
Per il titolo si era inizialmente pensato a Friday the 13th Part IX: The Dark Heart of Jason Voorhees ma, come detto in precedenza, la Paramount aveva mantenuto i diritti di sfruttamento del brand originale con conseguente dirottamento su Jason goes to Hell: The Final Friday. L’idea brillante (NO!) è praticamente quella di fottere lo stesso identico concept che era alla base del meritevole L’Alieno (The Hidden) del 1987, nonostante Adam Marcus – anche autore del soggetto nonché appassionato cinefilo di genere – si affretti a dire di non aver mai visto il film di Jack Sholder facendosi crescere un naso che Pinocchio a confronto era un dilettante.
Il bello (NO!) è che le prime versioni della sceneggiatura prevedevano addirittura l’inserimento di Elias Voorhees, pensato in prima battuta come il padre di Jason che ne dissotterra il corpo per mangiarne il cuore barcamenandosi tra strani rituali che potessero fargli ereditare il potere malefico (e la vena assassina) del figlio.
A dirla tutta non avrei disdegnato l’inserimento di una figura paterna che potesse veicolare una backstory (mai troppo approfondita) di Jason, magari utilizzando un filo soprannaturale che potesse ricollegarsi a quanto visto dal sesto capitolo in poi, ma sono contento che la proposta sia stata scartata se quella figura parentale doveva sostituirsi al nostro eroe.
Per far confluire le idee di Marcus in una sceneggiatura viene ingaggiato Jay Huguely che trasforma Elia Voorhees nel fratello gemello di Jason, ma il suo lavoro viene definito un miscuglio incomprensibile cosa che spinge Sean S. Cunningham ad assumere Dean Lorey (che fa anche un cameo nei panni dell’assistente del coroner) per scrivere uno script completamente nuovo in circa quattro giorni prima che una spazientita New Line minacciasse di cancellare il progetto.
Lorey aveva in mente di portare Jason a Los Angeles nel mezzo di una guerra tra bande che si uniscono per sconfiggerlo, spunto che viene bocciato subito dalla produzione, per cui si era limitato a una riscrittura della storia già abbozzata da Marcus e Huguely, eliminando il personaggio di Elias Voorhees ma mantenendo lo spunto del cuore mangiato ed annesso ‘trasferimento’ oltre ad inserire quello della sorellastra Diane (è il secondo film della saga, dopo il capostipite del 1980, a vedere la presenza di un altro Voorhees che non sia Jason) che però conduce una vita regolare e non ha velleità omicide.
Ma nemmeno il lavoro di Dean Lorey – che in seguito ammetterà alcuni errori come l’inserimento invasivo di un personaggio come Creighton Duke, mai visto in otto film precedenti, così come le regole per uccidere Jason – supera completamente l’esame, non piace al produttore della New Line Michael De Luca che concede comunque il via libera chiedendo una rifinitura che tocca a Leslie Bohem (non accreditato come sceneggiatore ma semplicemente come executive typist) che se ne occupa nel giro di un weekend, mentre in seguito viene arruolato (non ufficialmente, ma viene omaggiato dal nome di un agente di polizia presente nel film) pure Lewis Abernathy per riscrivere alcune sequenze tipo quella di apertura.
Rimaneggiamenti ripetuti che comportano inevitabili buchi di sceneggiatura, come quando Creighton Duke chiede a Jason se si ricordava di lui in una scena che fa riferimento a un flashback mai girato in cui la ragazza di Duke veniva uccisa dal killer di Crystal Lake e che invece così resta una frase senza senso che nessuno si è preso la briga di modificare.
Dopo aver sondato gente del calibro di John McTiernan e Tobe Hooper, la regia viene quindi affidata ad Adam Marcus, ventitreenne all’esordio assoluto (il più giovane che abbia mai diretto un episodio del franchise) che chiude il cerchio degli azzardi. Insomma, con queste premesse come potevamo augurarci che andasse bene. Gli errori commessi dal regista, ad esempio, sono anche di più di quelli che ti aspetteresti da un esordiente.
Come nel caso della gestione dei dailies, le riprese giornaliere, che di norma andrebbero verificate di giorno in giorno dal regista stesso e dal direttore della fotografia per essere sicuri di avere le riprese necessarie; in Jason va all’Inferno l’unico a dare un’occhiata ai filmati nei primi 28 giorni di shooting è stato il montatore David Handman, nessun altro verificava che i dailies fossero effettivamente utilizzabili quando, in realtà, gran parte di essi non lo erano.
Questo ha portato a recuperare soltanto 45/50 minuti del girato di Marcus, integrati poi con almeno 43 minuti di reshoots, un processo che ovviamente si è ripercosso sul plot con la perdita di alcune sottotrame (vedi quella tra Diane e lo sceriffo), l’aggiunta di altre, la compressione di determinate scene chiave (Creighton Duke che spiega le famigerate ‘regole’ – nascere da un Voorhees, rigenerarsi attraverso un Voorhees, morire per mano di un Voorhees che deve utilizzare un determinato pugnale rituale).
Per non parlare dei problemi con Kari Keegan (che interpreta Jessica) sottoposta a forti pressioni da parte del regista che insisteva per una scena di nudo integrale nonostante le resistenze dell’attrice che era stata chiara sull’argomento fin dalla fase di pre-produzione, un episodio che incrina irrimediabilmente i rapporti tra i due al punto che da far decidere alla Keegan di lasciare il set con qualche giorno d’anticipo, oltre che farle maturare di abbandonare la recitazione dieci anni dopo.
Nel momento in cui Sean S. Cunnigham si è reso conto che parte del girato di Adam Marcus era inutilizzabile, si è trovato costretto a curare parte dei reshoots in prima persona pur di non richiamare il regista sul set e permettere a Kari Keegan di poter essere presente.
Tra le riprese aggiuntive anche la scena di sesso tra campeggiatori, girata in seguito alle lamentele della New Line che riteneva ci fossero poco sesso e nudità, giusto per inquadrare il livello della produzione e il suo focus. Cunningham che tra l’altro aveva costretto Marcus a girare a 24 fps anziché 22 (tecnica che aveva sperimentato in occasione de La Cosa degli Abissi del 1989) per bypassare eventuali esitazioni del cast, senza considerare però i problemi che questa cosa creava all’audio oppure il semplice fatto che velocizzare i frame portava a ridurre ulteriormente il minutaggio del girato già esiguo di suo.
La scelta di Kari Keegan per la parte di Jessica era stata imposta da Sean S. Cunningham a dispetto di Adam Marcus e Dean Lorey, che invece avrebbero preferito Laurie Holden. John D. Lemay aveva già recitato (in un ruolo ovviamente diverso) nella serie tv Friday the 13th (che col franchise cinematografico condivide solo il titolo), in Jason va all’Inferno veste i panni di Steven, personaggio che inizialmente avrebbe dovuto essere Tommy Jarvis, ma i piani saltano a causa della già citata questione dei diritti mantenuti da Paramount – e mi fa sorridere il fatto che prima parlavano di prendere le distanze dagli altri film della serie e poi volevano piazzarci (e sfruttare) Tommy che compare da Parte IV a Parte VI.
Tony Todd si candida per interpretare Creighton Duke, ruolo per il quale si cercava un attore afroamericano per seguire la scia (omaggiandolo) di George A. Romero che per i suoi film riservava sempre character di rilievo ad attori di colore, poi andato a Steven Williams che chiese (ed ottenne) di potergli dare un outfit western. Tra l’altro, proprio su Creighton, Adam Marcus aveva una mezza idea di spin-off, a dimostrazione ulteriore delle intenzioni altamente divagatorie rispetto al materiale originale.
Per Duke aveva sostenuto l’audizione anche Richard Gant scelto poi per interpretare Phil il coroner, per il quale ha quasi vomitato quando ha dovuto mangiare il cuore fatto di gelatina, cocktail di frutta e colorante nero – mentre il prop del cuore pulsante sarà riutilizzato in Dal Tramonto all’Alba per il monkey’s man heart.
Originariamente i ruoli interpretati da Leslie Jordan e Rusty Schwimmer erano invertiti, Shelby era donna e Joey un uomo salvo poi essere scambiati dopo il provino dei due attori che sul set erano spesso incoraggiati ad improvvisare. Michael B Silver e Michelle Clunie erano davvero fidanzati quando vengono assunti per dare un volto alla coppia che fa sesso, peccato che i due si lascino poco prima delle riprese trovandosi in imbarazzo nella suddetta scena in cui appaiono nudi e avvinghiati.
Gli agenti Mark e Brian sono interpretati da Mark Thompson e Brian Phelps, duo al timone di un popolare talk show radiofonico trasmesso dalla stazione KLOS di Los Angeles. Maria Ford era la prima scelta per la particina (poi finita a Julie Michaels) dell’agente dell’FBI Elizabeth Marcus – sì, c’è pure l’(auto) omaggio per il regista esordiente. Era stata proposta una piccola partecipazione a Betsy Palmer che avrebbe dovuto riprendere i panni di Pamela Voorhees in un flashback, l’attrice però rifiuta per svariati motivi in primis economici.
A conti fatti verrebbe da chiedersi se Jason va all’Inferno sia tutto da buttare. Come nel caso di Parte V, la risposta è no. Da fan di Jason Voorhees e dell’horror (figlio degli anni ’80) qualcosa di buono riesco comunque a trovarlo.
Partiamo dalla dose di violenza veicolata da un corposo bodycount che fa registrare la bellezza di 22 uccisioni, che arrivano a 24 se si includono le due volte in cui ‘muore’ Jason, e sarebbero potute arrivare a 27 se non fosse stato per tre scene eliminate. Un record per la saga che sarà superato dal successivo Jason X, ma di questo ne parliamo tra poco.
Comparto sangue ed efferatezze che mette in luce un altro punto a favore come gli effetti speciali firmati dalla KNB di Kurtzman, Nicotero e Berger; si possono ammirare cosucce carine come un torso tranciato, teste spaccate, un polso spezzato con osso in bella mostra, un volto fritto nell’olio, una bocca rientrata per una gomitata, corpi crivellati dai colpi d’arma da fuoco, gente infilzata in vari modi, per non parlare di una gustosa sequenza melting, oppure della creaturina grazie a cui Jason riesce a trasmigrare o delle mani degli esseri infernali che provano a riportarlo nella dimensione a cui appartiene.
Non male anche il look del nostro amato Voorhees, ciuffi di capelli sulla nuca e vestiti in parte a brandelli, quello che resta della maschera da hockey è praticamente fuso su un volto in cui la carne deforme sembra prendere il sopravvento; Jason che viene interpretato ancora una volta (la terza, su quattro totali) da un Kane Hodder che si fa in tre (interpreta anche una guardia di sicurezza ed il famoso braccio artigliato che compare un attimo prima dei credits) e che ormai si muove con assoluta dimestichezza facendo valere presenza e movenze, mentre fuori dal set sa farsi apprezzare per il suo cuore d’oro come quando tranquillizza un ragazzino spaventato dalle sue (vere) ustioni o quando fa visita ai pazienti degli ospedali pediatrici.
Il peccato (mortale), ripeto, è lo screentime: esce di scena dopo sei minuti, ritorna sul finale per altri due minuti, nel mezzo qualche apparizione (suggestiva, riflesso negli specchi) per provare a tamponare la voglia degli spettatori, ma è decisamente poco per chi non chiede altro che Jason da un film di questo tipo.
Tra le note positive metterei anche una vena citazionista, non tanto quando in scena viene piazzato un Necronomicon senza grosse spiegazioni – e senza consenso, con Sam Raimi che ha dovuto scrivere una lettera di scuse al creatore Tom Sullivan che da allora non presterà più oggetti di scena senza concedere il permesso – che anzi confonde le idee al punto che alcuni fan sviluppano una stramba teoria secondo cui Jason sarebbe un deadite (di Evil Dead).
Quanto nei riferimenti sparsi che vanno dal nome del presentatore Robert Campbell (che omaggia Robert Englund e Bruce Campbell) allo sceriffo Landis, passando per la cassa nel seminterrato che era una prop presente nel segmento The Crate di Creepshow del 1982 (che a sua volta mostrava il nome Carpenter, possibile riferimento a La Cosa uscito lo stesso anno), un personaggio che nomina casa Myers, per arrivare alla frase pronunciata da Creighton Duke ‘The machete, the mask, the whole damn thing’ che si rifà a quella di Quint in Jaws (‘The head, the tail, the whole damn thing’).
La jungle gym di fronte casa Voorhees è la stessa presente ne Gli Uccelli di Hitchcock. Nota di merito la celebre apparizione pre credits, che sarà anche una paraculata ma ha il suo impatto (e l’effetto sorpresa per chi non l’ha mai visto, motivo per cui evito lo spoiler), oltre che provare a preparare il terreno al famoso crossover che vedrà la luce soltanto dieci anni dopo. In prossimità dei titoli di coda si può ascoltare anche uno stralcio del celebre ‘ki ki ma ma’, lo storico theme di Harry Manfredini che viene richiamato per curare le musiche del film.
Le riprese si svolgono dal 20 luglio 1992 al successivo 4 settembre, con una sessione di reshoots realizzata a febbraio 1993 che porta Jason va all’Inferno ad uscire quasi un anno dopo la fine dei ciak ‘ufficiali’, il 13 agosto 1993, l’unico capitolo della saga ad avere una release negli anni ’90. In Italia credo sia arrivato nel 1996 direttamente in home video, per poi concedersi anche un passaggio nell’edizione di Notte Horror del 1998.
Incassa 15.9 milioni di dollari (a fronte di un budget da 3, con la scena più costosa che si rivela essere quella con effettucci in CGI in cui Jessica afferra il pugnale sacro per uccidere Jason) che ne fanno il secondo peggior incasso della serie, una cifra che però – paradossalmente – è sufficiente a renderlo il miglior incasso per un horror del 1993.
Il poster del film presenta una maschera differente da quella poi effettivamente utilizzata, lo stesso parassita demoniaco ha un look diverso. La campagna marketing prevedeva inizialmente anche un videogame che venne creato senza però ottenere una distribuzione sul mercato.
Sul finire degli anni ’90, il tanto atteso progetto Freddy vs. Jason a cui ambiva la New Line era finito nello stallo del cosiddetto development hell. In un barlume di rinsavimento, Sean S. Cunningham (di nuovo assistito dal primogenito Noel) si rende conto che per far tornare interesse intorno al personaggio era necessario un nuovo capitolo. Possibilmente incentrato completamente su Jason, come ai vecchi tempi della Paramount, in modo da rimettere le cose a posto con i fan ancora incazzati per Jason va all’Inferno.
Magari cercando uno spunto inusuale che potesse riproporre quella stessa formula vincente e riportare indietro il caro vecchio Voorhees, ma comunque in un contesto differente dai precedenti perché per quanto redento non aveva intenzione di riproporre una situazione che si era ripetuta per anni (in cui, guarda caso, lui non era coinvolto).
Uno spunto forte, estroso, perché non assurdo. Tipo mandarlo nel futuro e nello spazio. Così de botto, senza senso. Cosa che, tra l’altro, era già successa ad altre saghe tipo Critters 4 del 1992 o Hellraiser: Bloodline e Leprechaun 4: in Space entrambi del 1996, anche se con esiti non esattamente incoraggianti che anzi erano stati un po’ il chiodo nella bara di quelle serie.
Nasce così Jason X, da un’idea che viene inviata da Todd Farmer attraverso un contest pubblico, anche lui esordiente – evidentemente ‘sta cosa dello scopritore di talenti doveva piacere molto a Cunningham, che oltre a firmare la sua prima sceneggiatura ottiene anche un piccolo ruolo nel film vale a dire quello del soldato Dallas, nome che omaggia il personaggio di Tom Skerritt in quell’Alien che risulta tra le fonti di ispirazione, con Jason che in qualche modo fa le veci dello xenomorfo. C’è anche da dire che un Freddy vs Jason prima o dopo sarebbe arrivato e spostando gli eventi nel futuro non correvano il rischio di alterare (o incasinare) ulteriormente la timeline contemporanea.
Nonostante un presupposto che qualcuno definirebbe un po’ trash (uno dei tanti termini a tema cinematografico che non amo troppo) e lo storcere il naso di molti altri, il risultato è meno scontato di quanto facciano temere le premesse. E’ un film a suo modo riuscito, bizzarro ma coerente con le sue intenzioni, oltre ad essere un buon mezzo per farsi perdonare Jason va all’Inferno. Una mattanza divertentissima. Che da sempre mi sento di promuovere.
Certo, non è il top della saga, così come non è il tipo di situazione che spererei di vedere se mi proponessero un nuovo Venerdì 13 – diciamo che una sola capatina nello spazio può bastare, ma da fan del franchise non solo non ci sputo sopra ma mi fa piacere che tutto questo sia successo. Un film in cui Jason torna ad essere la chiesa al centro del villaggio, messo in condizioni di fare quello che sa fare meglio. Motivo per cui ogni fan sceglie di pagare il biglietto.
Di fatto si tocca la comfort zone, viene utilizzata una struttura camuffata ma riconoscibile in cui i corridoi dell’astronave sostituiscono visivamente quelli che avrebbero potuto essere ancora una volta gli spazi del campeggio di Crystal Lake. Ma c’è anche la novità di un contesto come quello sci-fi che offre un ventaglio di soluzioni narrative inusuali per quel prodotto horror così figlio degli anni ’80. Uno slasher futuristico che si toglie lo sfizio di far fare upgrade al suo boogeyman presentandone una gustosa versione cibernetica (il cosiddetto Uber Jason).
E che chiude con un finale che sa essere aperto e chiuso allo stesso tempo; aperto perché per quanto poco plausibile l’ultimo fotogramma intende insinuare il dubbio sull’effettiva sorte di Jason, chiuso perché col senno di poi si è rivelato compatibile con l’idea di un ending definitivo della saga classica. Lo stesso Freddy vs. Jason esce dopo, ma propone una storia che può collocarsi idealmente tra Jason va all’Inferno e Jason X.
Precedentemente alla scelta della proposta di Todd Farmer, Sean e Noel Cunningham avevano preso in considerazione le opzioni più disparate come il bosco, la neve, ancora New York, Los Angeles, un safari, il circuito NASCAR. Fino ad arrivare allo spazio, con una storia che avrebbe dovuto svolgersi in una città di un altro pianeta ritenuta però così costosa da suggerire di ripiegare sugli interni di una navicella, non a caso per contenere le spese si gira a Toronto con buona parte del cast scelto localmente.
Il titolo provvisorio era Jason 2000. Si parte da un prologo incisivo ambientato in un futuro prossimo (nel 2010) poi spostarsi nel 2455. La prima versione dello script di Farmer aveva un tono più dark che viene sfumato da una nuova rifinitura di Lewis Abernathy (ancora una volta non accreditato) che inserisce umorismo e meta riferimenti per seguire vagamente il modello di Scream. Abernathy che, tra le altre cose, si era preso la briga di realizzare e proporre una possibile sceneggiatura (puntualmente scartata) per il famigerato crossover intitolata Nightmare 13: Freddy meets Jason.
L’idea dell’Uber Jason era uno degli aspetti del concept che era piaciuto a tutto il team produttivo, il fatto che il massacratore di Crystal Lake potesse sembrare sconfitto per poi rinascere grazie alla nanotecnologia in una versione futuristica, uno spunto che era nato da una bozza del 1994 (a quanto pare, una delle tantissime arrivate sulla scrivania della New Line) di un ipotetico Freddy vs. Jason firmata da Brannon Braga e Ronald D. Moore che includeva una scena al cinema in cui viene proiettato un fantomatico Jason 2010 col serial killer che mostra un look cibernetico ed una maschera in metallo.
Versione Uber che avrebbe dovuto essere una sorpresa poi vanificata da inciuci online oltre che da marketing, trailer e locandina. E che poteva comparire nel videogame del 2017 se non fosse stato per la causa legale tra Victor Miller (sceneggiatore del primo capitolo che pare abbia portato in tribunale chiunque) e Gun Media.
Prima ancora di prendere decisioni in merito alla sceneggiatura, alla regia era stato scelto lo sfortunato James Isaac (scomparso per leucemia nel 2012, a soli 52 anni) che aveva un background nel campo degli special effects con esperienze del calibro di Il Ritorno dello Jedi e Gremlins, Arachnophobia, e ancora La Casa di Helen e La Cosa degli Abissi (in questi ultimi due progetti aveva lavorato proprio con Cunningham), senza dimenticare le collaborazioni con David Cronenberg da La Mosca a Il Pasto Nudo ed eXistenZ.
Ed è proprio in virtù della loro amicizia che Cronenberg accetta di apparire in uno sfizioso cameo in Jason X per il quale chiederà di poter riscrivere le proprie battute (tipo ‘I want him soft’ quando si rifiuta di far criogenizzare Jason) e, condizione indispensabile, avere l’onore di essere ucciso dal famoso assassino con la maschera da hockey.
Inizialmente Isaac avrebbe voluto ambientare la storia durante un inverno a Camp Crystal Lake (nel 1999 David Buchert e Robert Ziegler avevano scritto per lui una sceneggiatura intitolata Jason X: Hell Freezes Over, una sorta di lettera d’amore nei confronti del franchise (che sinceramente sarei stato curioso di vedere) piena di riferimenti, richiami e personaggi già noti come Tommy Jarvis, il vice sceriffo Cologne, Megan, Ginny, Paul, Trish, Tina; Crystal Lake sarebbe diventato un complesso residenziale, Paul aveva sposato Ginny divenuta nel frattempo una psicologa infantile, Cologne era stato promosso a sceriffo mentre Tommy e Megan gestivano il Karloff’s Market. Tra le novità, l’introduzione di Elias Voorhees, padre di Jason che avrebbe avuto una nuova maschera.
Una proposta che solletica l’interesse anche di Sean S. Cunningham, specie per le sue caratteristiche da restart in grado di generare nuovi sequel. Ma i problemi di diritti sugli altri personaggi e via discorrendo convincono quasi subito la New Line a desistere senza nemmeno provare a capire cosa fosse effettivamente fattibile, oltre al fatto che lo studio non voleva l’ennesimo film di campeggiatori nel bosco. Buchert e Ziegler in seguito diranno di aver trovato strane similitudini tra la morte che avevano scritto per Jason nel loro script ed il climax del reboot del 2009.
Girato inizialmente in 35 millimetri, Jason X viene convertito in video HD in modo da facilitare l’inserimento degli inserti in CGI, diventando il primo film fotografato interamente in digitale. La regia di Isaac è funzionale al contesto ed alle sue esigenze. Favorisce ritmo e violenza, gioca con l’ironia senza cadere nel parodistico, sfrutta gli spazi di una location in cui domina il metallo, enfatizza il bodycount e le singole uccisioni (lasciandone giusto un paio al fuori campo) e, cosa più importante, valorizza il suo esecutore.
Il beniamino del pubblico è Jason, è un concetto che ribadisco spesso, e James Isaac dimostra di esserne consapevole. Che è un pure un buon modo per espiare il film precedente in cui di Jason se ne vedeva troppo poco. Gli effetti classici (make-up e prostetici) fanno la loro figura, mentre la CGI alterna cose accettabili ad altre più incerte – come del resto ci si aspetterebbe da una produzione del 2000 dal budget non altissimo.
Jason X ha subìto solo un paio di secondi di tagli/alterazioni in modo da ottenere un rated R, risultando così il capitolo meno colpito dalla censura dell’intera serie. Ed è stato il primo del franchise ad utilizzare CGI anche per qualche scena di sangue e morte. Il bodycount fa registrare un nuovo record: 23 morti ‘reali’, 27 se includiamo quelle della realtà virtuale (le due campeggiatrici, oltre a Dallas e Azrael che in pratica muoiono due volte), addirittura 28 se si conta anche Jason prima che la nanotecnologia lo riporti in vita.
Che poi, se lo chiedete a Todd Farmer vi dirà che le vittime sono quasi 20mila perché nel conteggio bisognerebbe considerare anche l’esplosione della stazione spaziale Solaris. Uno degli ammazzamenti migliori è senza dubbio quello di Adrienne col volto prima immerso nell’azoto liquido e poi spappolato sul piano d’appoggio, idea presa da X-Files (prima stagione, episodio 23) che richiede almeno dieci calchi in silicone del corpo dell’attrice Kristi Angus.
Il repertorio include Dallas che viene sbattuto contro il muro con lo stuntman che si rompe sul serio il naso. Ed ancora gente infilzata in vario modo, una testa schiacciata, schiena e collo spezzati, sgozzamenti, vittime smembrate, sventrate, decapitate, tagliate in due, appese ad un’ancora, impilate su una trivella. La reazione urlante di Melody Johnson (Kinsa) alla morte del fidanzato è reale, ma non tanto per paura quanto per il bruciore del sangue finto negli occhi.
Manco a dirlo, tra i pregi di Jason X c’è nuovamente Kane Hodder. La sua ultima volta (la quarta complessiva) nei panni di Jason, particolare che aggiunge un tocco di romanticismo malinconico che rende l’interpretazione importante a prescindere. Hodder ha avuto una rispettabilissima carriera nel mondo degli stunt (quindi ben oltre il solo Venerdì 13), ma è evidente che un character iconico come Jason Voorhees ti consegna in qualche modo alla storia.
Il suo è un addio inconsapevole, considerando che il buon Kane non solo non immaginava fosse l’ultimo ma sperava ardentemente di riprendere il ruolo in quel crossover che si preannunciava evento epocale, una delusione che ancora oggi non nasconde in occasione di convention o interviste.
Dopo un capitolo interlocutorio come Jason va all’Inferno, Hodder ha l’opportunità di riprendersi i galloni da star di una visione incentrata sul suo personaggio. Un compito che lui assolve alla grande, con consueta dedizione e impegno fisico. Jason è di nuovo una macchina da morte inarrestabile, uccide con foga e con gusto. Quel modo di respirare tipicamente suo, il non battere mai le palpebre, la presenza, il non verbale. Lo spirito d’iniziativa, come nel caso dell’uccisione di Sven che sullo script era più rapida, Hodder propose di allungarla suggerendo di girargli lentamente la testa finché non fosse sopraggiunto il rumore scricchiolante del collo spezzato.
Senza contare qualche aneddoto simpatico, come quella volta in cui sul set giacevano due Jason ibernati praticamente identici, uno era un manichino mentre l’altro era… Kane Hodder che improvvisamente ‘prese vita’ terrorizzando i presenti (tra cui alcuni bambini, figli di membri della crew).
Elogio di Hodder che di riflesso diventa elogio di Jason Voorhees, tornato in ottima forma, messo in condizione di fare il boogeyman ai livelli di un curriculum come il suo. Come ormai da consuetudine, viene proposto l’ennesimo look (più o meno leggermente) diverso. Brandelli di una giacca di pelle rossiccia tranciata in più punti che fanno intravedere una tuta grigiastra, residui di collare e catena al collo, una quantità di capelli sulla nuca maggiore dei suoi standard che solitamente andavano dalla pelata totale a qualche ciocca irregolare.
Col plus del cambio d’abito del terzo atto, la suddetta versione futuristica, ignorante e tamarra quanto basta, per certi versi audacemente irriverente, ma anche figa, cazzuta. Sfondo nero con inserti metallici (braccio, gamba, petto), il cranio privo di peluria e con venature prominenti, occhi rosso fuoco a sottolinearne la ferocia, per finire con una maschera cool che in qualche modo sembra voler omaggiare quella di Predator. Forza ancor più sovraumana che lo rende capace di squarciare lamiere con le mani.
Todd Farmer inserisce nello script ispirazioni e citazioni di vario genere. Oltre alla già menzionata influenza di Alien, si notano sfumature di Star Trek (su tutte la realtà virtuale che fa molto ponte ologrammi). Riferimenti personali, come i nomi di alcuni personaggi che sono quelli degli amici online con cui giocava al gioco per PC EverQuest. Di cultura nerd, tipo il nome di un’arma chiamata BFG (Bio Force Gun ma anche Big Fucking Gun) che viene dai giochi Doom e Quake II.
Alla crew, vedi la scritta Cunningham Realty in omaggio ai produttori Sean e Noel. Sono citazioni cinematografiche alcune delle creature che si vedono nelle teche come il mostro di Fiend Without a Face (1958), l’alieno di The Zanti Misfit 1963 ed il venusiano di Cold Hands, Warm Heart (due episodi di The Outer Limits, rispettivamente del 1963 e del 1964).
Senza dimenticare i richiami al franchise, come nel caso della musica che si sente in sottofondo quando Jason lancia il primo sguardo alla versione virtuale di Camp Crystal Lake che è quella di Parte II: L’Assassino ti siede accanto. Oppure il nome del personaggio di Adrienne, omaggio ad Adrienne King, attrice protagonista del Venerdì 13 originale che compare brevemente anche nel primo sequel.
Simulazione virtuale che nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto essere molto più dettagliata, con Betsy Palmer che viene contattata nuovamente per un cameo ma ancora una volta senza giungere ad un accordo, l’intenzione era quella di mostrare un Jason talmente fuori controllo da arrivare ad attaccare persino la madre. Il casting director Robin Cook ed il regista James Isaac non erano d’accordo sulla scelta di inserire le due campeggiatrici con le tette al vento in quanto ritenevano fosse una nudità gratuita, la Cook era così irremovibile da rifiutarsi di scegliere le attrici relegando il compito al suo assistente.
Va detto, che al di là dell’effettiva opportunità di inserire donne nude, quello della ricostruzione virtuale (a Crystal Lake) che include allusioni a droga, alcool e sesso è un omaggio sfizioso alle situazioni tipiche della saga – l’uccisione del sacco a pelo, ad esempio, è una citazione di Parte VII: Il Sangue Scorre di Nuovo – su cui ironizzare senza eccessiva irriverenza. Ancora una volta è possibile ascoltare echi del ‘ki ki ma ma’, con Harry Manfredini di nuovo a bordo come compositore. Nota di merito per il trailer che gasa sulle note di Bodies dei Drowning Pool (brano che però non è presente nel film), sentire urlare ‘let the bodies hit the floor’ come sottofondo alle immagini di Jason che fa mattanza è innegabilmente poesia.
Le riprese e la fase produttiva di Jason X vengono completate nel 2000, ma a causa di alcuni problemi in New Line (incluso un cambio di gestione) la release viene spostata al 2001 in Europa e 2002 in Nord America (dopo ben quattro date cambiate). Clamoroso quello che accade in Italia, dove il film viene inizialmente snobbato dalla distribuzione per poi uscire a giugno 2004 sull’onda del successo di Freddy vs. Jason del 2003.
Dicevo delle tarantelle New Line, in pratica a gennaio 2001 viene chiesto a Michael De Luca di dimettersi dopo anni di controversie sul set e diversi fallimenti al boxoffice. In precedenza De Luca aveva combattuto per l’atteso Freddie vs. Jason e, nel frattempo, aveva dato semaforo verde a Jason X, progetto in cui sembrava l’unico dello studio a credere.
Per comprendere il caos imperante (ed un probabile clima tossico), basti pensare che durante la produzione di quel Jason X da lui stesso incoraggiato, De Luca aveva continuato a lavorare in sordina a Freddy vs. Jason senza mettere al corrente Sean S. Cunningham che era convinto che il progetto del crossover fosse quasi morto, sperando di riuscire a portarlo in sala prima dello stand alone nello spazio.
Per farlo aveva ingaggiato Mark Protosevich, chiedendogli di scrivere una sceneggiatura (l’ennesima) – che aveva preso una direzione più psicologica ed intellettuale di quella che verrà utilizzata nel 2003 – ed aveva allertato Robert Englund che aveva rinunciato ad una promettente produzione in Europa ed era corso negli States per una prova trucco che si rivelerà inutile. Con l’allontanamento di De Luca, il film di James Isaac ormai completato finisce in stand-by quasi dimenticato, finché qualcuno decide di portarlo in sala dopo aver considerato di farlo uscire direttamente in home video.
In questo lasso di tempo una copia finisce online a causa di un leak, permettendo a molti fan e semplici curiosi di vederlo illegalmente. Una serie di sfortunati eventi che portano Jason X a rivelarsi un mezzo flop al botteghino, l’incasso globale si assesta intorno ai 17 milioni di dollari a fronte di un budget da 11 milioni che non saranno tantissimi ma rappresentano il triplo di quello a disposizione di Parte VIII: Incubo a Manhattan, che fino a quel momento era stato il più costoso della serie; con l’uscita sul mercato televisivo e (soprattutto) dvd, oltre ad alcune nuove release in sala, la situazione si ribalta neanche fosse presente Alessandro Borghese, le vendite permettono di triplicare l’importo del budget rendendolo statisticamente uno dei capitoli più redditizi della saga.
Non sono mancate le critiche negative – come del resto era successo ad ogni film della saga, tra cui quelle di Rogert Ebert ormai ‘nemico giurato’ del franchise.
La saga di Friday the 13th è entrata di diritto nella hall of fame del cinema horror. E sebbene certi riconoscimenti si fondino prevalentemente sui successi (come è giusto che sia), è altrettanto vero che riflettono la somma delle esperienze, passano attraverso alti e bassi, esperimenti, scivoloni e variazioni sul tema. Nei primi due film targati New Line succede praticamente di tutto, nel bene e nel male. E tutto sommato, va bene così. Perché di Jason non si butta via niente.
Di seguito trovate una clip da Jason X:
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