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[I diari del Lido: il Cineocchio a Venezia 74] Bilancio finale di questa edizione

12/09/2017 news di Giovanni Mottola

2017 anno della rivoluzione: per la prima volta dopo tanto tempo, i film premiati sono i migliori e anche i preferiti dal pubblico. Una riflessione su questo cambiamento di rotta.

La premiazione di sabato sera ha avuto una durata estenuante, tanto che dopo un’ora di cerimonia la maggior parte degli spettatori non aveva ancora udito il titolo di nemmeno uno dei film a cui aveva assistito. Il madrino Alessandro Borghi, barba incolta e orrenda giacca grigio chiara su pantaloni scuri indosso, non ha avuto l’ardire di imporre un ritmo sollecito agl’interventi. Per di più mancava la traduzione simultanea, rendendo necessario il doppio del tempo per ciascuna delle dichiarazioni. Che non erano poche, dal momento che sono stati assegnati, in ordine cronologico, tre premi per il concorso della Realtà Virtuale, due per i restauri, sette per il concorso Orizzonti e otto per il concorso principale. Non stiamo a fare l’elenco dei vincitori, che è cosa già nota; ci preme casomai spendere due parole circa le scelte della giuria e, di conseguenza, il senso e il valore di un evento come la Mostra del Cinema di Venezia rispetto alle logiche cinematografiche.

guillermo del toro leoneIn teoria, una competizione tra opere d’arte non ha ragion d’essere: sarebbe sciocco domandarsi chi valga di più tra Michelangelo e Raffaello o tra Matisse e Picasso. Ma il cinema si considera parte del mondo dell’arte solo per il rotto della cuffia (è la settima …) e dunque si presta al gioco di un concorso dove si vince oppure si perde. Il problema sono i criteri di valutazione, che cambiano insieme a chi viene chiamato a fare da arbitro, ma dovrebbero pur sempre rispondere a una qualche logica che rimane costante nel tempo. In questo senso, la giuria di Venezia 74 con le sue scelte ha compiuto una piccola rivoluzione, che ha prodotto risultati più che mai incontro ai gusti del pubblico, come dimostra il fatto che all’annuncio di ciascuno dei premi si siano uditi unanimi gli applausi della gente. Sarebbe interessante sapere se questo orientamento sia stato voluto oppure casuale. Mai era successo, per esempio, che ad uscire da Venezia con il Leone d’Oro fosse un film “di genere” come The shape of water di Guillermo del Toro (la nostra recensione), una splendida favola che ha divertito e commosso tutti (noi compresi). Era forse il titolo migliore di questa edizione, alla pari con Tre Manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh (che ha ottenuto soltanto il premio per la miglior sceneggiatura / la nostra recensione), così come però La La Land era stato il migliore di quella passata. Curiosamente, i due film hanno anche in comune la capacità di immergere lo spettatore in un ambiente di sogno, se non che lo scorso anno l’opera di Damien Chazelle fu mandata a casa a bocca asciutta (se si eccettua il premio alla protagonista Emma Stone per l’interpretazione).

A cosa si deve questa modifica nella rotta? Si potrebbe spiegare con il cambio della giuria, ma sarebbe come dire che il festival di Venezia può essere di anno in anno rivoluzionato nei criteri di scelta e, se così fosse, rischierebbe di perdere credito come manifesto delle tendenze cinematografiche mondiali, che non possono essere sovvertite ogni dodici mesi. La ragione potrebbe allora essere che, a differenza della storia d’amore di Chazelle, del Toro ne racconta una che lascia intravvedere un messaggio di accoglienza e di rispetto per il diverso e che abbina al sentimento anche un po’ di politica. Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, che è piaciuto altrettanto all’unanimità, racconta uno spaccato di un’America in crisi, privo di un messaggio diretto e univoco su una tesi condivisa da tutti. Alla resa dei conti tuttavia, ha ritirato soltanto un premio minore. Nemmeno l’impegno però è da solo garanzia di successo, perché i film di George Clooney (Suburbicon) e Frederick Wiseman (Ex Libris) – due messaggi forti contro il presidente Donald Trump, come dichiarato dagli autori stessi – sono stati completamente ignorati.

Xavier Legrand veneziaFino all’anno scorso avremmo pensato che questo potesse avvenire in nome della volontà di offrire la principale vetrina a cinematografie lontane e poco conosciute da noi, perché troppo diverse o incapaci di farsi strada in mezzo ai giganti della produzione. Scorrendo l’elenco degli ultimi Leoni d’Oro si trovano infatti titoli la cui distribuzione in sala è mancata (The Woman who left Lav Diaz l’anno scorso), oppure è durata una settimana (Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza di Roy Andersson). Ma questa spiegazione è in contrasto con i risultati di quest’anno, che hanno premiato invece un film a suo modo commerciale, come quello di del Toro, che avrà distribuzione certa e trascurato opere come per esempio quelle di Kore-eda Hirokazu (The Third Murder / Sandome no Satsujin) o Abdellatif Kechiche (Mektoub, My Love: Canto Uno), sulle cui sorti – almeno in Italia – è difficile pronunciarsi.

Difficile dunque dire quale film deve realizzare chi volesse vincere a ogni costo il Leone d’Oro. Difficile anche dire quale sia in generale il senso di un Festival e che cosa ne resti al termine. Di solito si afferma che il suo scopo sia intercettare (parola orrenda) il nuovo nel cinema e offrirlo al pubblico. Ma non è detto che funzioni, dal momento che la grande novità di quest’anno, ovvero la Realtà Virtuale, ha attratto molti spettatori in meno rispetto alla capienza del teatro dove erano previste le sue proiezioni. La traccia più forte che ha lasciato poi il relativo concorso è stata l’immagine del Presidente della sua giuria, John Landis, visibilmente alticcio al momento delle premiazioni. Forse, dopo aver cercato di fornire spiegazioni altisonanti, la conclusione più azzeccata è quella più banale: la Mostra del cinema è una festa che con il suo clima allegro e vario riempie gli occhi e il cuore di coloro che vi partecipano. Questa rubrica ha umilmente cercato di raccontarvelo e di darvi l’illusione di essere qui con noi a godervelo. Ora è giunto il momento dei saluti e, nella difficoltà di trovare parole adeguate per farlo al meglio, conviene rifarsi a quelle usate da uno bravo: se non v’è dispiaciuta affatto vogliatene bene a chi l’ha scritta e a chi l’ha raccomodata. Ma se invece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.

Al prossimo anno.

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