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Riflessione | Il cinema del 2017: Hollywood non è più il centro del mondo

14/01/2018 news di Michele Senesi

Esaminiamo 35 titoli internazionali tra sorprese, novità e cambiamenti epocali che non vogliono farci sapere

Prima della lista, ci troviamo a inizio 2018 a ripetere e confermare quanto detto lo scorso anno. Che no, non è come enunciano alcuni su cui torneremo dopo, che ci troviamo nel periodo storico con la maggiore proposta audiovisiva. Ci troviamo solo in un momento in cui si sono moltiplicate le possibilità e “piattaforme” da cui fruire. Ma che non servono a offrire una pluralità e varietà, ma a preservare lo status quo. Tanti mezzi per mangiare sempre la stessa erba, nemmeno tanto verde, posta sulla mangiatoia sempre dallo stesso contadino. Basti vedere i dati di incassi e occupazione delle sale. Ovvero un periodo macroscopicamente oscuro.

Ma abbiamo ora anche un’aggravante. Che ormai esistono due storie del cinema. La prima è quella elargita dalla maggior parte della critica italica ormai ridotta a un bollettino di propaganda hollywoodiana, rivolta a un pubblico che si ingolfa di serie TV e poi se ne va al cinema a guardare altre serie TV nel corpo di un qualcosa che simula una forma vagamente filmica, ma dallo sviluppo seriale: un film di supereroi al mese, un crossover ogni 6, un Guerre Stellari l’anno, e poi sequel, prequel, remake, reboot, in un eterno apparato digestivo bovino di ruminanza cinefila. Anche i lemmi adottati per disquisire di questo tipo di “cinema” sono totalmente derivati dalle serie TV. E il tutto si ferma qui, in un’ovvia glorificazione di cinema mediocre ai fini di creare un corpus che mendacemente rappresenti il tutto. Attitudine supportata inoltre da telegiornali e stampa generalista (ma spesso anche specializzata). Ecco che quindi, senza riferimenti pluralistici reali, Logan – The Wolverine di James Mangold diventa un buon film, si urla al capolavoro per prodotti furbi, ruffiani e inoffensivi e si filosofeggia sui cinecomics nemmeno fossero uno Żuławski, quando in realtà sono i cinepanettoni made in USA. Ma mensili. Ovvero il pubblico sta mangiando il panettone anche ad agosto. E non ci fa caso. E ha anche degli autorevoli garanti che lo incentivano. Esattamente come fa l’allevatore con le mucche. Che a tempo debito abbatte per farci le bistecche.

Non esce quasi nulla d’altro in sala. Per trovare il nuovo film di Michael Haneke, uno dei più rilevanti registi viventi, bisogna avventurarsi in un cinema per provincia. Quando va bene. Eventi speciali di un giorno a prezzi maggiorati. L’Arte ormai ridotta ad attività semi clandestina. Di nuovo, o si va ai Festival o incrociate le dita e sperate in tre anni di delay (come l’ultimo Shin’ya Tsukamoto, apparso solamente in DVD – inglese – a tre anni dal passaggio alla Mostra del cinema di Venezia). C’è poi anche una seconda storia del cinema, quella vera. Quella che mostra e dimostra con continuità cristallina e macroscopica, come il cinema sia in continua mutazione e fermentazione, gli assi strutturali si stiano spostando, nei budget, negli incassi, nei generi, nella qualità. Che escono grandi film, che esce grande cinema d’autore e che in tutto il mondo esce cinema popolare e smaccatamente commerciale capace di intrattenere, investire e incassare cifre monumentali al pari di quelle americane. Qualcuno di voi si è accorto o ha letto due righe sul fatto che nel 2017 sia uscito un film cinese che ha incassato più di Wonder Woman, Transformers, Star Wars, Inception e altri titoli affini? No, vero?

Ad esempio, durante il 2017 si è sviluppata una sorta di esplosione, ritorno di fiamma, vampata (non volevo utilizzare il termine “rivoluzione” a sproposito) all’interno del cinema d’azione. Il cinese Wolf Warriors 2 (maggiore incasso della storia del cinema locale) di cui scrivevamo sopra, è stato il film dei record (870 milioni di dollari). Baahubali 2, probabilmente il fantasy più epico del decennio, è diventato il maggiore incasso della storia del cinema indiano; distribuito in Francia, ottimi incassi negli USA, proiettato in semiclandestinità dalle comunità indiane in Italia … Il coreano The Villainess propone una modalità totalmente nuova e folgorante di messa in scena dell’azione, grazie all’utilizzo del digitale, proponendo un qualcosa di mai visto prima d’ora, quasi incredibile. Gantz: O è il film d’azione più inventivo, furibondo e dadaista del decennio almeno, inarrivato e imperdibile. Il sequel di Journey to the West di Tsui Hark, spinge l’effetto digitale in soglie di delirio, gigantismo e immersione sensoriale totalmente inedite. L’inizio del russo Attraction di Fyodor Bondarchuk, con la navicella aliena che collassa sui palazzi del distretto Chertanovo di Mosca con in sottofondo il crescendo della canzone Closer di Paulina Andreeva, ha un senso del meraviglioso, una messa in scena maestosa e un’utilizzo – fuso alla qualità – degli effetti digitali propri del cinema più ricco e competitivo, a tratti spielberghiano. E se qualcuno volesse anche una storia corposa mescolata a melodramma lancinante (seppur a tratti sconclusionata) c’è Paradox di Wilson Yip, che è da pelle d’oca. E questi atti, questi sviluppi, sono riscontrabili in tutte le tipologie di cinema e paese. Qualcosa a malapena riesce a raggiungere i Festival per pochi fortunati, salvo poi scomparire, quando va bene, per anni. Il resto viene risucchiato in un buco nero di mortifera oscurità e irreperibilità.

Detto questo, ecco la classifica. Di nuovo, arbitraria nel lasso temporale preso in esame per i motivi sopraelencati e molto libera, impalpabile, parziale, personalissima. In ordine rigorosamente non cronologico. Al momento della stesura non ho ancora visto The Square di Ruben Östlund. Quindi se non è in classifica probabilmente c’è un perché. Gli “altri” li ho visti. E se non sono in classifica, sicuramente c’è un perché.

Gantz: O (Kawamura Yasushi, Saitô Keiichi, Giappone). Il film d’azione più dadaista, furioso, inventivo e roboante del decennio. Un tour de force mai visto prima d’ora, libero e onesto, senza nessun compromesso.

T2: Trainspotting (Danny Boyle, Inghilterra). Sequel miracoloso, melodramma dei perdenti, epica del tempo in fuga, con vittoria totale nella sfida fotografica e musicale.

See you Tomorrow (Zhang Jiajia, Cina). Un esordio stordente, prodotto da Wong Kar-wai, che diventa quasi un terzo capitolo dopo Hong Kong Express (1994) e Fallen Angels (1995). Cibo per i sensi.

Demon (Marcin Wrona, Polonia). Uscito da tempo e scomparso grazie ai miracoli della distribuzione. Un horror in cui a fare più paura sono le dinamiche furibonde di un matrimonio polacco. Ultimo film del regista. Ahimè, per sempre.

Journey to the West: Demon Chapter (Tsui Hark, Cina). Per vincere la sfida con il precedente, Tsui la butta in gigantismo, surrealismo e immersione sensoriale totale grazie a un utilizzo naif e vertiginoso degli effetti digitali. Quasi da mal di testa.

Colossal (Nacho Vigalondo, Canada / Spagna). Perché si.

Destruction Babies (Mariko Tetsuya, Giappone). Indescrivibile elegia dei setti nasali sfondati, top nichilismo dell’anno.

Happy End (Michael Haneke, Francia / Germania / Austria). Un Haneke minore contiene più cinema di decine di altri titoli da classifica.

The Looming Storm (Dong Yue, Cina). Il noir cinese dell’anno che fa di tutto per sembrare prevedibile e derivativo salvo poi disattendere ogni cosa. Cresce dentro.

Final Fantasy XV (Tabata Hajime). Vista la provocazione dei Cahiers du Cinéma di inserire in lista qualunque cosa, incluse le serie TV, mi adatto e inserisco un’esperienza videoludica. FFXV ha la narrazione e l’epica del grande cinema, un coming-of-age luttuoso e malinconico, melodramma delle responsabilità e della perdita (dei cari, del tempo, del corpo, dell’innocenza, della spensieratezza). Un monumento.

e

[ex aequo] Loveless (Andrey Zvyagintsev, Russia) / Before we Vanish (Kiyoshi Kurosawa, Giappone). Due film “minori” (?) di due grandi autori, ma che contengono entrambi pezzi di cinema macroscopici da portare nelle scuole (di cinema).

Baahubali 2: The Conclusion (S. S. Rajamouli, India). Insieme alla prima parte, il fantasy più epico del decennio.

Brawl in Cell Block 99 (S. Craig Zahler, USA). E uno dei rari film in cui il regista riesce a tenere rigore ed equilibrio sia nel tatto della parte fiction sia nel premere il pedale nelle sequenze più estreme.

Sarkar 3 (Ram Gopal Varma, India). Continua la saga epica e noir, oscura e funerea. Grandi attori e nessun calo narrativo o qualitativo.

A Ghost Story (David Lowery, USA). Melodramma tristissimo fatto di concept, idee, bassissimo budget e regia.

Altri titoli particolarmente apprezzati:

[ex aequo] Smoke & Mirrors (Alberto Rodríguez Librero, Spagna) e La Vendetta di un Uomo Tranquillo (Raúl Arévalo, Spagna). Due film spagnoli minori dei rispettivi registi, comunque pieni di buoni pezzi di cinema.

Sword Master (Derek Yee, Cina). Tsui Hark in vacanza che produce test ed esperimenti. E va sempre bene.

Io, Daniel Blake (Ken Loach, Inghilterra). Banale, ma ci sta.

The Donor (Qiwu Zang, Cina). Oscuro ma elegante, disperato ma candido. E tanti vari bonus qualità.

Raw – Una cruda verità (Julia Ducournau, Francia/ Belgio). Film che ha diviso in due i colleghi. Io ho gradito.

The Villainess (Jeong Byeong-Gil, Corea del Sud). Nel campo dell’azione propone cose mai viste prima d’ora. Imperdibile.

Blade of Immortal / L’immortale (Miike Takashi, Giappone). Il centesimo Miike, in forma anche se un po’ di maniera.

The Autopsy of Jane Doe (André Øvredal, USA). Fa paura. E lo fa bene.

E in misura minore:

Baby Driver – Il genio della fuga di Edgar Wright
Free Fire di Ben Wheatley
Scappa – Get Out di Jordan Peele
Pieles / Pelle di Eduardo Casanova
Attraction di Fedor Bondarchuk
The Void – Il Vuoto di Jeremy Gillespie e Steven Kostanski
Shock Wave di Herman Yau
Paradox di Wilson Yip
The Merciless di Byun Sung-Hyun
The Battleship Island di Ryoo Seung-wan

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