Voto: 6.5/10 Titolo originale: Friday the 13th: The Final Chapter , uscita: 13-04-1984. Budget: $2,200,000. Regista: Joseph Zito.
Dossier | Venerdì 13 parte IV, V e VI: il ciclo di Tommy Jarvis vs. Jason Voorhees
13/01/2023 recensione film Venerdì 13 - Capitolo finale di Francesco Chello
Tra il 1984 ed il 1986 escono Capitolo Finale, Il Terrore Continua e Jason Vive. Un filotto importante per la saga di Friday the 13th, in cui compare l’unica vera nemesi del boogeyman col machete. E che include due dei migliori capitoli dell’intero franchise, intervallati dal punto più basso toccato dalla serie
Il 2023 ci offre subito una data dal sapore particolare. Oggi è venerdì 13, if you know what i mean. Come ormai da tradizione da queste parti, l’idea è quella di una celebrazione a tema. Lo avevamo fatto rispolverando il reboot del 2009 in occasione del suo decennale (la recensione) e il capostipite del 1980 per i suoi 40 anni (il dossier).
Lo scorso maggio, poi, ci eravamo concessi doppia dose quando nella stessa occasione avevamo parlato di L’Assassino ti Siede Accanto del 1981 e Weekend di Terrore del 1982 (l’approfondimento). Insomma, celebrare un venerdì 13 riscoprendo un Venerdì 13 (Friday the 13th). O due. E volendo iniziare l’anno alla grande, perché non tre?
In sostanza quello che faremo quest’oggi. Con uno dossier elevato alla terza. In cui proseguiremo il nostro viaggio all’interno della celebre saga con un approfondimento dedicato a Capitolo Finale, Il Terrore Continua e Jason Vive, vale a dire parte IV, V e VI. Scrivere un pezzo triplo non è dovuto al fatto che qui amiamo fare le cose in grande. Vabbè, non solo per quello.
Dicevo, non si tratta di una scelta casuale, ma principalmente dettata (anche stavolta) da un discorso filologico. Parte II e III avevano il merito e l’importanza storica di aver introdotto e delineato un boogeyman immortale come Jason Voorhees. Terzo, quarto e quinto capitolo formano una sorta di ciclo all’interno del franchise. Il ciclo di Tommy Jarvis, ovvero l’unico personaggio di tutta la saga (ad eccezione di Jason, ovviamente) a cui viene concesso un ruolo da protagonista in più film.
A conti fatti, quella di Tommy è l’unica vera nemesi del massacratore di Crystal Lake – il solo che sia realmente riuscito ad ucciderlo, ma anche colui che ne riporta in vita la versione potenziata e sostanzialmente immortale. Ed è singolare che ciò avvenga dopo quattro episodi – e con un successivo sviluppo di casting mutevole – quando invece le serie cugine avevano visto la presenza di questa figura nel rispettivo capostipite, da Laurie Strode a Nancy Thompson.
Una trilogia che, andando su un parere prettamente personale, include due dei miei capitoli preferiti (quarto e sesto), ma anche quello che magari non definirò il peggiore (non ho pretese di opinione assolutista) per quanto per me in realtà lo sia, non fosse altro per una questione concettuale di cui avremo modo di sparlare tra poco.
Che mi offre il gancio per inserire l’ormai solito disclaimer sugli spoiler, saranno anche film usciti quasi quarant’anni fa motivo per cui qualcuno potrebbe ritenere superfluo il mio avviso, io invece ritengo possa valere la pena perderci due righe: credo fermamente nella sacralità dello spoiler, lo ritengo potenzialmente eterno visto che anche negli anni ci sarà sempre qualcuno che potrebbe non aver visto quel determinato prodotto; e mi incazzo quando, da lettore, manca questa forma di rispetto, una cultura che sembra stia scomparendo.
Non che abbia intenzione di abusare di spoiler, ma mi serviranno per elaborare un giudizio completo, specie nel caso de Il Terrore Continua. Insomma, vi ho avvisati.
Ma andiamo per gradi. Eravamo rimasti al 1982, anno in cui Weekend di Terrore faceva registrare 37 milioni di dollari al box office worldwide, a fronte di un budget iniziale da 4 (che però era salito in corso d’opera a causa delle spese d’adeguamento delle sale 3-D). Numeri che, nonostante tutto, imponevano di andare avanti.
Per fortuna di noi fan, aggiungerei. Successo che aveva provocato sentimenti contrastanti in Frank Mancuso Jr., figlio del boss della Paramount, che da L’Assassino ti Siede Accanto supervisionerà il franchise per conto della compagnia del padre; il giovane Mancuso era certamente gratificato dai risultati al botteghino, ma anche infastidito dalla percezione di non essere rispettato per aver prodotto quel determinato cinema di genere che molti si ostinavano (e si ostinano) a ritenere minore o inferiore, a prescindere dagli incassi.
Motivo per cui si mette in testa che il quarto capitolo debba essere quello conclusivo, da lì il titolo inequivocabile Friday the 13th: The Final Chapter. Col benestare di una Paramount che riteneva in declino il genere slasher. L’intenzione è di fare le cose per bene, con una chiusura degna.
E’ per questo che decide di affidare la regia a Joseph Zito, dopo essere rimasto piacevolmente impressionato da The Prowler, ottimo slasher del 1981 (conosciuto anche come Rosemary’s Killer) che puntava su confezione curata e tensione al punto giusto, una spruzzatina di giallo sull’identità di un killer in tenuta militaresca in grado di rievocare l’evento traumatico della piccola comunità. E, soprattutto, un Tom Savini in stato di grazia che portava il bodycount sul next level, arrivando a definire quel lavoro come il migliore della sua intera carriera.
Non è un caso, chiaramente, che contestualmente all’ingaggio di Joseph Zito venga concordato anche il ritorno di Tom Savini, colui che aveva realizzato trucco ed effetti del primo Venerdì 13 e che aveva accettato di buon grado sia per la possibilità di lavorare ancora col regista che stuzzicato dall’idea di uccidere Jason dopo aver contribuito a crearne il mito.
Il risultato, manco a dirlo, premia la doppia scelta. Venerdì 13 parte IV: Capitolo Finale è uno dei migliori dell’intera saga, di cui si pone come uno degli esponenti più violenti e sanguinosi. Al tempo dell’uscita era quello dei primi quattro che conteneva più gore e nudità.
Joseph Zito non ha diretto tantissimi film in carriera, ma tra la doppietta horror composta da questo ed il sopracitato The Prowler ed una tripletta action niente male (Missing in Action, Invasion USA, Red Scorpion) ha saputo ritagliarsi un posticino nel cuore di quelli coi miei gusti. Il regista indovina la formula giusta, realizzando uno slasher dal buon ritmo, teso, dinamico, divertente.
Che valorizza il vero eroe del film, quel Jason Voorhees che completa e rifinisce il percorso evolutivo intrapreso nei due episodi precedenti. Interpretato con bravura da Ted White, scomparso pochi mesi fa a 95 anni, stuntman di lunga data che può vantare di aver fatto da controfigura persino a John Wayne; con suoi 58 anni è l’attore più vecchio ad aver vestito i panni di Jason, l’età non sembra però essere un limite per White che entra nella parte al punto da rifiutarsi di parlare col resto del cast durante le riprese, improvvisa il movimento della mano in obitorio, litiga con Joseph Zito per far uscire dall’acqua gelida l’attrice Judie Aronson che finisce in ipotermia, ci mette presenza (1.93 cm, il secondo più alto in tutto il franchise) e fisicità, emblematica l’epica entrata in scena in cui sfonda rabbiosamente la porta praticamente con tutto il corpo.
Il bello è che Ted White chiese di non essere accreditato per il ruolo temendo potesse influire negativamente sulla sua carriera, salvo poi ricredersi negli anni grazie all’affetto dei fan che lo ritenevano uno dei Jason Voorhees migliori. In questo capitolo, il figlio di Pamela è grosso, minaccioso, ha una forza animalesca, semina sul suo cammino uccisioni brutali e creative.
Ed è qui che entra in ballo Tom Savini, mago degli special effects, che perfeziona il precedente look di Jason a cui fornisce unghie nere che danno un tocco di marciume, ed una nuova ripassata al volto che diventa più rugoso, maggiormente deforme – oltre ad interpretarlo brevemente, senza essere accreditato, nella scena dell’omicidio dell’autostoppista.
I meriti di Tom Savini si estendono alla realizzazione dei succulenti dettagli di un generoso bodycount che fa registrare 14 vittime e che Jospeh Zito mette fieramente in mostra, per quanto la solita MPAA cerchi di boicottare con il taglio di fotogrammi strategici che riducono la durata delle scene di morte.
Il repertorio è bello ampio e vale la pena menzionare un po’ di cosette tipo una testa segata e poi girata a 360 gradi, gente sventrata, coltellate alla nuca, colpi di lama che attraversano i corpi per fuoriuscire dalla gola o dalla schiena (trapassando, nello specifico, anche un canotto), una fiocinata ai coglioni, cavatappi che bucano una mano, accettate in fronte o in petto, colpi di rastrello, una testa schiacciata sulle piastrelle di una parete, senza dimenticare la tizia scaraventata attraverso una finestra per poi finire su un’auto sottostante.
Incredibile ma vero, Capitolo Finale dovrebbe essere il primo in cui Jason Voorhees non utilizza il machete (succederà di nuovo in Jason va all’Inferno, nono episodio del 1993), ma piuttosto lo subisce in un epilogo che lascerà il segno.
Joseph Zito aveva ricevuto un’offerta che prevedeva sia la regia che la scrittura di Venerdì 13 parte IV: Capitolo Finale. Inizialmente restio a scrivere, considerando che non era uno sceneggiatore, si convinse nel momento in cui gli venne prospettata una paga doppia, in parte reinvestita per assumere segretamente Barney Cohen affinché realizzasse uno script sviluppando un soggetto di Bruce Hidemi Sakow, oltre che le idee che la sera si scambiavano telefonicamente lo stesso Zito e Phil Scuderi – inclusa la battuta ‘He’s killing me’ (‘Mi sta uccidendo’) pronunciata da Rob (E. Erich Anderson) che il regista ha preso dal racconto del vero omicidio di Kitty Genovese del 1964.
Nel suo copione, Barney Cohen inserisce frammenti di continuity. Dopo un nuovo recap iniziale di quasi tre minuti che propone (contro il parere del regista) un collage di repertorio degli eventi salienti dei primi tre film, la storia riprende ancora una volta (l’ultima in tutta la serie) dalla fine del film precedente, d’altronde parte II, III e IV si svolgono in un arco temporale di 5 giorni in cui Jason ammazza complessivamente 34 persone.
Polizia e paramedici sono sul luogo della strage, il presunto cadavere di Jason viene trasferito in obitorio dove avrà inizio la nuova mattanza – in cui compare un’infermiera con la targhetta R. Morgan, omaggio a Robbi Morgan che interpretava Annie nel primo Venerdì 13. La maschera da hockey mostra i segni della battaglia, spaccata sul bordo (ancora sporco di sangue) dal colpo di machete della final girl di Weekend di Terrore.
Tra i personaggi si scoprirà esserci Robert Dier, fratello (in cerca di vendetta) della Sandra che era tra le vittime in L’Assassino ti Siede Accanto. A stuzzicare sono le novità, in particolare quel Tommy Jarvis filo conduttore del nostro dossier. Il ruolo va al promettente Corey Feldman, tredicenne in piena rampa di lancio, che lo stesso anno compare anche in Gremlins (la recensione) per poi trovare il ruolo della vita l’anno dopo in Goonies.
Tommy è un ragazzino in fissa con l’horror e la fantascienza, amante degli effetti speciali, realizza da solo maschere e props – in quella che sembra una proiezione giovanile di Tom Savini. Personaggio apparentemente di contorno che diventa determinante in un finale assolutamente folle, in cui il piccolo Jarvis sfrutta la sua predisposizione al travestimento rasandosi quasi tutti i capelli per cercare un contatto emotivo con Jason prima di lasciarsi andare a un inaspettato raptus di violenza che resta inevitabilmente impresso nella mente dello spettatore a fine visione.
Come se si volesse abbozzare un parallelo tra i due (bambini in qualche modo ostracizzati dai coetanei, figli di madre assassinata) per un passaggio di consegne omicide che comunque non verrà sviluppato del tutto nei capitoli successivi. Ottimo il lavoro sullo schermo di Corey Feldman, a dispetto di un dietro le quinte che lo vede in conflitto con Joseph Zito (che a suo dire lo trattava male), mentre Ted White arriverà a definirlo un attore bravissimo ma anche un ragazzino cattivo e impertinente – nella sequenza in cui Jason trascina Tommy, il terrore sul volto del piccolo Corey è autentico, frutto di una scarsa coordinazione di uno stunt che a quel punto non si aspettava.
I Jarvis (madre separata e due figli) vivono nei pressi di Crystal Lake, la loro sfortuna è abitare in una casa (che verrà riutilizzata nel 1986 per il doppio episodio A che Serve un Amico? / Acqua Vita della serie Ai Confini della Realtà, e di nuovo per Ed Gein – Il Macellaio di Plainfield del 2000) situata di fronte ad una villetta che viene presa in affitto da un gruppo di giovani arrapati e in vena di baldoria. Leggi anche: richiamo irresistibile per Jason Voorhees.
Corey Feldman non è l’unica presenza di pregio di un cast che include anche Crispin Glover, nel ruolo di uno dei ragazzi destinati a morire, anche lui un anno di prima di prendere parte a un cult come Ritorno al Futuro.
Ventenne, figlio d’arte (suo padre Bruce era stato, tra le altre cose, Mr. Wint, killer in Una Cascata di Diamanti), indossa i panni di Jimmy detto anche ‘fotti fiacco’ (‘dead fuck’ in originale), insicuro e bizzarro, sembra avere qualcosa del vero Glover – su tutte la delirante scena del ballo, che Crispin improvvisa (rifacendosi al modo eccentrico in cui ballava realmente in discoteca) sulle note di Back in Black degli AC/DC che non compare nella versione finale del film in cui viene doppiata/sostituita da Love is a Lie dei Lion.
Sarei curioso di conoscere il motivo della sua assenza (al pari di altri nomi celebri come quello di Kevin Bacon) nel bellissimo documentario Crystal Lake Memories, per capire se si tratta o meno di un’esperienza colpevolmente rinnegata. Quello di Jimmy non è l’unico accenno di caratterizzazione leggermente sopra la media dei personaggi analoghi presenti in altri film della saga.
Peter Barton viene convinto da Amy Steele (Ginny in L’Assassino ti Siede Accanto) ad accettare un ruolo in un horror per il quale era titubante, le gemelle Camilla e Carey More vengono assunte a patto di essere ingaggiate entrambe e apparire in una scena senza veli, nudo che ha rifiutato Barbara Howard che viene controfigurata da Robyn Wood nella scena della doccia; Trish Jarvis è interpretata da Kimberly Beck, l’unica attrice del franchise ad aver lavorato con Alfred Hitchcock (giovanissima in Marnie del 1964), forse è per questo che rientra in quel gruppo di attori che rinnegano l’horror dopo avervi partecipato arrivando a definire il film come un prodotto di serie C. Un parere non molto distante da quello del critico Roger Ebert, che utilizzerà parole come “pezzo di spazzatura immorale” e “riprovevole” per descriverlo. In sostanza, quelle che io considero medaglie al valore.
Girato nella più mite California tra ottobre del 1983 e gennaio del 1984, con Joseph Zito, Frank Mancuso Jr. ed una troupe di montatori che lavorano senza sosta per fare in modo che Friday the 13th: The Final Chapter esordisca in patria il 13 aprile del 1984, con la Paramount a quel punto coinvolta attivamente nella realizzazione del film a differenza delle altre volte in cui ha curato principalmente distribuzione e marketing. In Italia ci arriva il successivo 20 luglio, con la traduzione letterale Venerdì 13: Capitolo Finale, per poi ritrovarsi l’aggiunta del numero romano del ‘parte IV’ in home video. A fine corsa il film incasserà quasi 33 milioni di dollari a fronte di un budget da poco più di 2 milioni e mezzo.
Con un utile di 30 milioni è chiaro che i propositi di conclusione della saga da parte di Frank Mancuso Jr. vadano facilmente a farsi benedire. Un nuovo sequel conviene a tutti e diventa quasi obbligatorio. A quel punto, però, c’è il rischio di sputtanarsi. Voglio dire, è vero che Jason era stato dato per morto alla fine di ogni capitolo, ma stavolta – diciamo così – era più morto delle altre. Oltre al fatto di aver urlato ai quattro venti che il quarto era effettivamente il Capitolo Finale.
In pratica serviva un’idea geniale, qualcosa che giustificasse il titolo Friday the 13th: A New Beginning, un nuovo inizio (per quanto in Italia diventi Venerdì 13: Il Terrore Continua). Peccato che la ricerca della genialata finisca per essere non solo il difetto più grave del film, ma la vera e propria colpa di Parte V. Un tradimento in piena regola.
E qui devo andare brutalmente di spoiler (fermatevi se non l’avete ancora visto ed avete intenzione di farlo). In sostanza, l’idea brillantemente fallimentare è di fare un Venerdì 13 senza Jason, facendo credere che ci sia. Ma Jason, appunto, non c’è. Al suo posto un impostore che commette omicidi spacciandosi per lui. Un tizio qualunque che soltanto alla fine viene smascherato manco fossimo in un episodio di Scooby-Doo.
Che per quanto mi riguarda è una cosa concettualmente inaccettabile, a prescindere da come poi possa effettivamente essere il film. E dire che la situazione ingannatoria non è nemmeno impostata male, con una serie di indizi che un occhio più o meno attento può cogliere per capire che sotto quella maschera ci sia qualcun altro. A partire proprio dalla maschera da hockey, che fin dai titoli di testa non ha la spaccatura e, soprattutto, mostra dei segni blu anziché i canonici segni rossi (a differenza delle sequenze oniriche in cui sono volutamente corretti, proprio a rimarcare la differenza).
Il finto Jason Voorhees si trova lontano dal suo territorio (per un capitolo che non si svolge a Crystal Lake o nei suoi pressi), quando entra in azione non viene accompagnato dal theme musicale, ha uno screentime limitato considerando che si vede a figura intera soltanto dopo un’ora e sette minuti e che prima di allora non era mai stato inquadrato nei vari omicidi, si notano nitidamente entrambi gli occhi quando è risaputo che quelli dell’originale sono asimmetrici, la stazza sembra più contenuta.
Il vero assassino fa giusto due apparizioni in borghese, ma in entrambi i casi assume comportamenti stranamente ambigui, ha una reazione emblematica quando assiste a un particolare evento (sottolineata da un preciso accenno musicale), senza dimenticare l’auto dei paramedici (con tizio morto all’interno) che in un’occasione viene vista sul luogo degli omicidi.
E’ scontato dire che non manchi qualche forzatura, passi per la forza bruta attribuita a un individuo anonimamente normale, va bene procurarsi una maschera da hockey ma l’utilizzo del lattice e le competenze per ricreare calotta cranica e orecchie mi sembrano un tantino troppo anche per la sospensione dell’incredulità.
Solo quattro attori erano al corrente della vera identità del killer, che nel momento del colpo di scena (girato due volte perché poco convincente) viene trovato orribile da quasi tutti i presenti sul set, col timore che il pubblico non sarebbe stato in grado di identificare quel signor nessuno dell’assassino una volta a viso scoperto. Un twist che nelle intenzioni voleva sovvertire una regola di molti slasher, con lo spettatore che anziché essere sconvolto dallo scoprire chi è il colpevole, viene invece sorpreso da chi non lo è.
Ad ogni modo, il giochino degli indizi sarebbe pure simpatico. Ma altrove, non qui. E se quindi non servisse a coprire uno scempio. Vabbè, avete capito che su questa cosa ho un nervo scoperto, che N rewatch a distanza di anni non hanno acquietato.
Per il resto, Il Terrore Continua non è completamente da buttare – per quanto abbia altri difetti oltre al delittuoso sproposito sopracitato. Penso ad esempio allo sviluppo del personaggio di Tommy Jarvis, coerente col trauma degli eventi di Capitolo Finale. Sono trascorsi cinque anni, anche se in realtà John Sheperd, il nuovo interprete, ne ha undici più di Corey Feldman.
Tommy passa da un istituto psichiatrico all’altro, convive con i pensieri e gli incubi del passato, così come con ansia e medicinali. E’ sociopatico, irascibile, violento (se provocato) e taciturno, basti pensare che in tutto il film pronuncia a malapena ventiquattro parole. Per arrivare a un finalissimo, con un ki-ki-ki-taw-taw-taw (‘Kill, Tommy, kill’) in sottofondo al posto del famoso ki-ki-ki-ma-ma-ma, che prevede un secondo inquietante step (che dava un senso a quel ‘A New Beginning’) del passaggio di consegne paventato nel capitolo precedente ma poi sparito nel successivo.
John Sheperd ci mette impegno, con i produttori che volevano confermarlo qualora il film avesse avuto successo; indossa stivali da cowboy per sembrare più alto, si prepara al ruolo trascorrendo volontariamente diversi mesi in un vero istituto psichiatrico, ingaggiato con l’inganno per un progetto dal finto titolo Repetition (come la canzone di David Bowie, al pari di altri capitoli della saga nascosti in pre-produzione dietro altri titoli di brani del Duca Bianco), si dirà molto contrariato nel momento in cui scopre di aver firmato per un seguito di Venerdì 13.
Lo spunto del personaggio psicologicamente segnato viene a Martin Kitrosser, che ricicla quello che avrebbe dovuto essere l’incipit di Weekend di Terrore prima che Amy Steele rifiutasse di riprendere i panni di Ginny costringendo a rivedere i piani. Una sorta di cerchio che si chiude, considerando che anche stavolta i piani erano differenti.
La prima bozza, infatti, prevedeva il ritorno del Tommy adolescente e di Corey Feldman a interpretarlo, progetto saltato nel momento in cui Feldman viene ingaggiato per I Goonies, motivo per cui compare soltanto in un cameo (girato nel giardino di casa sua, in un weekend libero dalle riprese del film di Richard Donner) nel riuscito prologo onirico – laddove il ‘riuscito’ sta a indicare la presenza, per quanto immaginaria, del vero Jason Voorhees e di due vittime a suo favore – che in qualche modo fa da appendice al predecessore che aveva saltato la ormai tradizionale dream sequence conclusiva.
Perso Corey Feldman si è scelto di non sostituirlo con un coetaneo, quanto piuttosto di spostare la collocazione temporale di qualche anno per permettere un recasting meno invasivo. Non tutto fila liscio, nel momento in cui Tommy non ha sempre la centralità di un ruolo che una vera nemesi dovrebbe avere.
Tra i punti a favore di Venerdì 13 parte V: Il Terrore Continua anche il bodycount, che si assesta su 19 vittime (più 2 nel suddetto sogno), il numero più alto della saga (col primo episodio ad avere due killer al suo interno, tre con la sequenza onirica) fino a Jason va all’Inferno, che supererà il record facendo registrare 27 decessi. Col contributo dello stunt coordinator Dick Warlock che nel 1981 aveva interpretato Michael Myers in Halloween 2 – Il Signore della Morte.
Si registrano colpi di ascia alla schiena, alla testa, al ventre, petardi infilati in bocca, coltellate all’addome, colpi di cesoia, una testa stritolata da una cinghia, gole tagliate e pance infilzate, decapitazioni, accettate in fronte o in faccia, machetate assortite allo stomaco o alla schiena, occhi cavati, chiodi in piena fronte. Roba che fa comunque piacere ritrovarsi in un prodotto di questo tipo.
Anche se la messa in scena non è sempre impeccabile, come ci fosse un po’ di sciatteria, vedi qualche ripetizione in alcune esecuzioni, per non parlare delle troppe uccisioni avvenute fuori campo e/o mostrate a cose fatte in misura maggiore rispetto a qualsiasi altro Venerdì 13. Indice di una direzione non eccelsa, quella di Danny Steinmann che non emerge per tecnica e messa in scena, lui che insieme a David Cohen aveva pure messo mano alla sceneggiatura iniziale di Kitrosser cercando di seguire i consigli di Scuderi che gli suggeriva d’inserire una scena di spavento o di morte ogni setto/otto minuti.
Il regista avrebbe dovuto scrivere e dirigere un sequel de L’Ultima Casa a Sinistra per la Paramount che al naufragare del progetto gli propone di ripiegare sulla saga di Friday the 13th, scegliendolo proprio per la sua predisposizione trash. Forse memore di un esordio (nel 1973, con High Rise) legato al porno, la sua regia sembra più interessata a nudità e pruriti annessi.
Non è un caso se Frank Mancuso Jr. (in contrasto con il suo stesso studio) arriverà a definire Danny Steinmann un pervertito e il film un soft porno piuttosto che uno slasher, versione confermata dall’attore Dick Weiand (Roy Burns, anche lui ingaggiato con l’inganno per l’inesistente Repetition), che ironizzerà sul fatto che il regista avesse girato un porno nei boschi e che il pubblico non fosse a conoscenza della quantità esagerata di scene di nudo tagliate poi dal cut finale.
Tra questi tagli, una scena di sesso che sarebbe dovuta durare la bellezza di oltre tre minuti, ridotti addirittura a soli dieci secondi da una scandalizzata MPAA, che chiederà la rettifica di ben sedici scene tra sesso e violenza al fine di ottenere un rating R e non X; qualche anno dopo, proprio quella sequenza di nudo in seguito a segnalazioni dei genitori degli studenti costerà (assurdamente) il posto da insegnante a Deborah Voorhees (che interpreta Tina, per cui avevano provinato anche Gina Gershon e Darcy DeMoss, con quest’ultima scartata per aver rifiutato di spogliarsi al provino con Steinmann, ma verrà ingaggiata per il capitolo successivo), che da parte sua conserva ricordi spiacevoli delle 13 ore di riprese – nota a margine, sul cognome dell’attrice dalla coincidenza incredibile (che attira tuttora la curiosità dei fan), la saga era necessariamente nel suo destino. Peccato che la sua partecipazione sia avvenuta nell’unico film in cui non agisce nessun Voorhees (sì, voglio girare il dito nella piaga).
Frizioni assortite e produzione travagliata per Steinmann, tra cui Juliet Cummins (Robin) che racconta di aver subito pressioni per le scene di nudo (accettate per paura di essere licenziata), le divergenze con l’attrice Melanie Kinnaman (che interpreta Pam) che lo definisce ostile e inavvicinabile, e che insieme ad altri membri del cast parlerà di lui come di un soggetto verbalmente offensivo, nonché cocainomane incallito spesso assente sul set proprio a causa del consumo insistito (sostituito in molti casi dal direttore della fotografia).
Episodi che, insieme a un brutto incidente in bicicletta con lunga riabilitazione, incideranno negativamente sulla carriera di Danny Steinmann, che a conti fatti si ferma proprio con Il Terrore Continua. Il montaggio di Bruce Green (che aveva fatto esperienza da assistente su due film di Indiana Jones) mette qualche pezza al lavoro del regista.
Il ruolo del finto Jason Voorhees viene comunque proposto a Ted White, che però rifiuta di tornare (farà lo stesso col sesto capitolo), rammaricandosene in seguito. Ad essere accreditato, quindi, è Dick Weiand, anche se nella quasi totalità delle scene a vestirne i panni e la maschera è lo stuntman Tom Morga, che non vede il proprio nome riconosciuto nei titoli di coda.
Carol Locatell si presenta al provino per l’eccentrica (e sudicia) Ethel con una parrucca regalatale da Burt Reynolds in occasione di Pelle di Sbirro del 1981, la trovata piace al punto da chiederle di indossarla anche sul set, su cui però si dimenticheranno di restituirgliela. Rebecca Wood (Lana) se ne va in giro con un’ascia in testa dopo essersi divertita a girare la scena della sua morte; nel cast anche lo sfortunato Mark Venturini (nel ruolo di Vic, dopo essere stato valutato per quello di Tommy) e Miguel A. Núñez (Demon), che lo stesso anno prendono parte ad un cult come Il Ritorno dei Morti Viventi (il dossier).
Citazione per A Place in the Sun (Un Posto al Sole, del 1951) trasmesso in tv, altro titolo Paramount in cui uno dei personaggi annega in un lago.
Girato nuovamente in California tra novembre e dicembre del 1984, Venerdì 13: Il Terrore Continua viene programmato nelle sale a stelle e strisce a partire dal 22 marzo del 1985, mentre in quelle italiane ci arriva il successivo 14 agosto (dopo una premiere romana avvenuta il 25 luglio). Anche stavolta, il nostrano ‘Parte V’ viene aggiunto in seguito per l’home video.
Il weekend di apertura in patria si rivela un successo, Frank Mancuso Jr. parla persino di ritorno dei tempi d’oro, è chiaro la curiosità ha avuto il suo peso nel portare la gente in sala. Così come, in senso opposto, finiscono per incidere il passaparola negativo e una critica più impietosa degli standard di una saga verso cui non è mai stata benevola, che spengono il fuoco di paglia portando a un calo inevitabile con conseguente chiusura totale inferiore ai capitoli precedenti. Costato 2 milioni e 200 mila dollari, arriverà a quasi 22 milioni in tutto il mondo.
Venti milioni di attivo non saranno tantissimi, ma sono abbastanza per decidere di portare avanti la saga. Specie se c’è l’intenzione di far pace con i fan e mettere le cose a posto. Era un atto doveroso. Un chiedere scusa in piena regola. A partire da un titolo inequivocabile: Jason Lives. Jason Vive, perché è lui l’eroe del pubblico.
Come a dire, potete stare tranquilli e tornare in sala, il vostro amichevole Voorhees di quartiere c’è, è tornato. Ed è un comeback di quelli cazzuti, considerando che Venerdì 13 parte VI è, ripeto, un altro dei capitoli migliori della saga. Il giusto premio per chi aveva bisogno di rimarginare la ferita de Il Terrore Continua.
Il merito va a Tom McLoughlin che viene ingaggiato per scrivere (in solitaria, senza interferenze o grossi paletti se non quello di far appunto tornare il boogeyman) e dirigere un film per il quale si ispira, fin dal già menzionato titolo, ai classici della Universal e della Hammer.
L’espediente che riporta in vita Jason porta inevitabilmente alla mente il fulmine e la scarica elettrica del Frankenstein del 1931. Una resurrezione che veicola una sorta di switch senza precedenti. La saga passa dallo slasher classico a quello sovrannaturale, due declinazioni dello stesso sottogenere all’interno di un unico franchise, come evoluzione l’uno dell’altro. D’ora in poi Jason Voorhees è ufficialmente un essere sovraumano, di natura ultraterrena.
E per questo praticamente immortale. Tranne che se riportato al suo elemento (in questo caso il lago), un po’ come avveniva con Dracula. In pratica, un mostro a tutti gli effetti, proprio come quelli classici. Per la gioia di chi deve scriverne gli script successivi in cui può smettere di preoccuparsi di una invulnerabilità che prima di allora sembrava poco giustificabile.
A fare il nome di Tom McLoughlin alla Paramount è il solito Frank Mancuso Jr., che aveva apprezzato One Dark Night del 1982, esordio del regista/sceneggiatore a cui non porrà alcun particolare veto sul casting tranne che l’indicazione di inserire una final girl bionda e molto carina. Anche se, per qualche ragione, il nome di Mancuso per una volta non appare tra i produttori accreditati.
Tom McLoughlin pare fosse stato inizialmente ingaggiato per la sola sceneggiatura (per un progetto il cui falso working title era Alladin Sane, LP di David Bowie, che compare anche in una scena), salvo poi ottenere anche la regia su pressione del produttore Don Behrns.
Quello di McLoughlin è un sequel a tutti gli effetti, non ha gli elementi del reboot, ma si limita ad inserire accenni di una retcon intelligente, mirata ma non aggressiva.
Si torna a Crystal Lake, rinominata Forest Green dagli abitanti del luogo nel tentativo di dimenticare un passato nefasto. Sono presenti riferimenti a Camp Blood, alla decapitazione di Pamela, all’annegamento del piccolo Voorhees, alla morte della madre di Tommy (finalmente confermata ufficialmente, visto che in Capitolo Finale avveniva fuori campo), la storia torna a svolgersi durante un venerdì 13 (cosa che non accadeva dal primo film del 1980).
Non si fa menzione degli eventi de Il Terrore Continua, che però potrebbero essere tranquillamente successi visto che non ne viene ostentata la cancellazione. Tommy Jarvis appare meno sciroccato, ma viene comunque presentato come reduce da istituti psichiatrici e ancora ossessionato da allucinazioni, incubi e ricordi, in linea col profilo precedente sebbene in una versione più positiva.
Viene messa una pezza sul finalissimo del predecessore con un tocco quasi impercettibile ma arguto; Tommy guida il pick-up di Pam, una mossa che lascia intendere che sia viva spostando quella sequenza conclusiva (in cui pareva sul punto di essere uccisa) in ambito onirico e spegnendo, di fatto, le velleità da serial killer di Tommy.
Non è casuale che lo sceriffo si convinca inizialmente (ed erroneamente) che il colpevole degli omicidi sia proprio il giovane Jarvis, che ucciderebbe per convincere la comunità di un fantomatico ritorno di Jason, come se l’ufficiale lo ritenesse l’assassino che inizialmente (nei progetti di qualcun altro) sarebbe dovuto diventare.
Piccoli particolari e sfumature inserite con l’attenzione di chi non solo ha fatto i compiti, ma lo ha fatto con amore per la materia. E che evidenziano un’altra delle caratteristiche positive della sceneggiatura di Tom McLoughlin che include sprazzi di metacinema, dieci anni prima di Kevin Williamson e Scream – la cosa bella è che a Tom McLoughlin fu effettivamente offerta la regia (rifiutata) di Scream prima che andasse a Wes Craven, occasione in cui Williamson racconterà al regista di quanto Venerdì 13 parte VI: Jason Vive abbia influenzato la sua crescita e sia stato d’ispirazione per la scrittura del famoso metaslasher del 1996.
Metacinema, dicevo, in cui rientrano omaggi e citazioni, dalla Cunningham Road al suddetto sceriffo che di nome fa Garris, dai magazzini Karloff alla cittadina di Carpenter o la t-shirt con la scritta Baker, passando per la presenza di un maggiolino (che appariva in altri capitoli della saga), o ancora la tizia che dice di aver visto fin troppi film horror per sapere che bisogna diffidare di uno sconosciuto con la maschera.
Venerdì 13 parte VI: Jason Vive è violento, scorrevole, compatto. Il susseguirsi degli eventi che sconvolgono la comunità è racchiuso in un lasso di tempo circoscritto, che rende avvincente quella che per Tommy Jarvis è ormai una missione. Tom McLoughlin ha le idee chiare su come impostare i momenti chiave. Basti pensare a prologo ed epilogo, entrambi riuscitissimi – ed accomunati dal frame sull’occhio sgranato di Jason Voorhees.
Il film inizia con la riesumazione che in un certo senso riprende il prologo (quella volta onirico) del predecessore, nel mezzo di un’atmosfera gothic (con Harry Manfredini che prende in prestito qualcosa dal Dies Irae) tra chiaro di luna, nebbiolina e poi pioggia e le lapidi di un vecchio cimitero tra cui ovviamente spicca quella malandata del nostro amico Jason (che il regista porterà con sé, insieme alla bara, per ricordo); la resurrezione è fighissima, il corpo segnato da vermi e putrefazione riprende vita in maniera epica tra fulmini, saette ed il giustificato cagotto dei presenti, per chiudere con l’inquadratura sul nostro eroe fresco di prima uccisione che brandisce minacciosamente un’asta di metallo a precedere i titoli di testa.
Che ci ricordano, appunto, che Jason Vive! Non è da meno lo showdown conclusivo, Tommy vs. Jason, nel bel mezzo del lago cristallo. Una scena che verrà immortalata dalla Mezco nella sua serie di action figures ‘Cinema of Fear’. E che nel 2013 sarà da ispirazione per il sub Curtis Lahr che ha incatenato un finto manichino di Jason sul fondo del Crystal Lake in Minnesota, tuttora ancora lì a spaventare gli altri subacquei.
Una sequenza che indovina gli elementi, come la notte che rende più inquietante la profondità dell’acqua, la barca circondata dalle fiamme, una lotta impari, la catena e il masso, le pale dello scafo (girate in tre momenti e luoghi diversi), la sequenza subacquea. Con momenti d’azione che si aggiungono con buona resa alla formula complessiva, vedi anche lo spettacolare incidente del camper (girato prevedibilmente in un unico ciak) o le fucilate dello sceriffo per la prima volta in cui Jason subisce colpi di arma da fuoco, giusto per fare qualche altro esempio.
Non l’unica integrazione introdotta da Tom McLoughlin, che piazza con discrezione una manciata di dialoghi e momenti garbatamente ironici – tipo gli assicuratori che giocano a paintball, prima di schiattare rigorosamente tutti, o i titoli di testa che scimmiottano simpaticamente James Bond – che non intaccano lo status di horror puro del film in questione. Il sesto Venerdì 13 è anche il primo ed unico in tutta la serie a non presentare nudità, aspetto non ritenuto essenziale dal regista.
Tra le certezze, un bodycount nuovamente generoso che si assesta a 18 decessi, con la produzione che chiese di aumentare uccisioni (alcune girate a riprese completate, vedi quella del becchino) e violenza per ottenere un rated R anziché un PG-13. Peccato solo per la solita maledettissima MPAA che chiede di eliminare qualche succoso fotogramma di troppo.
La carrellata di morte include un corpo trapassato da un pugno (col dettaglio del cuore del malcapitato stretto nella mano), gente impalata, infilzata, schiacciata in una pozzanghera, braccia strappate, una tripla decapitazione, una testa sbattuta sul tronco di un albero, colpi di machete assortiti, uno sgozzamento con una bottiglia rotta, una decapitazione a mani nude, teste schiacciate e schiene spezzate al contrario, un coltello (lo stesso di Rambo II) alla tempia ed un viso stampato nella parete del camper.
Sequenza del camper che ha il merito di svolgersi sulle note di Teenage Frankenstein di Alice Cooper, che finisce su una copertina di Fangoria insieme a Jason Voorhees per aver co-realizzato la colonna sonora offrendo tre brani al film, tra cui anche Hard Rock Summer e, soprattutto, He’s Back (The Man Behind the Mask) – in sottofondo quando i counselor scaricano le provviste, per poi tornare sui titoli di coda, integrando il solito affidabilissimo contributo di Harry Manfredini che ovviamente firma con impeccabile mestiere le musiche di tutti e tre i capitoli oggetto del nostro dossier.
Il fiore all’occhiello di Venerdì 13 parte VI non può che essere Jason Voorhees, naturalmente. L’ottimo look zombie segna un nuovo significativo step del suo percorso evolutivo. Il suo outfit logoro, a cui si aggiungono dettagli che il massacratore di Crystal Lake raccoglie per strada dalle sue vittime, dai guanti che coprono le dita scarnificate ad una cintura impreziosita da oggetti contundenti.
Spietato, inarrestabile, quasi terminatoriano, si ferma solo davanti ad una bambina come se si volesse sottolineare il suo legame traumatico con l’età dell’innocenza. Tom McLoughlin è bravissimo nel sottolineare ogni sua entrata in scena, cercare l’inquadratura giusta e la posa plastica – come quando esce dal camper, per dirne una.
Il merito va condiviso con la bravura del nuovo interprete C.J. Graham, manager di un locale privo di esperienza attoriale ma con un background militare (che si rivelerà ottimo per gli stunt), si divertiva di tanto in tanto a intrattenere i clienti indossando proprio la maschera di Jason, fin a quando viene notato dai responsabili del casting del film che cercavano un attore con più presenza rispetto all’originariamente scelto Dan Bradley (dopo il nuovo rifiuto di Ted White), un po’ troppo in carne, al punto da essere soprannominato il ‘Jason con le tette’, e per questo meno convincente di quanto loro sperassero.
Con i suoi 192 centimetri d’altezza (il terzo più alto della saga, dopo Ken Kirzinger e Ted White), Graham ha la stazza e la forma giusta per un ruolo iconico a cui contribuisce con postura e movimenti, non corre mai affidandosi a una camminata veloce che lo rende ancora più minaccioso, interpreta la quasi totalità delle scene e degli stunt (inclusi spari e fiamme), a eccezione di quella del paintball che era già stata girata da Bradley – che segna il terzo caso di due attori che interpretano Jason nello stesso film.
E riprenderà la celebre maschera da hockey nel video ufficiale di He’s Back (The Man Behind the Mask). Una scelta di casting soddisfacente che sarebbe stata confermata tranquillamente anche in Venerdì 13 parte VII: Il Sangue Scorre di Nuovo, se il nuovo regista John Carl Buechler non avesse avuto un legittimo feeling con quel Kane Hodder con cui aveva già lavorato e che con le sue quattro volte diventerà il Jason più presente della saga, associando per sempre il suo nome a quello del nostro amato assassino.
C.J. Graham viene comunque ricordato con affetto dai fan, come dimostrato da eventi e convention, e dal ruolo offertogli in Vengeance, valido fan film del 2019 (con sequel nel 2022) in cui viene chiamato ad interpretare Elias Voorhess, il padre di Jason mai apparso nella saga ufficiale – per quanto ci sia stata l’intenzione di farlo almeno un paio di volte, in particolare proprio in Jason Vive, la cui sceneggiatura originale prevedeva alcuni riferimenti (tagliati dalla produzione) che poi sono finiti nel romanzo del film.
Dopo essere diventato un cristiano rinato, John Sheperd (caldeggiato da Mancuso Jr.) non se la sente di tornare, si attiva il terzo recasting per Tommy Jarvis che stavolta ha la faccia di Thom Mathews, reduce dal successo del già citato Il Ritorno dei Morti Viventi, di cui reciterà anche nel sequel (il dossier), che mostra l’attitudine adeguata sia al profilo del personaggio che si muove tra la fragilità del trauma ed il coraggio per porvi rimedio, che al mood di questo nuovo capitolo.
Ruolo che Mathews riprenderà in un paio di fan film, come Never Hike Alone o il già menzionato Vengeance 2 (in cui compare anche Darcy DeMoss). Debutto cinematografico per Tony Goldwyn (un altro di quelli che non prenderanno parte al documentario sulla saga), che appare in una sola scena in tempo per fare una brutta fine.
Melanie Kinnaman aveva già firmato per riprendere il ruolo di Pam, accordo saltato in seguito alla nuova direzione intrapresa dalla sceneggiatura. Lo sceriffo Garris ha il volto di David Kagen, che nella vita reale era insegnante di recitazione di Jennifer Cooke che interpreta sua figlia Megan, love interest di Tommy, scelta per la sua interpretazione in Visitors e che si ritirerà dalla recitazione dopo questo film.
Vincent Guastaferro (Rick, il vice sceriffo, ruolo ripreso nel fan film Never Hike in the Snow, sequel del sopracitato Never Hike Alone), Cynthia Kania (Annette) si sposano a maggio del 1986, pochi mesi prima dell’uscita del film. Nel cast anche Nancy McLoughlin (Lizbeth), moglie del regista conosciuto sul set di Prophecy (1979, di John Frankenheimer) in cui lui interpretava il mostro.
Venerdì 13 parte VI: Jason Vive viene girato in Georgia, tra marzo e aprile del 1986, con un budget di circa 3 milioni di dollari. Lo stesso anno, ad agosto, esordisce in patria dove nel weekend d’apertura non riesce a piazzarsi al primo posto come i suoi predecessori. Nonostante la sua validità, il film raccoglie poco più di 19 milioni di dollari di incasso, il primo della serie a non superare quota 20.
Parte del pubblico era probabilmente ancora scottato dal capitolo precedente, senza considerare una fase di stanca tutto sommato fisiologica. Ciò, comunque, non impedisce di dare semaforo verde ad un nuovo sequel che vedrà la luce due anni dopo.
Di cose ce ne siamo dette fin troppe, che altro aggiungere. Se non ribadire che Venerdì 13 parte IV, V e IV formano un ciclo molto importante per la saga.
Quello di Tommy Jarvis, l’unica vera nemesi di Jason Voorhees. Una sorta di sandwich qualitativo che nel mezzo include il punto più basso della serie, concettualmente parlando. Ma ai lati presenta due dei migliori capitoli dell’intero franchise. Ideali da rispolverare per celebrare come si deve il primo venerdì 13 del 2023.
Di seguito la clip della resurrezione da Jason Vive:
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